"'E mmeglio pummaròle, mulignàne, puparuòle… accattatevell'… 'e mellune d'acqua a ‘n euro ‘o chilo… Currite! Currite! ‘A chesta parte!”.
La voce del fruttivendolo sovrastò, per un attimo, quella degli altri venditori, poi fu inghiottita dal frastuono generale. Nel mercato colorato, pieno di profumi e di voci, le donne bisticciavano per avvicinarsi ai banchi, palpare la merce in modo da scegliere la migliore e nello spazio ristretto tra le bancarelle si faticava a passare. Don Michele, però, camminava assorto, incurante degli spintoni e della gente. Era un uomo alto con la pancia prominente, la testa assurdamente lunga, quasi a compensare la mancanza di collo. Camminava impettito, come se fosse superiore agli altri.
“Un saluto, Prufesso’. Avete tre numeri buoni da giocare?”.
A chiederlo era il macellaio, Giggino ‘o chianchiere, appoggiato allo stipite della porta con il grembiule sporco di sangue e una sigaretta penzolante tra le labbra.
“Prufesso’, mi raccomando, ricordatevi di me: se mi date tre numeri buoni vi regalo ‘o meglio capocuoll che potete trovare da qua a Pozzuoli”.
Don Michele annuì, ma tirò dritto, infastidito da quell’offerta così plebea e plateale.
Don Michele non era un professore, almeno non nel senso consueto del termine. Il titolo lo aveva acquisito sul campo studiando i numeri e i loro legami con le faccende della vita nel tentativo di dimostrare a se stesso e agli altri d’essere più forte della loro apparente casualità.
La sua filosofia era semplice: nulla avviene per caso. Se escono certi numeri al lotto anziché altri è per un motivo ben preciso: tutto sta a scoprirlo, ma il fatto di non trovarlo non significa che non ci sia.
Di questo era fermamente convinto, tanto che si limitò ad alzare le spalle all’ultima frase del macellaio: “E non numeri fessi come gli ultimi, Prufesso’”, senza degnarsi di rispondere a quella che era un’infima provocazione. Decise pure di soprassedere alle risatine del garzone e di pochi altri sfaccendati che stavano lì, fermi sul marciapiede, appoggiati al muro, a spettegolare sulla gente di passaggio come delle comari.
“Sono tutti ignoranti. Io almeno ci provo. Io ho un metodo, un metodo scientifico. Loro stanno lì, e aspettano, e si lamentano pure… Come fosse impresa facile! Ma stavolta è la volta buona. Si dovranno ricredere ‘sti cafoni”.
“21, 28, 8, 80, 72”, continuava ripetersi mentalmente, “’a femmena annura 21, ‘e zizze 28, ‘a maronna 8, ‘a vocca 80, ‘a meraviglia 72.
Cinquina secca sulla ruota di Napoli: ne parleranno persino i giornali. Altro ca nu’ piezzo ‘e capocuoll! Mi dovrò preparare per le interviste e le foto…”
Don Michele aveva fatto un sogno chiarissimo: uno di quelli che ti sembra proprio essere vero, dove quasi tocchi con mano e il corpo risponde. E il suo corpo aveva risposto, manco fosse stato un ragazzino. Eppure aveva settantacinque anni suonati. Don Michele sorrise compiaciuto pensando a quanto si era eccitato.
“Un’erezione così, manco un giovanotto di trent’anni ce l’ha”.
Anche questo particolare lo aveva convinto della bontà del suo sogno: impossibile che non significasse niente.
Aveva sognato una donna, bella solo come possono essere certe madonne che si vedono dipinte nelle chiese. A differenza di queste, però, era nuda. Nel sogno si offriva a lui: gli era sembrato di sentire la morbidezza di quel seno prosperoso sotto le sue mani. La bocca, poi, una vera meraviglia…’na cerasa rossa…. Pareva sorridesse di fronte al suo stupore.
