Enrico viveva da solo in un piccolo appartamento, all’ultimo piano di una casa signorile. Quel mattino -si era appena svegliato- aveva ancora chiaro in mente quel particolare che, ultimamente, ricorreva in tutti i suoi sogni, particolare che ad Enrico dava non poco fastidio visto che gli risultava inspiegabile. Così si alzò di malumore. Come al solito ripiegò il lenzuolo e la coperta in modo che formassero un perfetto angolo retto e spalancò la finestra.
Mentre si radeva cercò di ricostruire il sogno. Gli tornarono alla mente le varie persone che lo avevano popolato, facce note e altre sconosciute, persone ancora vive e altre già morte. Un sogno senza una trama ben precisa, fatto essenzialmente di immagini slegate e di qualche dialogo che, per quanto si sforzasse, non riusciva a riportare alla mente.
Erano, ragionò, i soliti sogni che tutti fanno, non fosse stato per quel particolare: quella voglia di colore rosso scuro sulla tempia destra di una delle facce che le erano apparse.
Mentre ripiegava l’asciugamano seguendo i segni della stiratura e lo appoggiava sulla mensola controllando che fosse ben centrato rispetto ad essa si chiese, per l’ennesima volta, che significato potesse avere quella voglia. Dato che non c’era volta in cui sognasse e non comparisse, Enrico la conosceva perfettamente. Si trattava di un’imperfezione della pelle, lunga un paio di centimetri, di fianco all’occhio destro. Aveva una forma tondeggiante e il bordo irregolare. Ad Enrico ricordava certe nuvole che disegnano i bambini, quelle da cui, immancabilmente, spunta un pezzo di sole.
Mise la tazzina del caffè nel lavello dopo averla riempita d’acqua sino al bordo e con uno strofinaccio asciugò alcune gocce d’acqua che si erano depositate sul lucido fondo d’acciaio. Si guardò attorno con aria critica per controllare che tutto fosse a posto e, nel frattempo, calcolò che erano ormai sei mesi che quella voglia compariva regolarmente nei suoi sogni.
Chiuse la porta di casa ed iniziò a scendere lentamente le scale, perso nei suoi pensieri. Provò a chiedersi cosa gli era successo sei mesi prima. Fece mente locale, si sforzò di ricordare qualche avvenimento particolare, degno di nota.
Era impiegato nello studio di un noto avvocato già da quindici anni e, da sempre, seguiva le cause legate al mondo del lavoro. Era quello che, in gergo, viene definito avvocato lavorista. E, in quell’ambiente, non ricordava particolari accadimenti che potessero essere messi in relazione con quella maledetta voglia.
L’unico fatto degno di nota era quello di essersene andato di casa circa un anno prima, ma, che diamine!, aveva trentotto anni, non era più un ragazzino. Se n’era andato quando la convivenza con i suoi era diventata insostenibile.
Enrico fece una smorfia ripensando al caos in cui viveva prima. Nella sua casa era sempre presente un nauseante odore di cibo sin dal mattino presto: per sua madre era un punto d’onore mettersi a cucinare dalle otto del mattino e se ne vantava pure! Per non parlare dei letti rifatti in modo approssimativo e degli asciugamani buttati dappertutto nel bagno e di quella cesta di panni sporchi sempre piena.
Enrico scosse la testa, serrò fortemente i pugni e ispirò a fondo. Ormai erano ricordi che facevano parte del passato, si disse. Aveva drasticamente ridotto i rapporti con la sua famiglia. Solo una volta sua madre, circa sei mesi dopo il suo trasferimento, era venuto a trovarlo nel nuovo appartamento e gli era sembrata molto a disagio. Continuava a tenere in mano la crostata di frutta che gli aveva portato e non aveva voluto accomodarsi su quei candidi divani che non presentavano una grinza. Ad Enrico venne in mente il divano della sua vecchia casa: completamente sfondato, con le molle che spuntavano dal consunto rivestimento, campo di battaglia di tante lotte tra lui e i suoi fratelli.
Alla fine aveva appoggiato la crostata su di un angolo del piano della cucina: Enrico era convinto che se avesse potuto l’avrebbe fatta sparire. Lui, d’altra parte, non aveva fatto nessun gesto per andarle incontro.
La visita era stata molto imbarazzante. Durò in tutto una decina di minuti ed entrambi furono sollevati quando si concluse. L’anziana donna lo salutò timidamente mentre in modo goffo indietreggiava verso la porta. Enrico provò, per un attimo, pena per sua madre per via di quell’aria così confusa e mortificata che le era apparsa, evidentissima, sul volto. Poi, appena fu uscita, spalanco la finestra, annusò l’involucro di carta leggermente unta che ricopriva il dolce e, senza aprirlo, decise di buttarlo nella pattumiera. Con uno straccio umido ripulì il ripiano dove era stato appoggiato. Gli altri familiari avevano capito che non erano particolarmente graditi ed evitarono di presentarsi. Di questo Enrico era loro riconoscente.
Stava per attraversare la strada ed entrare nell’edificio dove lavorava quando, con la coda dell’occhio, vide la voglia. Vide, cioè, una donna che aveva quella voglia. La stessa identica voglia che compariva nei suoi sogni.
