L'Antica ricetta, uno dei tre polizieschi scritti con Mirella Zuchegna, nasce da questo mio racconto che inviai a Mirella e dalla sua immediata risposta.
Cesarina
Una chiazza rossa comparsa sulla fronte e dalla curiosa forma di fumetto segnava in modo inequivocabile il turbamento di Filippo. Di norma il volto impassibile, gli occhi sporgenti e fissi, le labbra sottili e mai atteggiate ad un sorriso conferivano al bidello la stessa espressività di una mummia, tanto che, da sempre, i ragazzi dell’alberghiero così l’avevano così soprannominato. Complice anche la lentezza con cui reagiva ad una qualsiasi richiesta e al fatto che parlava pochissimo, se non lo stretto necessario e quasi mai di sua iniziativa.
Filippo aveva da poco terminato di pulire le ultime aule che gli rimanevano dal giorno prima e, come sempre, era andato verso la sua scrivania posta a metà del lungo corridoio. Mancava poco all’inizio delle lezioni e i ragazzi stavano arrivando alla spicciolata. Non aveva fatto in tempo a sedersi che, all’improvviso, si era ritrovato a terra, incastrato tra il termosifone che aveva dietro la schiena e la scrivania. Si era rialzato a fatica massaggiandosi la parte del capo che aveva sbattuto, mentre i ragazzi, tutti intorno, ridevano per la scena a cui avevano assistito.
-Andate in classe! Non c’è niente da ridere, disgraziati che non siete altro- aveva bofonchiato.
Poco alla volta si erano allontanati tutti, tranne Vettorelli, un ripetente della quinta B di cucina. Il ragazzo era rimasto appoggiato al muro, le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni, fissando il bidello con aria strafottente e un ghigno odioso stampato in faccia. Sembrava dicesse: “Sono stato io”. Solo il suono della campanella lo aveva indotto ad allontanarsi, con la sua camminata indolente e i passi strascicati.
Filippo l’aveva seguito con lo sguardo, disgustato dalla vista delle mutande che i jeans a vita bassa lasciavano ampiamente scoperte; poi, finalmente solo, aveva esaminato la sedia: le due gambe posteriori erano state segate quasi completamente. La rottura della sedia non era stata, quindi, accidentale.
A questa scoperta, la chiazza sulla fronte divenne ancora più rossa. Era sicuro che l’autore dello scherzo fosse Vettorelli. Perché, infatti, si trovava lì a quell’ora? Normalmente arrivava sempre in ritardo alle lezioni, a campanella suonata già da un po’.
“Stavolta gliela faccio pagare” disse tra sé e sé Filippo.
Tutto aveva avuto inizio quando –era l’aprile scorso- aveva sorpreso il ragazzo a fumare uno spinello in bagno e aveva denunciato il fatto al preside: erano stati convocati i genitori, si era riunito il consiglio di classe e, alla fine, il ragazzo era stato sospeso per un paio di giorni. Da quel momento era stato vittima di scherzi di ogni genere, sovente pesanti da sopportare, per non parlare delle scritte offensive lasciate sulla lavagna o, addirittura indelebili, comparse sui muri della scuola. Così ogni volta che entrava al lavoro non poteva fare a meno di leggere le frasi scurrili che lo riguardavano. A nulla erano valse le sue proteste e la sua richiesta di dare una mano di tinta. “La scuola è di proprietà della provincia: noi non possiamo intervenire sull’immobile” era la monotona risposta che gli veniva dato sia dal dirigente scolastico, sia dal responsabile amministrativo e pure anche dai componenti dell’R.S.U..
Man mano che i minuti scorrevano, il livore di Filippo aumentava come testimoniava il rossore sempre più intenso della chiazza. La testa gli faceva male, mentre riandava con la mente a tutto quello che aveva dovuto subire per colpa di quel delinquente. Oh, che fosse un delinquente non lo diceva solo lui. Quante volte aveva sentito i professori a lamentarsi per la maleducazione e la strafottenza di Vettorelli! Si fermavano al cambio dell’ora davanti al suo tavolo, posavano i registri e i libri e si mettevano a parlare, come se lui non esistesse. Ne aveva sentite delle belle sul conto del ragazzo. Alcuni insegnanti n’erano quasi terrorizzati, tanto che prima di entrare si informavano:
“Oggi c’è? Com’è? Tranquillo?”
Non che a Filippo importasse molto di quel che pensavano i professori -che riteneva gente senza voglia di lavorare, con la puzza sotto il naso e solo capaci a lamentarsi- ma in quel momento era così fuori di sé da prendere in considerazione anche le loro parole. E proprio quelle parole rafforzavano la decisione presa.
