“Pesa, pesa, pesa.”
Così diceva Nanni a voce alta –ripetendo, come suo solito, la stessa parola per tre volte in rapida successione- mentre percorreva a passo veloce il corridoio del piano terreno. Si riferiva al faldone che portava sotto il braccio e che teneva ben stretto come fosse un tesoro dal valore inestimabile. Di tanto in tanto si sedeva su una delle panchine addossate alle pareti, slegava con cautela i nastrini di stoffa e sfogliava le carte che vi erano contenute. Subito dopo si rimetteva in cammino, come se avesse tutto lui da fare. Non stava mai completamente fermo: anche quando era seduto le sue mani, magre e nervose, si muovevano freneticamente per tirare fuori i fogli e risistemarli dopo averci dato una breve occhiata.
“Devo andare. Via, via, via.”
Riprendeva così a camminare, andando avanti e indietro per il corridoio con la testa bassa, il mento quasi a toccare il petto, mentre gli occhiali dalle spesse lenti gli scivolavano fino sulla punta del naso. Nella bella stagione, a volte, usciva nel parco sempre trascinandosi dietro il suo faldone. Ci andava, però, mal volentieri e solo se obbligato: temeva che una folata di vento facesse volare via i suoi fogli. Anzi, ne era terrorizzato.
In quel vecchio manicomio Nanni era una sorta di istituzione: ne aveva visti passare di infermieri, direttori, medici in quarant’anni di ricovero! Stavano per qualche tempo, poi se ne andavano sostituiti da altri, ma lui era sempre lì ad accogliere i nuovi con il suo sorriso sdentato e la sua curiosità infantile.
“Nome, nome, nome” chiedeva come prima cosa a chi arrivava e, non appena riceveva risposta, si allontanava soddisfatto.
A ricordare la sua storia c’era solo una scarna cartella clinica, ingiallita dal tempo. Prima del ricovero era un giovane uomo, senza famiglia e gran lavoratore: apprendista muratore, così c’era scritto accanto alla voce “professione”; geometra in corrispondenza del “titolo di studio”. Nanni, infatti, aveva frequentato, con grande sacrificio, una scuola serale spinto dalla fidanzata ambiziosa. Erano stati anni massacranti e quando la fidanzata l’aveva lasciato –dalla cartella si evinceva il fatto e non il motivo- Nanni aveva perso la ragione. “Psicosi maniaco-depressiva” gli era stato diagnosticato. Il ricovero avvenne in una calda giornata di giugno. Era il 1938. Da allora non era più uscito e nessuno l’aveva mai cercato.
Nanni era innocuo e godeva di piccoli trattamenti di favore, come quello di poter girare a suo piacimento per l’intero edificio. A lui piaceva, soprattutto, stare vicino agli uffici amministrativi del piano terreno. A volte faceva capolino nelle stanze: “Foglio, foglio, foglio” diceva, per uscirne felice con un pezzo di carta da mettere ordinatamente insieme agli altri. Quando il faldone era pieno, a malincuore, toglieva i fogli più vecchi archiviandoli in un grosso scatolone che teneva vicino al letto.
Nonostante fosse sempre di corsa e indaffarato con le sue carte, Nanni ascoltava e osservava e, da un po’ di tempo, quello che sentiva e vedeva non gli piaceva per nulla.
‹‹…Entro fine anno si deve chiudere… Tutti fuori, liberi… La legge parla chiaro: più nessun ricovero e quelli che sono dentro devono tornare a casa…››
Quei discorsi li aveva sentiti fare svariate volte dagli infermieri, dagli inservienti, da tutti. A spaventarlo era stato il tono perplesso e insicuro di chi non sa bene che cosa stia per capitare. Li aveva sentiti parlare delle loro nuove destinazioni e chiedersi: “Che cosa succederà dei matti?”.
A Nanni piaceva la parola matto. Matto, a lui, faceva venire in mente mattone: quanti ne aveva portati, messi incrociati, uno sopra l’altro, su di una spalla e tenuti fermi con un braccio! Così carico si arrampicava su scalette appoggiate in precario equilibrio all’impalcatura, agile come un furetto, e se non erano mattoni, erano secchi pieni di cemento fresco.
Poi erano iniziati strani movimenti: un intero piano era stato chiuso, molti ricoverati se ne erano andati. C’era un’aria particolare tutto intorno, un’aria che lo preoccupava.
“Guaio. Grosso, grosso, grosso.”
A fargli sospirare quelle parole, una frase sentita nel pomeriggio: ‹‹Il vecchio Nanni è un problema. Non ha nessuno…››.
Lui non voleva andarsene.
La neve, quella notte, scendeva copiosamente, leggera e asciutta. Nanni, seduto sul cornicione con le gambe a penzoloni nel vuoto, aveva aperto il faldone. Era stato facile arrivare fino lì, attraverso l’abbaino, ora che l’edificio era quasi deserto. Prese i fogli in mano e li fece volteggiare nell’aria come enormi fiocchi di neve, uno dietro l’altro.
Sorrideva Nanni, quando si lasciò dolcemente scivolare dietro ai suoi fiocchi di carta.
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Racconto pubblicato sull’antologia EDI-THON (Edizioni Penna d’Autore, 2008)