C’era una volta un paese arroccato in cima ad un’altissima montagna. Tutto intorno cresceva una foresta così folta e impenetrabile, che rendeva quel posto nascosto e inaccessibile al mondo intero.
In quel paese la gente viveva abbastanza felice: dico abbastanza perché, in realtà, era alla mercé dei capricci del Re, uomo egocentrico e dispotico.
Il Re – di cui preferisco tacere il nome – aveva imposto una serie di regole e di convenzioni per ricordare in ogni momento ai suoi sudditi che lui era il capo assoluto.
Aveva stabilito, ad esempio, che l’unità di misura della lunghezza era il “passo del Re” e quella del peso era semplicemente il “peso del Re”.
A chi andava in merceria a comprare due decipassi del Re di bordura era normale sentirsi chiedere dal negoziante: “Due decipassi del Re di corsa o di passeggio?”. Questo ovviamente se il negoziante era onesto.
Dal macellaio si ordinava tre millipeso del Re di prosciutto e tanto bastava a sfamare l’intera famiglia, almeno per il pranzo. Poco importava se in quel periodo il Re era ingrassato: al massimo quel giorno si sarebbe mangiato in abbondanza.
Per non parlare della musica! Erano vietate tutte le note, ad eccezione del re con risultati facilmente immaginabili.
Quello che più infastidiva gli abitanti di quel paese era, però, il sistema imposto per misurare il tempo. Non esistevano né orologi da polso, né da tavola, né da muro: solo per strada, ad ogni angolo, si potevano trovare degli strumenti sofisticatissimi collegati al battito del cuore del Re.
“Ci vediamo tra ottocento battiti del Re”: così gli amici, all’uscita dal lavoro, si davano l’appuntamento per ritrovarsi all’osteria.
“Se non smetti immediatamente di parlare starai in punizione per quattromila battiti del Re!” era la minaccia che le maestre usavano per quegli allievi particolarmente indisciplinati e vivaci.
“La pausa pranzo non può superare duemilaquattrocento battiti del Re” si leggeva sul cartello all’ingresso della prestigiosa e unica fabbrica di gnomi.
Immagino che vi starete chiedendo perché la gente era insoddisfatta. Facile da capire! Dovete sapere che il Re conduceva una vita assai sregolata: era capace di addormentarsi in pieno giorno o di mettersi a correre a perdifiato all’ora di pranzo, senza farsi il minimo problema o scrupolo. In paese si sussurrava che lo facesse apposta, insomma che la sua fosse vera cattiveria e non solo sbadataggine. Gli inconvenienti che ne derivavano erano innumerevoli.
Capitava che il fornaio sbagliava i tempi di lievitazione e tutta la gente si ritrovava sotto i denti del pane immangiabile. Oppure il dentista non azzeccava i tempi per l’anestesia e, sovente, si udiva il malcapitato di turno urlare per il male. Per non dire dei colori incredibili con cui le donne uscivano dal parrucchiere: che colpa ne aveva il povero parrucchiere se il Re decideva di fare una pennichella proprio nel tempo di posa?
Calbo era giovanissimo e come molti giovani era insofferente e convinto di subire tutti i torti di questo mondo. Perché il Re dormiva quando lui era a scuola? La lezione, già di per sé noiosa, diventava interminabile. Perché quando si incontrava con la dolce e timida Liuba il Re si faceva venire la tachicardia? Il tempo volava letteralmente e ancora non gli era riuscito di baciarla.
Calbo si tormentava con quelle domande e rimuginava sull’ingiustizia causa suprema della sua infelicità. Era convinto d’avere ragione, ma non si fidava di parlarne con nessuno. La polizia del Re era efficientissima e bastava il minimo cenno di malcontento per essere rinchiuso per milioni e milioni di battiti del Re nella galera del paese.
Così fu solo per combinazione che successe la disgrazia.
Calbo stava percorrendo un sentiero, appena fuori dal paese, per andare a trovare la sua Liuba quando incontrò il Re che correva a gran velocità. Il giovane si fece da parte e si profuse in un inchino come la legge obbligava, ma non resistette alla tentazione di fargli uno sgambetto: un bel ruzzolone del Re valeva più di qualsiasi punizione, pensò nell’incoscienza e irruenza della sua giovane età. Poi confidava sul fatto che sarebbe potuto scappare e nascondersi nel bosco.
Il destino volle che il Re cadendo sbattesse la testa su un sasso e morisse all’istante.
I sofisticatissimi orologi del paese impazzirono: alcuni si fermarono, altri iniziarono a correre, altri ancora a rallentare. Nel giro di poco la gente capì che il Re era morto e fu il caos più completo. Il Re non aveva eredi e così gli abitanti del paese iniziarono a litigare per come misurare il tempo. Si trattava di prendere come misura quello scandito dal battito di cuore di uno di loro, ma di chi?
“Il mio!”, “No! È meglio il mio”, “E no! Tocca a me!” urlavano tutti.
Dalle parole passarono ai fatti: volarono schiaffi, pugni e spintoni. Si picchiarono di santa ragione fino a quando, stremati, stabilirono che era impossibile trovare un accordo su chi scegliere. Alla fine convennero che non aveva senso rimanere in quel paese, ora che era morto il Re, e insieme decisero di attraversare la foresta alla ricerca di altri posti in cui vivere.
E Calbo, vi chiederete?
Calbo è rimasto in cima alla montagna con la sua Liuba, a baciarsi senza tempo.
E vivono ancora oggi felici e contenti, come in ogni favola che si rispetti.