-Io posso vedermi dentro.
-Vuoi dire che sei capace di comprenderti, analizzarti? Lascia perdere, nessuno può mai essere completamente sincero con se stesso. Soprattutto gli uomini.
-Perché soprattutto gli uomini?
-Perché noi donne siamo abituate a guardarci dentro, più di voi. Perché diamo più importanza ai sentimenti, siamo romantiche noi.
-Quante parole inutili! Io non volevo affatto dire quello: io mi guardo dentro, vedo chiaro, ma non mi capisco più di chiunque altro; o altra.
-E allora, che significa?
-Capisco che lo trovi incredibile, ma io mi vedo dentro. Letteralmente.
-Già, ti metti in controluce davanti allo specchio e...
-Quasi, ma non ce n’è bisogno. Io mi concentro e mi vedo.
-E cosa vedi? Vorrei proprio saperlo.
-Lo stomaco, per esempio, è un po’ invecchiato, sembra aver perso tono.
-Sei matto?!
-Ho un buon fegato, e ottimi reni. D’altra parte mangio sano. La colonna vertebrale e le giunture delle gambe non sono in forma perfetta: comincia ad apparire un po’ di artrosi.
Lui si fermò: poteva continuare ancora a lungo su quel tono, ma come al solito anche questa tipa aveva cominciato a guardarsi attorno; adesso si accendeva una sigaretta, e -Si è fatto tardi- disse guardando rapidamente il polso sinistro, senza orologio -devo andare.
Lui non si scompose. La salutò cortesemente, senza nemmeno proporle di accompagnarla, e la osservò uscire, a passo troppo veloce, per i tacchi delle scarpe che aveva. Andata, anche questa. E già dimenticata. A casa, sua figlia gliela cantava ogni sera:
-Esci, papà, trovati un po’ di compagnia. E’ troppo tempo che stai da solo, tanto la mamma non tornerà più.
Poverina, lei era convinta e ci metteva il massimo dell’affetto e della dedizione. E naturalmente aveva anche il suo interesse a spezzare quella convivenza già gravosa, e destinata a diventarlo sempre più. Lui lo capiva, ma nessuna, nessuna donna era in grado di superare quel test: alcune non arrivavano nemmeno fin là, altre riuscivano ad ascoltarlo fino alla descrizione puntuale del sistema nervoso, ma senza eccezione tutte lo mollavano prima che avesse finito. Figurarsi, poi, se poteva parlare del proprio cuore. Eppure le loro prime parole erano sempre più o meno queste:
-Parlami di te; dimmi quello che hai dentro.
E lui eseguiva. E loro, via! Adesso era davanti ad un secondo bicchiere di birra, che il cameriere gli aveva appena portato, e aspettava ancora, prima di attaccare a bere, quel minuto che avrebbe ricoperto il vetro di una patina umida e fresca di condensa. Senza quella, sembrava che la birra non avesse la giusta temperatura. Un uomo si sedette accanto a lui, con il proprio bicchiere di vino bianco. Ne fu contento: per quella sera i tentativi di soddisfare la figlia erano stati fatti.
Stettero in silenzio a lungo, spostando lo sguardo dalla sala al bicchiere, al tavolo ricoperto di una tovaglietta consunta e macchiata, con un posacenere inutile, dimentico dei divieti recenti, o forse insolentemente caparbio ad ignorarli.
Qualcuno cambiò il canale al televisore e solo allora i due si accorsero che era acceso. Il telegiornale illustrava il bilancio dei morti sulle strade dell’ultimo week-end, quando il nuovo venuto disse fra sé e sé:
-E magari nessuno di questi si sarà dichiarato favorevole per il trapianto dei suoi organi. E pensare che c’è gente con la vita appesa a un filo, che aspetta per anni.
Lui rimase un po’ in silenzio a guardare l’umidità che appannava il suo boccale, sfumando in arancione il colore della birra:
-Io li darei, tutti. Ho buoni polmoni, perché non ho mai fumato. Ottimi reni, discreto fegato... e poi, che altro?
-Beh, ci sono le cornee, per esempio, e parti di altri tessuti che possono tornare utili.
-Lei è ben informato, mi sembra.
-Sì, sono chirurgo; cardiochirurgo.
-Come Jannacci, se non sbaglio.
