Ai lettori Pag. 3 (Redazione)
Balangero e le grandi epidemie del passato Pag. 5 Fabio Enrici Bellom
La cappella di San Vittore di Balangero:
riflessioni su una festa antica Pag. 19 Silvano Antonelli, Enrico Bo
Un paese in processione Pag. 24 Enrico Bo, Cesarina Bo
Una piazza dai tanti nomi Pag.35 Cesarina Bo
Vittorio Airasca:
l’uomo, il medico, il viaggiatore Pag. 44 Enrico Bo
Indice generale Pag. 77
Da "Balangero e le grandi epidemie del passato"
di
Fabio Enrici Bellom
[...] Per quanto riguarda l’epidemia [della peste] del 1630-31, numerose testimonianze restano nei registri parrocchiali di battesimi, matrimoni e morti. La necessità di evitare o contenere il contagio incideva infatti anche sulle funzioni religiose.
Il 28 giugno 1630 un bambino fu battezzato, necessitatis tempore pestis, non dal parroco Don Perino, bensì da tale Ruffino Reineri figlio di Antonio, balangerese. Al neonato fu imposto il nome di Rocco, probabilmente proprio in omaggio al Santo patrono degli appestati. Così fu per tutti i bambini nati in quei mesi, i quali vennero battezzati in domo causa pestis dal parroco o da altre persone, poiché il diritto canonico ammette che in caso di necessità il battesimo possa essere amministrato anche dai laici. Le opportune cerimoniae et preces vennero poi effettuate in chiesa dopo la conclusione dell’emergenza, a partire dal maggio 1631.
I matrimoni nel corso del 1630 furono invece solamente due e per il secondo, celebrato il 25 novembre 1630, Don Perino annotava che esso avveniva denunciationis … omissis causa pestis.
L’analisi del registro dei decessi ci consente invece di rilevare il numero di morti avvenute nel corso dei dieci anni precedenti e successivi all’epidemia. Scopriamo così che l’impatto del morbo tra i balangeresi non fu tale da causare un gran numero di vittime. Il tasso di mortalità ravvisabile negli anni 1630-31 appare infatti perfettamente rientrante nella media del ventennio [...]
Il passaggio dell’epidemia di peste del 1630-31 ha lasciato tracce anche nella devozione popolare. Negli anni successivi all’epidemia venne infatti costituita a Balangero la Confraternita di San Rocco e Santa Croce, che portò nel 1646 circa all’edificazione della cappella dedicata al Santo, all’interno della quale è tutt’oggi conservato un dipinto che unisce in un’unica raffigurazione anche San Sebastiano.
I due Santi sono infatti invocati quali protettori contro il temibile morbo: San Rocco per aver contratto personalmente la malattia, che nelle rappresentazioni del Santo viene iconograficamente ricordata con una piaga sulla coscia; San Sebastiano per aver patito il martirio venendo trafitto da frecce che produssero su di lui ferite assimilabili alle piaghe pestifere.
La doppia dedica deve aver funzionato, giacché quella del 1630-31 fu l’ultima epidemia di peste che toccò il territorio balangerese e il Piemonte.
Da "La cappella di San Vittore di Balangero: riflessioni su una festa antica"
di
Silvano Antonelli
[...] Non voglio mitizzare quella che alcuni possono pensare come una delle tante feste di paese ma voglio affermarne l’importanza, l’estrema importanza per la comunità-paese di Balangero.
Un piccolo aneddoto a testimoniarlo.
Qualche anno fa chi scrive si era fatto promotore di una mostra sulla “Festa dei Coscritti”, che fu realizzata nei locali del Municipio, in concomitanza con i giorni e le sere in cui la festa era in corso.
Furono raccolte molte fotografie. Alcune di inizio Novecento.
E molti foulards. Quelli che i coscritti portano al collo pendenti sulla spalla.
Quelli che, per i diciassettenni, sono solo fantasie floreali mentre per i diciottenni e i diciannovenni sono ricamati col nome e l’anno di nascita.
Di questi foulards ne arrivarono moltissimi. Alcuni di fine Ottocento.
