Consultai la cartina perché l’indirizzo al quale dovevo recarmi mi era sconosciuto. Una via posta all’altro capo della città, in uno dei tanti quartieri sorti come funghi attorno al centro; un quartiere dormitorio, fatto di palazzoni cresciuti uno di fianco all’altro in modo disordinato, senza nessuna attrattiva per cui valesse la pena andarci per fare una passeggiata.
Mentre guidavo nel traffico convulso delle sei di pomeriggio, cercavo di districarmi dal solito ingorgo prestando la massima attenzione alla guida. L’incidente che mi era capitato la sera precedente mi bastava: avevo tamponato, quasi da fermo, l’auto che mi precedeva. Un incidente da nulla: la mia auto non aveva subito danni, all’altra si era rotto un fanalino posteriore. A dire il vero quella vecchissima auto era tutta un’ammaccatura, ma quel fanalino, prima dell’incidente, era intero. Mi ero distratto mentre cercavo di sintonizzare la radio su un notiziario e non avevo frenato in tempo: già da una decina di minuti si stava procedendo a passo d’uomo, alternando frenate a piccoli avanzamenti, e quell’ultimo arresto mi era stato fatale. Non appena avvertii il botto, scesi a controllare, mentre il guidatore dell’auto che avevo tamponato rimase seduto al suo posto. Si venne a creare un caos notevole: la gente in coda non ebbe scrupolo a mettere la mano sul clacson per invitarci –in modo poco ortodosso- a toglierci dai piedi. Imprecando contro me stesso e contro tutti mi avvicinai alla donna al volante e la invitai ad andare avanti fino a quando non avremmo potuto fermarci senza intralciare il traffico. La donna mi guardò dubbiosa, ma obbedì. Per tutto il tempo avvertii i suoi occhi fissarmi attraverso lo specchietto retrovisore, quasi avesse paura che svanissi o tentassi la fuga.
Dopo che riuscimmo ad accostarci, dall’auto tamponata scese una donna enorme. Uscì dall’abitacolo a fatica, per via della sua grossa mole: mi chiesi come facesse a non rimanere incastrata tra lo schienale e il volante. Aveva i capelli lunghi di colore rosso acceso, ma non un rosso naturale, come l’abbondante crescita scura testimoniava, e il viso truccatissimo; sembrava spaventata e continuava a guardare con aria preoccupata quel che restava del fanalino, gesticolando e ripetendo “Che guaio! Cosa dirà mio marito?”. Avevo fatto del mio meglio per rassicurarla che avrei pagato i danni causati e che mi sarei assunto tutte le responsabilità dell’incidente. Ci scambiammo i dati e le proposi di compilare il modello per la constatazione amichevole di modo che le nostre assicurazioni risolvessero via d’ufficio la questione. Quando fu il momento di firmare il modulo blu la donna si rifiutò dicendo che avrebbe dovuto parlarne prima con suo marito, che lei non sapeva se faceva bene a firmare, che di queste pratiche non se ne intendeva, che non voleva sbagliare e altre giustificazioni di questo genere. Un fiume di parole dette in tono tra lo spaventato e il lamentoso. Avevo alzato gli occhi al cielo per l’esasperazione. Va bene, l’avevo tamponata e la colpa era mia, ma era una cosa da niente e in quello che le stavo proponendo non c’era nulla di losco. Non ci fu verso di convincerla. Insistette sul fatto che ne avrebbe parlato prima a suo marito. Anzi, aggiunse che l’unica cosa fattibile era che mi accordassi io con suo marito.
Così, ora, mi trovavo diretto in una zona sconosciuta della città. All’uscita dall’ufficio avevo prelevato del contante presso un bancomat: a questo punto mi auguravo di evitare persino la denuncia pagando direttamente il danno. Quanto mai potrà valere un fanalino di una macchina di almeno vent’anni? Di sicuro meno del rincaro della polizza di assicurazione che avrei subito per via di quello stupidissimo incidente.
Parcheggiai l’auto vicino a dei cassonetti stracolmi di sacchi d’immondizia; accanto qualcuno aveva depositato un televisore sfasciato e un materasso che, a giudicare dalle condizioni, doveva trovarsi lì da tempo immemorabile. Chiusi a chiave l’auto e mi guardai intorno. Dall’altro lato della strada vi erano alcuni ragazzi appoggiati al muro intenti a fumare e chiacchierare che, al mio arrivo, si zittirono e mi guardarono con sfacciata curiosità. Controllai il foglietto: via dei Ciclamini, 27. Percorsi poche decine di metri e mi trovai di fronte al numero civico cercato. Si trattava di un palazzo di cinque piani con balconi squadrati di cemento. Quasi tutti i balconi erano ricoperti da tende di plastica e da ognuno di essi sporgeva una parabola, dalla forma e dal colore diverso. Il palazzo non era dissimile da quelli che si trovavano accanto. A fatica lessi i nomi, quasi del tutto sbiaditi, sui campanelli. Dopo aver suonato sentii una voce maschile dire “secondo piano” e lo scatto del portoncino d’ingresso che si apriva. Mi feci strada tra biciclette parcheggiate nell’ingresso, alcuni passeggini e, pure, un vecchio e arrugginito carrello dell’ipercoop zeppo di bottiglie vuote che ostruiva il passaggio. Salendo ebbi modo di leggere sui muri scritte che andavano dall’incitamento della propria squadra del cuore a messaggi d’amore a scambi di battute volgari scritte con grafia e colori diversi. Nel pianerottolo del primo piano, tra due porte, un gigantesco fallo blu ammiccava a chi transitava lì davanti. L’autore si era sbizzarrito nel dargli sembianze umane con tanto di occhi e bocca.