-Jannacci, buono quello. Non mi piace.
-A me sì. Certe canzoni sue sono proprio belle.
-Guardi, io talmente non lo reggo, che non conosco nemmeno le canzoni.
-Capisco. Come per me Vecchioni. Il fatto è che è un collega.
-Vuol dire che è per questo?
-Credo proprio di sì.
-E quindi lei insegna.
-Greco e latino; e talmente non sopporto Vecchioni, che non conosco le sue canzoni.
-Ce ne sono di belle. Ci penserò a questa storia dei colleghi. Ma torniamo a noi: io trapianto cuori.
-Ma il mio cuore no, quello non lo posso dare.
-Ha qualche disfunzione? Magari si può operare.
-No, no. Il mio cuore è sanissimo. E’ anche bello: potrei darlo a qualcuno molto esigente.
-Creda che i trapiantati non badano a questo: hanno ben altri problemi, sa?
-Immagino. Però il mio cuore non va bene.
-E perché? E come lo sa?
-Io mi vedo dentro. E posso dire che ho organi di prima scelta, ma il cuore no: il mio cuore è blu.
-Ah, blu. Suggestivo.
-Le piacerebbe studiarlo, eh?
-Effettivamente...
-Beh, allora lo do a lei. Come si fa?
-Lei scriva solo che è disponibile a donare i suoi organi su un foglietto, lo firmi e lo metta nella sua carta di identità. Non si sa mai.
Si fecero portare un foglio di carta e composero insieme il testo.
-Ma qui non si parla del cuore.
-Non si preoccupi; se verrò a sapere di un cuore blu disponibile non me lo farò scappare: il primario all’ospedale mi deve un bel po’ di favori.
-Ma io ci scrivo, qui, in fondo: “Attenzione: cuore blu”.
-Bene, così è tutto a posto.
Scese di nuovo il silenzio, tranquillo, senza ombra di imbarazzo. Questo chirurgo era stato il primo, pensava lui, l’unico anzi a non fare una piega; c’era di che sentirsi soddisfatti, quasi quasi si poteva pensare ad un’amicizia. Con lo sguardo fisso alla condensa sul vetro, si sentì nascere un’idea, semplice e attraente. Certo, un’amicizia, una bella amicizia virile, ecco cosa gli serviva. E difatti agli amici si dà il cuore, anche più che agli amori. Perché solo un amico è capace di accettare anche un cuore inguaribilmente triste.
-Non ci siamo presentati: io mi chiamo Giovanni Costantino- disse il professore.
-Andrea Senatore, piacere.
Giovanni vuotò il bicchiere, si alzò.
-Adesso devo andare. Ci si vede ancora qui?
-Sì, certo; tornerò.
Pagò e uscì, seguito dallo sguardo osservatore di Andrea.
Fuori era buio, poche auto percorrevano la strada, ancora meno erano i passanti. Giovanni rimase a passeggiare lungo il marciapiede, lentamente e soprappensiero, come a cercare il momento giusto per proseguire oltre, ma incapace di decidersi a farlo. Quando vide arrivare a velocità sostenuta un autobus, con la scritta “deposito” illuminata sopra il vetro anteriore, partì a testa bassa. L’autista non fece a tempo nemmeno a vederlo, mentre il colpo lo respingeva durissimamente a terra. Da una bassa finestra una donna si mise a urlare, dal bar uscirono tutti gli avventori, Andrea per primo a farsi strada per rendersi conto della situazione. Il capo di Giovanni era contornato da una chiazza
di sangue, attraversato da una spaccatura che non lasciava speranze, mentre il resto del corpo era pressoché intatto.
-L’ha fatto apposta! L’ho visto io, l’ha fatto apposta!- continuava a gridare la donna, fuori di sé, davanti allo sguardo atterrito del conducente del bus, pallido come un morto.
Andrea non aveva dubbi su questo; solo si chiedeva se non avesse dovuto comprendere per tempo... ma ormai era tardi. Anzi, non c’era un minuto da perdere: per Giovanni la vita si chiudeva, per altri si sarebbe aperta.
E fu l’unico a non stupirsi quando, qualche ora dopo, in sala operatoria i suoi assistenti scorsero trasecolati, nel torace appena aperto, un bellissimo cuore blu.
Mirella Zuchegna