A dire il vero era già da un po’ che aveva fatto un piano, mettendo a punto tutti i particolari. L’aveva persino sognato di notte: un sogno vivido e bellissimo, foriero di un intenso piacere.
Tirò fuori da un cassetto della scrivania un quaderno sottile e si mise a sfogliarlo.
Sulla prima pagina aveva scritto il suo nome e cognome in stampatello, sottolineandoli con una biro rossa, mentre su quelle successive, in alto a destra, aveva scritto i numeri partendo dall’uno e fermandosi al cinquantuno, che era esattamente il numero dei suoi anni. In ogni pagina aveva scritto con la sua grafia incerta, a caratteri grandi e insicuri, una data e un appunto sul dispetto ricevuto. E, soprattutto, l’autore. Il nome era sempre lo stesso.
Lo scherzo della sedia lo appuntò a pagina cinquantuno, essendo tutte le altre già compilate: Vettorelli, con quello, si era giocato la sua ultima chance.
Ora era arrivato il momento di agire. La decisione presa e l’eccitazione lo fecero arrossire. Si impose di stare calmo per non destare sospetti.
Al termine dell’intervallo Filippo si avvicinò al ragazzo:
-Il professor Galimberti ti vuole vedere alle tre, giù in cucina.
-La mummia che parla! Come va la testa?- esclamò Vettorelli ridendogli in faccia. Poi aggiunse:
-E cosa vuole da me quel rompiscatole di Galimberti?
-Non lo so. Chiedilo a lui…- rispose l’uomo allontanandosi rapidamente.
Il ragazzo non fu neppure troppo stupito. Galimba –come lo chiamavano gli studenti- non era del tutto normale: trascorreva giornate intere nella cucina del seminterrato dell’alberghiero a provare ricette e a preparare le lezioni per il giorno successivo. Una volta era persino rimasto chiuso dentro alla scuola ed aveva passato la notte nella sala insegnanti: i colleghi l’avevano trovato addormentato il mattino dopo, con la testa appoggiata su un mucchio di circolari. Si era svegliato e, come se nulla fosse successo, era sceso in cucina, al suo posto. Non era raro che, nei suoi esperimenti, si facesse aiutare dagli studenti del triennio. Vettorelli pensò che, se non voleva rischiare di perdere nuovamente l’anno, sarebbe stato meglio accontentare quel pazzoide. Poi, a lui piaceva trafficare con le pentole: quello che non sopportava era stare seduto dietro ad un banco ad ascoltare cose che non gli interessavano neppure un po’.
Il bidello aveva controllato sull’orario: quel giorno il professore di cucina finiva alla seconda ora, quindi non c’era pericolo che Vettorelli potesse incontrarlo e chiedere spiegazioni. E, proprio quel giorno, era di turno al pomeriggio, mentre tutti gli altri avrebbero staccato alle due. La scuola sarebbe stata deserta, ad eccezione di lui e di quello stupido ragazzo.
A Filippo piaceva il turno pomeridiano, quando la scuola era vuota. Finalmente se ne stava in pace senza sentirsi costantemente addosso gli occhi degli altri e senza leggervi dentro antipatia o commiserazione nei suoi confronti, ma soprattutto apprezzava il fatto che non ci fossero i ragazzi. Non li sopportava e odiava il suo lavoro che, invece, lo costringeva a viverci gomito a gomito.
Le vicende della vita e un destino beffardo -o un dio dispettoso- l’avevano obbligato ad accettare quell’impiego, ma ancora rimpiangeva il vecchio lavoro. All’epoca, però, aveva dato ascolto alla vecchia madre che tanto aveva insistito:
“Vuoi mettere? La sicurezza di un lavoro statale e, per di più, pulito! Basta con quell’odore che hai sempre addosso e che mi fa schifo…”.
Vedendolo dubbioso e indeciso, rincarava la dose:
“Sei un egoista, ecco quello che sei! Non pensi a me: ma chi ti lava i tuoi stracci? chi ti rifà il letto? chi ti aspetta la sera con la tavola pronta? Io! Non merito almeno una piccola soddisfazione?”
Stanco di sentirsi ripetere le stesse cose, alla fine aveva ceduto. Sua madre, poi, era morta, ma lui aveva continuato a fare il bidello. Aveva il timore che, altrimenti, sarebbe tornata nei suoi sogni per vendicarsi.
Già da tempo Filippo si era preparato all’evenienza e in un locale non distante dalla cucina -che nessuno utilizzava mai- aveva portato tutto quello che gli sarebbe potuto tornare utile. Per sicurezza aveva chiuso la porta con un lucchetto di cui solo lui possedeva la chiave.
