Illustrazione di Viola Bairo
Un piccolo cartello, affisso sulla cancellata adiacente ad un palazzo, indicava dell’esistenza di un laboratorio nel quartiere. Era un piccolo locale, in fondo al cortile interno, simile ai garage utilizzati dai condomini. Si distingueva da quelli perché al posto della serranda vi era una specie di vetrina perennemente impolverata sulla quale una mano aveva scritto, con grafia assai incerta, “SI RIPARANO OROLOGI D’OGNI TIPO”. Dal mattino presto fino a tarda notte ci lavorava il signor Gino alla luce chirurgica di un neon. Il cortile era così angusto e i palazzi che lo delimitavano così alti che solamente quando il sole raggiungeva l’azimut riusciva a penetrarvi e, per di più, per pochissimo tempo. Se di questo gli altri condomini si lamentavano a turno, spesso in ascensore, non sapendo che altro dire, al signor Gino la presenza o l’assenza del sole non faceva né caldo né freddo.
Da cinquant’anni ormai trascorreva le sue giornate in quel luogo di esattezza, vale a dire da quando, poco più che bambino, se ne stava ad osservare il lavoro del padre, seduto su uno sgabello in rispettoso silenzio. Rimaneva affascinato da quei minuscoli meccanismi che il genitore, con estrema delicatezza, smontava e allineava su di una specie di vassoio. L’anziano orologiaio li esaminava con attenzione, uno ad uno, li puliva, lavandoli in liquidi appropriati e ne stabiliva il grado d’usura. A quel punto si fermava, socchiudeva gli occhi e se ne stava immobile a valutare la situazione.
Gino, in quei momenti, rimaneva fermo anche lui, con il fiato quasi trattenuto, per timore di disturbare e riprendeva a respirare normalmente solo quando lo vedeva impugnare con decisione un piccolissimo cacciavite e, con quello, ricomporre nuovamente sulla platina l’universo misterioso di quei meccanismi. Il padre, infine, dava mezzo giro alla corona, si portava l’orologio all’orecchio e stava ad ascoltare con la stessa attenzione con cui un dottore avrebbe auscultato i suoi pazienti. Se il ticchettio era regolare, lui avvicinava l’orologio all’orecchio del figlio per fargli sentire quella “musica”.
Va da sé che già a vent’anni Gino conosceva perfettamente il mestiere. Da ventiquattro in poi era rimasto solo a proseguire il lavoro. Alto, magrissimo, con la schiena leggermente curva per via delle ore trascorse al banco di lavoro, Gino era perennemente pallido. Tutta la vita lì dentro, ad eccezione delle domeniche, del Natale e del giorno dei morti. Non aveva amici, né famiglia. Parlava malvolentieri ed anche con i clienti si limitava a borbottare un saluto e a comunicare laconicamente il giorno in cui avrebbe riconsegnato loro l’orologio.
Poco alla volta aveva trasformato il suo locale in una sorta di museo. Alle pareti vi erano appesi orologi a cucù e vecchie pendole e sui vari ripiani addossati al muro si potevano ammirare sveglie, orologi da tavola e da tasca di ogni tipo che lui stesso scovava in piccoli mercatini e che riparava poi con amorevole cura. Tutte le mattine, come prologo al lavoro, li spolverava, li caricava uno ad uno e la stanza si riempiva di suoni. Ticchettii non sincronizzati si spandevano nell’aria e le pendole scandivano imperiosamente ed inesorabilmente i quarti, le mezze ore, le ore. Periodicamente Gino li smontava, li puliva, li lubrificava e, dopo averne lucidato le casse, li rimontava, con intima soddisfazione. Ma tutto questo lavorio non sempre era lavoro.
Quello, in verità, scarseggiava da tempo o, per meglio dire, era inesistente. Passavano intere settimane prima che qualche cliente si affacciasse al suo laboratorio. Era il prezzo che Gino pagava per non aver voluto stare al passo con le nuove tecnologie. Si era rifiutato con fermezza di lavorare su quegli orologi moderni pieni di plastica in cui il pulsante cuore meccanico era stato soppiantato da un freddo circuito senza vita. Aveva, dunque, pochissimi e vecchi clienti, ma questo non lo rendeva infelice. In fondo lui aveva i “suoi” orologi da curare e da tenere in vita come fossero vere e proprie creature.
L’idea di poter misurare il tempo, accedendo e regolando a suo piacimento il movimento del bilanciere gli regalava un meraviglioso senso d’onnipotenza. Un giorno – erano quasi due mesi che nessuno gli chiedeva un consulto - provò a tarare tutti i bilancieri in modo che le ore scorressero più lentamente. Non fu soddisfatto del risultato ottenuto. In quel modo aveva guadagnato soltanto una modesta manciata di minuti nell’arco del giorno. Si trattava di ridurre quelle azioni che oramai considerava delle inutili perdite di tempo prezioso. Azioni come nutrirsi o dormire, che gli sottraevano tempo alla cura delle sue creature. Così iniziò ad accarezzare l’idea di modificare tutti i suoi orologi: avrebbe inserito all’interno una ruota più grande e, quindi, più lenta, cui agganciare quella che segnava i minuti.
Si fermò solo un attimo a pensare. Socchiuse gli occhi come suo padre. Valutò se stesso. Li riaprì deciso: poteva farcela. Era bravo nel suo mestiere: non si sarebbe fatto scoraggiare da nessuna difficoltà. Gli ci vollero mesi. Man mano che un orologio era modificato veniva messo da parte: sognava per tutti un’assoluta sincronia. E venne così il giorno che aveva tanto atteso e scelto con particolare cura: il 29 marzo, il giorno del suo compleanno.
Chiuso nel suo laboratorio, la saracinesca abbassata per non essere disturbato, illuminato dalla luce artificiale, dilatò la sua giornata in modo innaturale: mentre il resto degli uomini avrebbe vissuto un giorno intero, per Gino sarebbe trascorsa una sola ora. Era elettrizzato dall’idea di avere davanti a sé una così lunga giornata: una sensazione che da tempo immemorabile non provava. Si era ben preparato per quel particolare giorno: nei mesi passati aveva fatto incetta di tutti gli orologi che era riuscito a scovare nei mercatini dell’usato, ma, diversamente dal solito, non aveva fatto alcuna selezione. Anzi, più l’orologio era malandato, più si era eccitato all’idea di ripararlo o, come ormai pensava, di riportarlo in vita.
Ora, finalmente, poteva dedicare loro tutte le cure necessarie, senza alcuna interruzione. Con l’entusiasmo di un bambino cominciò. Di tanto in tanto alzava gli occhi per leggere l’ora e, felice dello scorrere lentissimo del tempo (come tutti i suoi orologi gli dicevano), si rimetteva all’opera, senza accusare stanchezza.
Tanto dilatò la sua giornata che morì prima di sera. Il suo corpo senza vita fu trovato il 9 di aprile. L’autopsia stabilì che era morto da poche ore. La gente del quartiere parlò del signor Gino in ascensore per tutto il giorno. In parecchi si candidarono ad averlo visto l’ultima volta, chi la sera prima sul tardi mentre richiudeva, chi sul fare del mattino. Nessuno però osava affermarlo con certezza.
I testimoni più precisi ed attendibili, invece, non vennero presi in considerazione. Dichiaravano all’unisono un’altra data. Il 29 marzo. Erano lì sul posto, ma nessuno diede loro ascolto.
Erano solo orologi.
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Racconto vincitore del concorso "Il racconto del mese" indetto dalla Ten Yards