Il suo cervello non riuscì a registrare altri particolari: Enrico si bloccò nell’atto di attraversare la strada, quasi avesse avuto un’apparizione. Non avrebbe saputo dire se la donna era giovane o vecchia, carina o brutta, elegante o trasandata. Fece solo in tempo a vedere il portone in cui quella donna si infilava prima di riprendersi dalla sorpresa.
Si erano sfiorati per un attimo, ma era sicuro di quello che aveva visto. Rimase fermo, pensò al da farsi. Guardò ancora quel portone, prese mentalmente nota del numero, poi attraversò la strada.
Per tutto il giorno, al lavoro, quell’immagine non gli diede tregua.
Dopo una notte trascorsa insonne Enrico prese una decisione: “Oggi la cercherò, a costo di suonare tutti i campanelli di quella casa. Sarà una semplice coincidenza, ma voglio andare a fondo della questione. Chissà… forse, poi, quel sogno non mi perseguiterà più…”, si disse.
Partì dall’ultimo piano di quella casa. Era salito in ascensore e ora si apprestava a scendere per le scale deciso a suonare il campanello di ogni appartamento. Si sarebbe presentato come un venditore d’enciclopedie e, per rendere la faccenda credibile, si era procurato una serie di depliant da una libreria che frequentava regolarmente. Sperava, in ogni caso, di non dover recitare troppo a lungo quella parte. Su ogni piano c’erano due alloggi e, complessivamente, vi erano quattro piani.
Respirò a fondo, poi suonò il primo campanello. Alla porta si presentò un uomo corpulento, in canottiera e con addosso i pantaloni del pigiama.
“Buongiorno”, esordì, “desideravo mostrarle un’interessante e convenientissima enciclopedia…”. Fu interrotto a metà frase dall’uomo con un secco: “Non mi serve nulla”.
“Forse potessi parlare con sua moglie sarebbe la cosa migliore, così non la disturberei ulteriormente”, provò ad insistere Enrico. Nel frattempo una donna lo aveva raggiunto.
“Caro, sta solo facendo il suo lavoro. Non essere scorbutico come al solito”, disse rivolta all’uomo in pigiama. Poi aggiunse: “In ogni modo, come le stava dicendo mio marito, non ci serve nulla”. Enrico non rispose: guardò il viso della donna. Un viso florido e liscio, senza nessuna macchia.
Mentre richiudeva la porta la sentì dire: “Vedi? Basta essere gentili. Io l’ho convinto subito, senza essere maleducata. Mi sa che tu non imparerai mai...”.
Enrico si appoggiò contro il muro e cercò di calmarsi.
Al terzo tentativo venne alla porta la donna con la voglia. Enrico cercò di controllare l’emozione che lo aveva assalito e iniziò a recitare la parte che si era preparato. In cuor suo pregò che non lo mandasse via subito, come avevano fatto gli inquilini dell'ultimo piano.
“Buon giorno, Signora. Se mi permette le vorrei illustrare, senza impegno alcuno da parte sua, una nuova enciclopedia proposta a condizioni vantaggiosissime”. Fu fortunato perché la donna gli rispose: “Va bene, purché non debba comprare nulla ora”.
“No, non si preoccupi. Il mio compito è solo quello di far conoscere l’opera. Lei è molto gentile”.
Si sedette all’estremità del tavolo della cucina che la donna aveva in parte liberato dai resti della colazione e ripulito dalle briciole spazzando il ripiano con il palmo aperto della mano. Cercò di nascondere il disgusto che lo aveva assalito nel vedere tutto quel disordine e fece una banale osservazione sul cattivo tempo, decisamente fuori stagione.
Doveva in qualche modo riuscire a spostare il discorso su argomenti generali. Intanto con gli occhi, come ipnotizzato, non smetteva di fissare la voglia. La donna se ne accorse, tanto che con un dito andò ad accarezzarla. Enrico colse l’occasione immediatamente:
“ Ce l’ha dalla nascita?”
“No, anzi è abbastanza recente. Ricordo bene il periodo perché è comparsa qualche tempo dopo che me ne ero andata di casa in malo modo tanto che mia madre ne morì di crepacuore... almeno così sostiene mio padre ”.
Alzò leggermente le spalle, sospirò, poi riprese a dire:
“La cosa strana fu che per un certo tempo sognai proprio questa macchia, identica nella forma e nelle dimensioni. So che farà fatica a crederci, ma le assicuro che è andata proprio in questo modo”.
Enrico annuì, senza parlare.
“Poi, un giorno, iniziai ad avvertire un prurito proprio qui”, continuò, picchiettandosi con il dito la tempia, “e comparve all’improvviso, perfettamente formata. Insomma, una mattina mi svegliai e, specchiandomi, la vidi”.
“Capisco, signora. Certo che la vita è piena di fatti strani… Ma non le voglio fare perdere altro tempo: le lascio il depliant, così potrà guardarlo con calma” disse alzandosi e ignorando lo sguardo perplesso della donna.
Enrico aveva urgenza di andarsene per via di un prurito alla tempia destra che, man mano che la donna parlava, andava facendosi sempre più fastidioso e insistente.
“E’ solo una maledetta suggestione”, pensò. Poi andò a casa, si sedette davanti allo specchio e rimase in attesa.