Due eventi A e B si dicono incompatibili se il verificarsi dell’uno esclude il verificarsi dell’altro.
All’altare, davanti ad ogni statua, in ognuna delle cappelle laterali della chiesa settecentesca, maestosi mazzi di gigli candidi emanavano un intenso profumo dolciastro.
Dietro ad una colonna osservavo la chiesa gremita d’invitati per la cerimonia nuziale. La calura estiva, di poco mitigata dalle spesse mura del vecchio edificio, e l’odore intenso dei gigli, mi stordivano tanto che sentivo il bisogno di appoggiarmi alla colonna di marmo per trovare un po’ di sollievo. I posti a sedere erano occupati sia dai numerosi invitati sia dalla gente del paese che non aveva intenzione di perdersi il matrimonio per nessun motivo al mondo. Quella cerimonia rappresentava un evento mondano per la comunità e sarebbe stata argomento di conversazione per almeno un’intera settimana.
L’organista, venuto da fuori, stava suonando Liebster Jesu, mein Verlangen di Bach quando la giovane sposa fece il suo ingresso, a braccetto del padre. Lui, lo sposo, di vent’anni più vecchio, il farmacista del paese, era immobile ai piedi dell’altare ad attenderla e la sua faccia, se non per un certo pallore, non rivelava alcuna emozione particolare.
Non gli avevo ancora staccato gli occhi di dosso: fissavo il suo volto quasi a voler memorizzare ogni singola ruga, i capelli corti e brizzolati, la linea della bocca. Mi era facile immaginare i muscoli del suo corpo, sotto l’elegante vestito da cerimonia.
Erano due anni che lavoravo alle sue dipendenze: ero poco più che adolescente quando avevo iniziato, come aiutante. Sistemavo le medicine sugli scaffali, tenevo in ordine il magazzino, controllavo le scadenze e, all’occasione, davo una mano dietro al bancone. Al momento dell’assunzione tutti in paese erano rimasti stupiti per la scelta fatta dal farmacista: quel posto era ambitissimo e non erano mancate raccomandazioni varie. Si era pure mosso il medico e gli aveva suggerito una giovane ragazza, sua cugina di secondo grado. Ma il farmacista era stato irremovibile: aveva scelto me, che vivevo in un altro paese, e senza raccomandazione alcuna. Un giorno mi confessò che era rimasto attratto dal mio carattere timido e schivo e che adorava vedermi arrossire. E a farmi arrossire si era divertito molto, sin dal primo momento: qualche battuta, qualche apprezzamento, qualche carezza data, quasi distrattamente.
La farmacia era ancora chiusa, quel giorno in cui mi aveva raggiunto nel magazzino. Si era messo a lavorare accanto a me, in silenzio, sfiorandomi le mani ogni qualvolta gli passavo i medicinali, fino a quando, all’improvviso, non le aveva tenute strette tra le sue. Mi aveva guardato negli occhi e con voce roca mi aveva detto che non dovevo aver paura, che era tutto naturale tra due persone che si volevano bene. Poi aveva aggiunto: “Tu mi vuoi bene?”. E io avevo annuito, con l’animo confuso e con i sensi eccitati e, su tutto, con un bisogno enorme d’amore.
I sensi di colpa che erano via via affiorati con il passare del tempo, lui li aveva placati con i suoi serrati ragionamenti.
“Non facciamo del male a nessuno, ne convieni? Io ti faccio star bene, vero tesoro? Non puoi negarlo perché è troppo evidente! E tu fai star bene me, e questa è una cosa molto bella. Quando sarà il momento non ci nasconderemo più, te lo prometto e vivremo insieme: devi, però, aver fiducia! Capisci bene anche tu che ora è cosa impensabile: sei troppo giovane e la gente è ottusa e cattiva… la gente non capisce, giudica ed etichetta… Dimmi, vuoi addosso un’etichetta? È questo quello che vuoi? Io sono vecchio e ho le spalle larghe: tu no, tu non reggeresti. Ricordi la tua solitudine di prima? E quanto ti pesava? Sembravi un cucciolo spaurito, prima.”
E mentre mi parlava con la sua voce profonda mi accarezzava, talvolta smetteva di parlare per baciarmi. Ascoltavo in silenzio, fino alle ultime domande, sempre le stesse, quelle che pronunciava con tono definitivo, fissandomi negli occhi e pretendendo che non abbassassi il mio sguardo.
“Pensaci bene prima di rispondere: non mi vuoi più bene? Non ti piaccio più? Desideri davvero farmi star male?”
No, no, no. Non dicevo altro che quella sillaba, ripetuta, rafforzata dal movimento di diniego del capo sotto quelle domande rivolte con così grande serietà e calma.
“Ecco, così mi piaci! Vieni, andiamo di là: so cosa ti serve per tranquillizzarti e farti passare certe brutte idee…”
Mi riscossi. Le note dell’Alleluja risuonavano solenni per tutta la chiesa. Provai a concentrarmi sulla coppia inginocchiata ai piedi dell’altare. Entrambi erano pallidi, forse per il caldo, forse nauseati dal profumo dei gigli o, forse, perché emozionati.
Anche il giorno in cui mi aveva comunicato che doveva sposarsi perché aveva messo incinta una giovane ragazza mi era sembrato pallido: unico segno concesso al suo disagio.
“Ma tra noi non cambierà nulla: è solo uno stupidissimo incidente. Io voglio bene a te, e tu lo sai. Lei non farà mai parte della nostra vita: avrà suo figlio e vivrà per lui. Io voglio te: è la gente con quella sua morale da quattro soldi che pretende questo matrimonio riparatore. Se sapessero di noi griderebbero allo scandalo. Non avremmo nulla da guadagnare noi due, ma solo da perdere. Tu lo capisci, vero?”
Avevo annuito, senza dire nulla. Però, la sera, avevo raccolto le mie cose, l’avevo salutato come al solito, mentre dentro di me avevo preso la decisione di andarmene, per sempre.
Non avevo, però, resistito alla tentazione di vederlo, ancora una volta; forse nella segreta speranza di un miracolo, di sentirlo dire, all’ultimo istante: “No, non mi sposo: non voglio”. Quando udii il prete pronunciare la formula di rito con cui li avrebbe dichiarati marito e moglie mi portai le mani al viso per coprirmi le orecchie, quasi per non sentire. Nel farlo mi resi conto che era da qualche giorno che, ormai, non mi sbarbavo. A lui, questo, non avrebbe fatto piacere. Per nulla.