Fiorenza si asciuga le mani nel grembiule.
Ha servito gli abituali, vecchi clienti, quelli che vanno da lei tutti i santi giorni dell’anno, feste comprese, per trascorrere il pomeriggio in compagnia, giocando a tarocchi e bevendo del vino schietto. Ora ha un po’ di tempo per sé, pensa, mentre si sistema una ciocca di capelli sfuggita dallo stretto chignon e si avvia verso la porta che si affaccia sul retro della casa. A dire il vero l’osteria non le dà troppo lavoro: in quell’angolo sperduto delle Langhe, la gente di passaggio è rara e non c’è nessuna insegna ad indicare il suo locale se non una piccola scritta, ormai sbiadita dal tempo, proprio sopra la porta. Così, a frequentare il bar, ci sono solo i vecchi del paese e, alla sera, gli uomini che rientrano dal lavoro. Il giorno in cui era andata, per la prima volta, a ritirare la pensione, Angiolina, l’impiegata della posta, le aveva chiesto: “Che fai, ora? Chiudi?”. Era rimasta molto sorpresa da quella domanda. Lei, infatti, non aveva mai pensato alla possibilità di chiudere avendo sempre considerato l’osteria la sua casa e i vecchi del posto la sua famiglia. “Come si fa chiudere la propria casa?” si era detta perplessa in quell’occasione, rimanendo però in silenzio sotto lo sguardo indagatore di Angiolina.
Fiorenza si siede sotto il pergolato, su una vecchia panca di legno.
Da quella posizione può spaziare con lo sguardo tutto intorno: conosce a memoria il dolce profilo delle basse colline che la circondano, ma non si stanca mai di ammirarle. In quel sonnolento pomeriggio d’agosto l’aria è calda e immobile; il silenzio è rotto solo dai vivaci commenti dei giocatori accompagnati e di tanto in tanto, dal sordo rumore di pugni sbattuti sul tavolo per sottolineare la forza della giocata appena fatta. Il suo sguardo si sofferma sulla vigna di Battista, la più grande della zona che, da sola, ricopre l’intera collina, e il ricordo affiora, mai dimenticato.
Allora era poco più che una ragazza e nella stagione estiva, senza l’impegno della scuola, dava volentieri una mano ai suoi nell’osteria. Tra i clienti, quell’estate, c’era un giovane uomo, un forestiero: arrivava in sella a una Guzzi rossa fiammante, la parcheggiava nello spiazzo di fronte al bar, poi entrava, solitamente per mangiare un boccone oppure a bere un caffè. Invariabilmente si sedeva al tavolino d’angolo, dando le spalle alla finestra, come se non gli importasse nulla del panorama. Era l’uomo più bello che Fiorenza avesse mai visto e sovente si incantava a guardarlo. Un giorno, mentre gli serviva da bere, l’uomo, inaspettatamente, le aveva chiesto come si chiamasse. La giovane aveva risposto quasi bisbigliando, rossa in viso e, subito dopo, era corsa a rifugiarsi nel retro dell’osteria, uscendone solo quando fu certa che l’uomo se n’era andato.
Fu un’estate particolarmente calda, almeno a sentire i vecchi del posto. “Se va a avanti così si dovrà vendemmiare presto” dicevano guardando la terra arsa dal sole così dura da sembrare pietra e asciugandosi il sudore con grossi fazzoletti colorati. Anche i cespugli di rose, piantati davanti ad ogni filare, sembravano soffrire il gran caldo. Fiorenza, invece, era felice di starsene senza calze, con gli abitini di cotone leggero, senza maniche e scollati che mettevano in risalto i suoi seni, la vita sottile e le gambe affusolate: ogni anno attendeva con ansia la bella stagione che per lei significava libertà, fosse anche solo dagli abiti pesanti e informi che l’inverno le imponeva di indossare. Talvolta, quando era certa di essere sola, entrava nella camera dei suoi e indossava l’abito di seta che sua madre teneva chiuso nell’armadio per le grandi occasioni: era bianco con piccoli fiori rossi, il corpetto stretto e la gonna ampia. Fiorenza, allora, si rimirava nel grande specchio, poi si scioglieva i capelli e muoveva qualche passo di danza girando su sé stessa in modo da avvolgere la gonna attorno alle gambe. Le piaceva fermarsi di colpo e sentire la gonna scivolare delicatamente sulle cosce come una carezza prolungata. Anche il forestiero, un giorno, mentre stava per salire sulla sua moto, le aveva detto che aveva la grazia di una ballerina e nel dirlo si era soffermato a lungo con lo sguardo sul suo corpo. Si era sentita spogliare e aveva provato nello stesso tempo imbarazzo e un piacere sconosciuto.
Fu verso la fine dell’estate, quando l’uva era già matura, che l’uomo le aveva sussurrato : “Ti aspetto stasera alle dieci lassù, dietro all’ultimo filare” indicando con il capo la vigna di Battista. Non aveva aggiunto altro e si era allontanato, lasciando sul tavolo i soldi della cena.
Quella sera sua madre non l’aveva persa di vista un solo attimo e alla sua richiesta di uscire per fare due passi aveva risposto con un “t’accompagno”. Così, alla fine, era salita nella sua camera ed era rimasta affacciata alla finestra sperando di intravederlo nell’oscurità. Quando, passato di poco le dieci, aveva sentito il rombo della moto allontanarsi tra le colline, si era buttata sul letto e aveva pianto a lungo. Fiorenza, poi, aveva trascorso i giorni successivi nell’attesa di rivederlo per dirgli che non era colpa sua se non si era presentata all’appuntamento, ma ogni sera andava a dormire sempre più sconsolata e delusa, fino a quando il tempo non ne aveva sbiadito il ricordo.
A volte, però, Fiorenza sale su per la collina, fino all’ultimo filare, e lassù sogna una vita diversa.