Seduto alla scrivania guardo la mia collega con il solito misto di invidia-ammirazione-fastidio in percentuali variabili in base ai momenti.
È un lunedì mattino, uggioso e freddo, e lei sorride come si trovasse ad una festa e non in ufficio. Iperattiva com’è, mi fa venire la nausea solo a guardarla proprio come quando il mare è mosso.
Veste il tailleur grigio d’ordinanza: gonna appena sotto il ginocchio, giacca dal taglio maschile ravvivata da un foulard di seta dai colori vivaci, annodato con grazia al collo.
“Hai trascorso un buon fine settimana?” mi chiede cinguettando mentre legge alcuni fax che ha trovato sulla sua scrivania.
“Di merda” avrei voluto risponderle; invece, per non iniziare male la giornata, ho biascicato un “Normale amministrazione.” Tanto non avrebbe capito; per lei era sempre tutto “issimo”: benissimo, bellissimo, indovinatissimo, fighissimo.
Ha sollevato lo sguardo dai fogli, mi ha piantato addosso i suoi affascinanti occhi grigi e, dopo avermi esaminato, ha sentenziato:
“In effetti hai l’aria un po’ stanca.”
Irina ha stupendi occhi grigi, da gatta. Dubito, però, che sappia fare le fusa.
Mentalmente, in quella piccola frazione di tempo, ha preso pure nota della cravatta non in tinta con la camicia e del bottone mancante della giacca. Mancanza di cui me n’ero accorto pure io quando, ormai, ero per strada. Tra arrivare in ritardo al lavoro per tornare indietro a cambiarmi ed essere giudicato trasandato (anzi, trasandatissimo per dirla alla sua maniera) dalla collega ho preferito la seconda alternativa.
Sotto il suo sguardo da esaminatore decido di bluffare:
“Accidenti, mi manca un bottone della giacca… Sarà finito sotto la scrivania: mi aiuti a cercarlo?”
Ha scosso la testa in segno di diniego e ha fatto quel sorrisino che fa sempre quando non capisce se sto parlando sul serio e se la sto prendendo in giro. In ogni caso reggo il bluff, scivolo sotto la scrivania e faccio finta di cercare il bottone. Da quella posizione ammiro le sue caviglie sottili e i polpacci ben torniti.
Riemergo con un “Non lo trovo” e sprofondo sulla poltrona mentre lei è già alle prese con il lavoro.
Esauriti in quel modo i convenevoli del lunedì mattino, medito con che cosa posso dare inizio alla settimana lavorativa. Indubbiamente le cartelle con i lavori in sospeso che ricoprono la mia scrivania mi offrono una vasta opportunità di scelta. Forse troppa, tanto che non riesco mai a decidermi.
La scrivania di Irina è, ovviamente, ordinatissima. Le pratiche evase formano una pila notevolmente più alta di quelle inevase: in mezzo la foto del fidanzato in cornice di vero argento, il portamatite griffato e il sottomano lucido e piatto. Guardo il mio che sembra sformato a forza di infilarci dentro fogli, foglietti e lettere.
Lavoro un po’, senza passione e senza coinvolgimento. Di tanto in tanto alzo la testa e guardo Irina, indaffarata e sorridente, convinta che le sorti della multinazionale dipendano in gran parte da lei e dal suo lavoro.
Sono lunghe otto ore da trascorrere in ufficio e la mia compagna di sventura non fa assolutamente nulla per rompere la monotonia e alleggerire la situazione.
Finalmente squilla il suo cellulare e rompe il silenzio opprimente dell’ufficio. Stavo aspettando quel segnale con una certa impazienza rappresentando, per me, un diversivo allettante. Controllo l’orologio: sono le undici precise e questo significa che il mio orologio funziona bene. E’ la telefonata quotidiana del fidanzato che, immancabilmente, fa squillare il telefono di Irina alle undici esatte dal lunedì al venerdì.
Una volta le ho chiesto se aveva un fidanzato svizzero pensando di farla almeno sorridere per la battuta, ma la sua risposta è stata estremamente seria. Testualmente mi ha detto:
“Ma come ti viene in mente? E’ di Novellara da diverse generazioni!”
Manco le avessi chiesto se il fidanzato proveniva da Marte!
Risposte del genere hanno il potere di smontarti e di demotivarti profondamente: insomma, uno perde fiducia in se stesso.