Verso le due, dopo aver controllato d’essere rimasto solo nell’edificio, il bidello scese nella cucina con in mano una mazza da baseball, recuperata nella palestra. Si mise dietro alla porta e si dispose all’attesa. In quell’ora, più volte il viso si imperlò di sudore, mentre le mani stringevano convulsamente la mazza. Era eccitato come non gli era mai successo, ma, nello stesso tempo, era assalito dai dubbi: sarebbe stato capace o aveva dimenticato come si facesse?
Nel silenzio assoluto in cui era immersa la scuola, i passi di Vettorelli risuonarono come le campane di una chiesa di campagna in un sonnolento pomeriggio d’agosto.
“Professore? Sono arrivato…”
L’erre arrotata diede a Filippo sui nervi, esattamente come un’unghia raschiata sulla lavagna. Il ragazzo non fece in tempo ad entrare nelle cucine che la mazza di baseball lo colpì in pieno, tramortendolo. Non senza fatica l’uomo trascinò il corpo fino nel locale che aveva preparato e lo mise su una vecchia cattedra. Si infilò dei guanti di plastica verde, indossò un grembiulone di tela cerata e allineò su un banco i suoi vecchi strumenti di lavoro: un’accetta, una serie di coltelli, un seghetto; a terra una grossa bacinella e dei sacchi di plastica.
Il primo colpo fu vibrato con una sorta di apprensione, ma fu questione di poco. A mano a mano che procedeva, Filippo riacquistò la vecchia sicurezza e l’abilità che l’aveva reso il migliore garzone dell’intero macello comunale: si ritrovò a fischiettare mentre squartava e disossava.
Mentre stava lavorando gli venne all’improvviso un’idea che lo mise ancor più di buon umore. Delle parti migliori ne avrebbe fatto spezzatino, porzionato in sacchetti e messo poi nei congelatori delle cucine, in mezzo alle altre provviste. In quella scuola funzionava l’open restaurant per i professori: Filippo rise a voce alta nell’immaginarseli seduti, tutti compunti, intenti a gustarsi lo spezzatino.
Uscì dalla scuola che era quasi sera, dopo aver pulito tutto per benino e caricato sulla sua vecchia auto i sacchi dei rifiuti. Ora avrebbe dovuto far passare un po’ di tempo per non destare sospetti, ma, nel frattempo, avrebbe potuto tenere d’occhio quella ragazzina, quella che faceva terza e di cui gli sfuggiva il nome…
Quella che, quando gli passava davanti, sculettava in modo indecente e, di sicuro, lo faceva solo per provocarlo.
Mirella
Eccone un altro: questo le ha verdi. E ben tese: sua madre non si è accorta che è cresciuto. Coloraccio, sembra una di quelle mele, quelle inglesi, dal nome. Comprate al mercato, inutile sfoggiare il CK, si vede che è un tarocco”. Valentina saliva le scale della scuola nella truppa fitta delle otto meno dieci, e non le sfuggiva un solo paio di mutande in vista dai pantaloni calati in vita dei suoi compagni. Lei no: a lei piaceva vestire stretto, meglio ancora se con la gonna corta. Troppo forte la faccia delle prof. (“guarda questa, si crede una velina”) o dei prof (“Me la farei subito; se non avesse l’età di mia figlia”). Più o meno: non è che tutti dovessero pensare così, ma guardare le facce era un bell’esercizio e un divertimento. L’unico che non si capiva era la mummia; cioè, si capiva che c’era qualcosa in quella sua testa di cavolo, ma che cosa? Per questo lei gli passava vicino, alle volte, e lo guardava in faccia: cercava di capire le sue espressioni, ma quello non ne aveva. Brutto, però, lo era di sicuro. Brutto e anche un po’ spaventoso. Il bidello più schifoso: sì, faceva proprio schifo. Chissà perché certe persone fanno quell’effetto. Che se poi scopri che era un serial killer non ti meravigli, anche se davanti alle telecamere dici che era una persona normale. Serial killer; quelli però sono intelligenti, sennò come fanno. Magari matti, ma intelligenti: questo invece dietro quello sguardo da pesce scaduto, che vuoi che ci sia!
Valentina si accorgeva appena del corso dei suoi pensieri e intanto era arrivata in classe; mancavano ancora gli ultimi soliti, c’era giusto il tempo di spegnere i cellulari. Anzi no, di silenziarli: basta un po’ di accortezza e il prof che ne sa...