Un ragazzetto –avrà avuto una decina d’anni- aprì la porta dell’appartamento e mi disse d’entrare. Percorsi un corridoio scuro ed entrai in una stanza in penombra, dove solo l’enorme televisore acceso irradiava un po’ di luce intorno. Su una poltrona, immobile, riconobbi la donna che guidava l’auto: se ne stava semisdraiata, la testa appoggiata allo schienale e le braccia abbandonate lungo il corpo.
“Buonasera, signora.”
La donna emise una sorta di mugolio per risposta. Ripresi a parlare:
“Sono venuto per sistemare la questione dell’incidente. C’è suo marito?”
Non feci a tempo di finire la frase quando un energumeno entrò nella stanza: in una mano una sigaretta, nell’altra una birra.
“C’è un problema” disse, senza un cenno di saluto.
“Un problema?”
“Vede mia moglie? E’ così da quando ha avuto l’incidente. Si è spaventata, capisce? Non si muove più. Non è solo la questione del fanalino rotto.”
Rimasi senza parole. Guardai la donna che socchiuse gli occhi ed emise una sorta di gorgoglio.
L’uomo proseguì: “Da ieri sera, poi, mio figlio piange nel vedere sua madre in questo stato. Vero che piangi?” e nel dire questo rifilò un manrovescio al figlio che, nel frattempo, si era incantato davanti alla tv, giusto per richiamarne l’attenzione. Il manrovescio ebbe immediatamente effetto. Il ragazzino si mise a piangere e a ripetere, senza staccare gli occhi dal televisore, in una sorta di litania “mammina mia, mammina mia”.
Non ci misi molto a capire dove quell’uomo volesse andare a parare.
“Se ci sono problemi allora fate denuncia all’assicurazione: avete tutti i miei dati… Da parte mia denuncerò anch’io l’incidente. Ci penseranno gli avvocati.”
Mi girai per andarmene, disgustato dalla sceneggiata.
Fu questione di un attimo. Altri due uomini si materializzarono e si posizionarono in modo da sbarrarmi la strada.
“Un momento! Che fretta!” esclamò l’energumeno.
“Siamo tra persone civili… troveremo un accordo” aggiunse. Nel dire questo gli amici annuirono e fecero scattare i loro coltelli a serramanico.
Ero in trappola e c’ero cascato come un idiota. L’unica cosa importante, a quel punto, era salvare la pelle. Estrassi il portafoglio e misi sul tavolo tutti i soldi che avevo. L’uomo sembrò soddisfatto. Poi, fissando con intenzione l’orologio d’oro che avevo al polso, disse: “Niente per consolare mio figlio? Nemmeno un regalino?”
A malincuore slacciai il cinturino e posai con delicatezza l’orologio vicino ai soldi.
“Visto che abbiamo trovato un accordo? L’avevo detto io!” esclamò l’uomo, sghignazzando goduto.
Non risposi. Avevo la gola secca e sentivo le gambe molli. I due compari, intanto, si erano spostati lasciando libera la strada verso la salvezza. Mi precipitai fuori e scesi le scale con nelle orecchie la sghignazzata soddisfatta di quel delinquente: anche l’enorme fallo dipinto sul muro sembrò sorridermi beffardamente quando gli passai davanti.
Le mani mi tremavano mentre cercavo di aprire la portiera dell’auto; iniziai a respirare meno affanno solo quando feci scattare la chiusura di sicurezza e riuscii a mettere in moto l’auto. Mi chiesi se dovevo considerarmi fortunato ad aver portato a casa la pelle o un cretino per essermi cacciato in una simile situazione. Indubbiamente propendevo per la seconda ipotesi.
Avevo percorso un paio di chilometri quando, fermo al semaforo, sentii un piccolo colpo: l’auto che avevo dietro mi aveva tamponato. Guardai nello specchietto retrovisore e vidi il guidatore scendere e fermarsi a controllare il danno; l’uomo, poi, si avvicinò al mio finestrino con il chiaro intento di parlarmi. Per tutto il tempo non mi mossi: le mani serrate spasmodicamente sul volante, un occhio allo specchietto e un altro al semaforo. Quando scattò il verde pigiai con forza sull’acceleratore e la macchina scattò in avanti. Eh, no! Nessuna Convenzione Indennizzo Diretto. Almeno per quel giorno.
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Pubblicazione del racconto nell’antologia Giallo Milanese 2007 (ExCogita)