Durante la telefonata risponde a monosillabi, imbarazzata, fa risatine sciocche, mi lancia frequenti occhiate per controllare se la controllo. Io resto impassibile e ricambio le sue occhiate. So che questa situazione la mette a disagio, ma non ho proprio nessuna voglia di facilitarle la vita. La telefonata dura di solito dai tre ai quattro minuti e per tutto il tempo la guardo con aria accondiscendente, quasi paterna: non può uscire perché in corridoio ci sono sempre colleghi che vanno avanti e indietro, per non parlare della possibilità di incontrare il capo-ufficio, così non le resta che sopportare la mia presenza.
Appena termina la telefonata mi stiracchio e le comunico che vado alle macchinette. Faccio così ogni giorno: aspetto la fine della telefonata prima di concedermi la pausa caffè.
“Vuoi qualcosa?” chiedo premuroso.
Scuote la testa.
“Nessuna cattiva notizia, spero…”
Scuote nuovamente la testa, arrossendo un po’. Sono certo che arrossisce per rabbia.
Nel primo pomeriggio il capo entra all’improvviso: si piazza a gambe divaricate in mezzo alle nostre scrivanie e senza guardare in faccia né me né Irina dice: “Mi serve uno di voi per una pratica”.
La mia noia è tale che, pur di allontanarmi dalla scrivania, sono pronto ad accettare l’incarico. Non faccio tempo ad aprire bocca che la mia collega è già in piedi:
“Eccomi!”
Nel lasciare l’ufficio manco mi guarda: esce con il suo impeccabile tailleur, sorridendo, perfetta e appagata.
La odio. Mi ricorda la mia compagna di classe delle elementari –chissà che fine avrà fatto?-, una bambina magrolina dalla faccia a punta, come il muso di un topo, che nelle gare di aritmetica non dava mai a nessuno la possibilità di rispondere.
“Sei per sette? Quarantadue!”: lo sapevamo tutti che sei per sette fa quarantadue, ma lei lo annunciava con tono soddisfatto come fosse merito suo e sempre un attimo prima degli altri.
Era la prima della classe, la cocca della maestra. Vinceva tutte le gare e, al sabato, si fregiava della coccarda blu, riconoscimento al bambino che si era mostrato più diligente durante la settimana. Solamente nel canto era una schiappa perché stonata come una campana rotta, però, nonostante questo, era l’unica che imparasse a memoria, sin dal primo giorno, le parole delle canzoncine che la maestra ci insegnava.
Scommetto lo stipendio che Irina è stonata: quando torna glielo chiedo.
Intanto mancano ancora due ore e quarantatre minuti alla fine della giornata.
Tre minuti li passo ad osservare una grossa cimice di un verde ancora brillante che è riuscita ad entrare nell’ufficio per ripararsi dai primi freddi autunnali e che, tranquilla, passeggia sul davanzale della finestra. Altri tre minuti occorrono per farmi venire in mente uno scherzetto per Irina, e, per la prima volta nella giornata, provo un brivido di eccitazione.
Mi avvicino alla finestra con in mano un foglio di carta e con delicatezza lo poso davanti alla cimice. L’insetto, dopo un attimo di indecisione, ci sale sopra. Allora, senza scossoni, prendo il foglio con entrambe le mani, mi avvicino alla stampante di Irina e con piccoli colpetti convinco la bestiola a scendere dal foglio e a infilarsi nella fessura dell’alimentazione della carta; l’impresa si rivela più facile del previsto: probabilmente la cimice è attratta dal tepore che proviene dalla macchina. Per un istante provo un vago senso di colpa nei suoi confronti, poi penso che, comunque, il suo destino era segnato: presto sarebbe diventata di colore marrone scuro e sarebbe morta rinsecchita in qualche squallido interstizio.
Faccio in tempo a tornare al mio posto e a riprendere il lavoro quando Irina entra in ufficio con la sua solita aria efficiente e indaffarata. Si siede e inizia a scrivere al pc, ovviamente senza guardare la tastiera e utilizzando le dieci dita, gli appunti che le ha dato il capo. Per fare questo impiega non più di due minuti.
Guardo con una certa apprensione la stampante e mi auguro che la cimice non decida di uscire proprio ora. Ormai si tratta di questione di secondi.
La macchina si mette in moto.
“Irina, posso chiederti una cosa?”
“Dimmi”
“Sei intonata?”
Un urlo di ribrezzo le esce dalla bocca nel vedere il foglio con sopra, spiaccicata, la cimice.
L’occasione è ghiotta e non mi trattengo.
“Beh…bastava che mi dicessi di no: mica era il caso che me lo dimostrassi pure!
Mi dà dello stronzo.
Decido di fare l’offeso, almeno fino a domani.
Per intanto questo lunedì è andato meglio del previsto.