Prima ora, ricevimento: quella arriva solo gli ultimi venti minuti. Valentina si mette a controllare l’agenda del cell, così, tanto per constatare che in fondo non è che abbia tanti numeri: Alberta, Bruno, … mamma, Oscar, che è il suo amico – come fa a piacerle, con quel nome, boh – papà – e quando lo trovi – Roberto; Roberto, quel ragazzo che è sparito. Lei non riesce a farsene una ragione. Vabbè, era nei casini fino al collo: sette in condotta, la bocciatura praticamente decisa a gennaio, in quinta, poi! Odiato dai prof e perfino dai bidelli, tutti praticamente. Non faceva niente per farsi amare, era chiaro. Chissà perché sbagliava sempre: se aveva il cell acceso non lo silenziava, se copiava lo beccavano, se fumava nei cessi lo vedevano uscire sbuffando l’ultima boccata, se guardava in faccia un prof quello si sentiva subito provocato: possibile che non sapesse interpretare un po’ le facce? O lo faceva apposta? Perché uno dovrebbe cercare di farsi del male a diciannove/venti anni? E perché invece no? Mica c’è un’età specifica per odiare se stessi…
Entra qualcuno: toh, la mummia:
- Valentina Dughera, il prof. Galimberti l’aspetta in cucina alla fine delle lezioni.
- Ma se Galimberti ha il giorno libero, oggi!
- Il professor Galimberti la vuole vedere, oggi, alla fine delle lezioni, in cucina.
Calca sulla parola “professor”! Sempre simpatico, la mummia.
Galimberti è un po’ strano, non c’è da meravigliarsi se vuole lavorare anche nel giorno libero. Ogni tanto ne capita uno così, e lui ci tiene: alla cucina e anche ai ragazzi. E’ strano, ma meglio di tanti altri che si vede benissimo che se ne fregano e basta.
La prima ora passa, la seconda e la terza pure; passa l’intervallo, passano le ultime, lentissime. Valentina ha cercato il bidello, e anche Galimberti, per avere chiarimenti, ma non ha trovato nessuno dei due. Fortuna che a casa non l’aspetta nessuno: fino a stasera la mamma non torna. Sarà per questo che l’ha mandata all’alberghiero, per essere tranquilla che si faccia il pranzo da sola, e magari ne faccia anche per lei. Se il Galimba non si fa vivo, almeno può mangiare all’open restaurant. Poi però la mummia la paga! Come quella volta che l’hanno fatto cadere dalla sedia.
Entrare in cucina alla fine delle lezioni, da sola, è un po’ strano, ma a lei piace quando l’atmosfera si fa inquietante.
- Professore? Sono arrivata…
- Bene, Dughera, venga pure.
Il Galimba dà del lei. C’è solo lui a fare così; all’inizio pare strano, ma dopo un po’ non ci si fa più caso.
- Dughera, lei ha seguito tutte le lezioni di cucina, negli ultimi tre mesi, vero?
- Sì, prof. C’è qualche problema?
- Non che la riguardi direttamente.
- Ah, meno male. Allora?
- Allora ho fatto un controllo nel congelatore e non mi tornano i conti.
- Perché ha pensato a me? A lezione c’è sempre lei, lo sa che non possiamo rubare niente.
- Non si tratta di questo: qui c’è della roba in più. Era in fondo, in sacchetti senza etichetta. Ha notato qualcuno che poteva aver messo qualcosa nel frigo? Non possiamo tenere cibi non controllati qui, lo sapete tutti. Di questa carne non risulta nulla.
E che cavolo! Il Galimba si fa dei problemi! Magari una segretaria ha fatto la spesa in abbondanza e a casa ha il congelatore troppo pieno.
- Ho intenzione di avvertire la polizia. Il preside non c’è per una settimana, è una decisione che devo prendere io, ma prima voglio sapere se c’è di mezzo qualche ragazzo. Se lei ne sa qualcosa, le conviene dirlo adesso.
Ma come gli vengono certe idee, a questo! E’ un problema da polizia?!
Valentina è nervosa. L’ultima volta che ha visto il congelatore riempirsi di cibi nuovi è stato più o meno tre mesi prima, proprio quando è sparito Roberto. Ma che c’entra? Erano tutte confezioni regolarmente etichettate, almeno a quello che aveva visto lei. Poi il prof glielo fa sempre notare, fissato com’è con il rispetto delle regole…
- Lei non sa niente di quel ragazzo che è sparito? Potrebbe essere stato lui; lei lo conosceva…
- L’ho incontrato poche volte, non ne so niente.
- La polizia lo cerca ancora; sarebbe l’occasione giusta per metterlo nei guai definitivamente. Forse è meglio avvertirlo.
- Ho il suo numero di cellulare, ma sa che non è stato ritrovato da nessuna parte. Lo hanno chiamato in tanti, non ha risposto mai…
Istintivamente Valentina estrae il suo cellulare, cerca in rubrica il numero di Roberto, schiaccia il pulsante. Dallo sgabuzzino accanto si sente con chiarezza la suoneria: il motivetto lacerante di Psyco.