Poi, purtroppo, si era svegliato prima che l’atto fosse consumato. A don Michele questo era spiaciuto un po’. Insomma si era svegliato con la bocca amara, insoddisfatto. Ma subito aveva prevalso quella che lui chiamava “la scienza”: un sogno del genere non poteva non essere portatore di numeri buoni. Pertanto lo aveva analizzato con il suo solito rigore, senza più pensare a quello che gli aveva fatto provare e aveva tirato fuori da quel sogno cinque elementi a suo parere inconfutabili: la donna nuda, le tette, la madonna, la bocca, lo stupore. Quindi aveva dedotto che i numeri fossero 21, 28, 8, 80, 72. Li avevi scritti su un quaderno a quadretti e li aveva studiati a lungo.
Secondo il suo metodo i sogni davano delle indicazioni, ma, poi, era necessario verificare che tra i numeri ci fossero dei legami che Don Michele chiamava leggi scientifiche.
Seduto al tavolo della cucina si era messo a lavorare, mordicchiando nervosamente la matita che aveva in mano, guardando e riguardando la successione di quei numeri.
“Allora 21 e 28 stanno nella tabellina del sette. Il sette è la prima cifra di 72 e la seconda cifra di 72, guarda caso, è proprio la prima cifra di 21 e 28. Un bell’incastro, non c’è che dire”.
Il fatto, poi, che il numero centrale comparisse anche in quello a sinistra e a destra lo rasserenava non poco. C’era una perfetta simmetria in quella successione come lo dimostrava anche il fatto che il primo e l’ultimo numero e solo quelli fossero divisibili per tre. Don Michele non era propriamente superstizioso, però era intimamente convinto che i numeri che si dividevano per tre fossero più belli degli altri.
Era rimasto davanti a quel foglio ancora per un bel po’ di tempo, non completamente soddisfatto: sentiva che gli mancava qualcosa per chiudere quel suo ragionamento.
“Deve esserci ancora qualcosa che mi sfugge”.
Si alzò e si mise a passeggiare per la cucina distratto, solo per un attimo, dall’odore di un piatto di pasta e fagioli avanzato dal giorno prima. Ad un certo punto si fermò dandosi una gran manata sulla fronte.
“Che fesso! 80 meno 8! Basta fare 80 meno 8 e tutto quadra alla perfezione”.
Così Don Michele decise di giocare i numeri sulla ruota di Napoli puntando tutta la sua pensione.
“’O tramme passa ‘na vota sola: non bisogna farselo scappare”, si disse.
E, ora, era davanti alla televisione: pochi minuti ancora, poi, poi… In realtà Don Michele manco osava pensare al poi.
“Questi i numeri estratti sulla ruota di Napoli: primo estratto 78, secondo estratto 23, terzo estratto 4, quarto estratto 19, quinto estratto 69”.
Don Michele rimase completamente immobile mentre fissava quella sequenza di numeri.
“78, 23, 4, 19, 69 ‘e nummeri so’ chisti?”, si chiese non riuscendo a capacitarsi.
“78 ‘a bella figliola, 23 ‘o scemo, 4 ‘o puorco, 19 ‘a resata, 69 sott’e ‘ncoppa… Oh, no!”, gemette, “nun ce pozzo crere! Ho interpretato male il sogno…”.
La donna che aveva sognato, quella bella come una madonna e nuda come un verme, era una prostituta che si stava prendendo gioco di lui. Evidentemente lo considerava scemo e porco, da qui la sua risata. Altro che bocca invitante e sorridente. E quello che aveva preso per stupore era, in realtà, il rimescolio che aveva provato e che lo aveva fatto sentire sotto sopra.
Don Michele sospirò.
“Al diavolo la pensione, al diavolo la scienza… M’a fosse almeno futtuta a chella zoccola…”.
Poi si girò e di nuovo sentì l’odore dei fagioli, li guardò come mai prima di allora: erano lì da due giorni. Sorrise, prese un cucchiaio e si mise a mangiarli. Del resto a lui così piacevano, azzeccuse.