Di fianco alle “cose” arrivarono anche i racconti. Tanti. Di tante persone di tutte le età.
Uno fra tutti.
Un anziano signore mi raccontò che, durante la seconda guerra mondiale, i giovani erano al fronte, lui tra questi, e la Festa dei Coscritti non si poté fare.
Nonostante questo chi era rimasto a casa, magari non più giovanissimo, trovava il modo, in quei giorni di andare a San Vittore. Quasi a voler tenere viva la fiammella di quella festa.
Quando la guerra finì, a fine aprile del 1945, molti tornarono e, pochi giorni dopo, l’8 maggio 1945 la “Festa dei Coscritti”, mi disse, fu una cosa incredibile. C’erano quelli che avrebbero dovuto farla in quell’anno e quelli che non avevano potuto farla negli anni precedenti perché in guerra. Mi disse che tutti i negozi avevano chiuso. C’era un entusiasmo travolgente.
Qualcuno dei ragazzi disse che bisognava portare una bandiera a San Vittore.
La cosa era molto pericolosa. Ancora non erano finiti del tutto i pericoli della guerra. In montagna si potevano nascondere persone in fuga. Ma la festa aveva “bisogno” di quel luogo.
Chiesero al prefetto il permesso di salire a San Vittore. Il prefetto lo accordò a patto che fossero due persone e facessero molta attenzione.
Chi mi raccontò queste cose mi disse che, salendo, furono bersaglio di alcuni colpi di fucile. Ma riuscirono a salvarsi e a portare la bandiera italiana a San Vittore.
In quei giorni in cui la Festa dei Coscritti si sovrapponeva a quella per la Liberazione.
Di tutte queste cose e di molte altre è custode quel luogo, quella piccola cappella in cima a una montagna.
Da "Vittorio Airasca: l’uomo, il medico, il viaggiatore"
di
Enrico Bo
[...] Ormai il paese era orgoglioso del suo medico condotto, burbero, essenziale, le cui parole erano come delle sentenze. I suoi rimedi risultavano efficaci e se appariva distaccato e troppo algido nei suoi rapporti, tutto gli veniva perdonato non solo per la sua alta professionalità ma perché tutti i balangeresi ricordavano il costante impegno dal suo arrivo in paese. Certo non mancavano pettegolezzi sui suoi presunti flirt, ma lui non badava a questo. Aveva la piena consapevolezza che una persona pubblica –e lui lo era indubbiamente− doveva assoggettarsi alla curiosità sulla sua vita privata da parte della gente.
La sua passione per i viaggi non sembrava scemare. Sovente parlava con il dottor Audrito, il nuovo farmacista del paese, di nuove mete ma sembrava risentire del carico di lavoro per poter affrontare viaggi troppo impegnativi. [...]
[...] Tutto poteva immaginare il dottore fuorché, di lì a poco, di dover fare una diagnosi infausta su sé stesso. Nell’ottobre del 1954 la comparsa dei primi sintomi, pochi esami furono sufficienti per avere la certezza di un male incurabile che lo avrebbe portato a breve alla fine dei suoi giorni. Immancabile il confronto/consulto con un suo collega, il professor Attilio Odasso del San Giovanni vecchio. Conoscendo quanto sarebbe accaduto, il dottore decise di concedersi un ultimo regalo dalla vita a sua disposizione. Mancava nella sua mente e alla sua vista quel mondo così distante e così inusuale per abitudini, mirabilmente descritto da Salgari alla fine dell’Ottocento, che tanto aveva infiammato la sua immaginazione da ragazzo. La decisione fu presa in breve tempo. Il 15 dicembre 1954 richiese alla giunta municipale la concessione di un periodo di congedo ordinario e straordinario per complessivi giorni 45 per compiere, scrive, “un viaggio di istruzione all’estero”.
Gli fu concesso il congedo e, a sostituirlo, un medico supplente individuato nel dottor Casimiro Bianco.
Un viaggio di istruzione l’aveva definito il dottore: non certo professionale, ma di vita.
Iniziò così il 1° febbraio 1955 la crociera aerea in India e Ceylon [...]