“Perché non è ancora venuta a chiamarmi? E sì che in giamò passa i cinq’ or.”
Evelina era già da un po’ di tempo in piedi, dietro la porta del suo appartamento, con l’orecchio teso a cogliere ogni più piccolo rumore proveniente dall’alloggio di fronte dove viveva Clelia, la sua amica di sempre. Come ogni domenica attendeva che venisse ad invitarla per il tè: nonostante questa fosse un’abitudine consolidata nel tempo, Evelina non si sarebbe mai abbassata a presentarsi dalla Clelia senza un suo esplicito invito.
In tutto quel periodo in cui era stata appostata era solamente scesa –con l’abituale chiasso che accompagnava tutti i loro spostamenti- la famiglia del piano di sopra: i quattro ragazzini bisticciandosi e sospingendosi come al solito e i genitori sgridandoli inutilmente, ma nessun segno di vita era giunto dall’appartamento dell’amica.
Ad un certo punto sbuffò:
“Se la riva no in di prossim cinq minut, ghe dervi pù, inscì l’impara! Chi si crede d’essere?”
Il prolungato suono del campanello la fece sobbalzare per lo spavento. Aspettò qualche istante, poi aprì la porta di quel tanto che la catenella permetteva.
“Ah, sei tu?” disse facendo finta di sorprendersi per quella visita attesa.
Clelia aveva tardato appositamente: era rimasta seduta sul suo divano fissando la pendola appesa al muro. In realtà aveva preparato tutto in anticipo. L’acqua nel pentolino, le due tazze per il tè, i biscotti secchi nel piatto di portata -quello con i fiorellini blu dipinti sul bordo- erano già pronti sul tavolo del tinello da un’ora, però non voleva dare la soddisfazione a Evelina di presentarsi in anticipo.
L’invito per il tè della domenica era un rito che ormai durava da una decina di anni, cioè da quando Evelina era rimasta vedova. La loro conoscenza, però, risaliva all’epoca in cui erano ragazze ed entrambe innamorate dello stesso uomo. Quando Umberto aveva scelto Evelina inevitabilmente il rapporto tra le due donne si era incrinato e, senza nessun litigio clamoroso o episodio degno di nota, era diventato di fredda cortesia. Fredda e falsa cortesia. D’altra parte vivevano una di fronte all’altra da sempre e non potevano ignorarsi. Anche dopo il matrimonio Evelina era rimasta a vivere nello stesso alloggio in cui era nata, al secondo piano di una vecchia casa, un tempo signorile, ora appena decente, in via Bazzini, vicino a piazza Piola. Umberto, poi, aveva sempre fatto intendere che desiderava rimanessero amiche, anzi lui per primo non aveva mai mancato d’essere gentile con Clelia prestandosi, all’occorrenza, ad aiutarla in quei piccoli inconvenienti domestici in cui era necessaria l’opera di un uomo. Clelia, infatti, dopo la delusione patita per il matrimonio tra Evelina e Umberto, aveva deciso che non si sarebbe mai più messa in gioco allo scopo trovarsi un uomo ed era rimasta zitella per libera scelta. Era, però, fermamente convinta che l’amica avesse abbindolato slealmente Umberto per riuscire a farsi sposare: non riusciva ad ipotizzare altre possibilità. E, di sicuro, aveva agito in quel modo solamente per farle un dispetto.
Per contro, a Evelina molte cose avevano dato e continuavano a dare tuttora fastidio, nonostante il matrimonio con il suo Umberto.
Ad esempio il rifiuto di suo marito, quando si era presentata l’occasione, a trasferirsi in un alloggio più grande: aveva sostenuto che si trovava benissimo lì dov’era e non aveva aggiunto altre spiegazioni.
Mal sopportava, poi, che Clelia continuasse a sottolineare, ogni qualvolta le capitava l’occasione, che “Umberto è voluto andare al Signore con il mio risotto nella pancia”, pronunciando quel “mio” con un’enfasi, a suo parere, esagerata e fuori luogo e, pure, con un evidente tono di compiacimento. Umberto, infatti, era morto all’improvviso mentre riposava sul divano dopo che quel giorno erano stati a pranzo dalla Clelia.
In quell’occasione Evelina aveva pensato d’essere stata ben sfortunata: aveva cucinato per Umberto migliaia di pasti e lui si era presentato al Signore con il risotto della Clelia nella pancia! Cercava di consolarsi pensando che, forse, non l’aveva fatto apposta, ma questo non le impediva di provare un certo rancore nei suoi confronti. Per un certo tempo incolpò persino l’amica per quel pasto a suo parere fatale –d’altronde l’aveva sempre sostenuto che il risotto della Clelia era indigesto: troppa cipolla e troppo zafferano-, ma il dottore, a cui aveva sottoposto il suo dubbio, su quel punto fu categorico e quasi la offese quando le disse: “Che le pienta de dì stupidat! La smetta di dire sciocchezze!”
Seduta sul divano del tinello della sua amica, un’imbronciata Evelina faceva scorrere lo sguardo con aria critica sull’arredamento della stanza cercando di scoprire se vi era qualche novità rispetto al solito. Decine di ninnoli –quasi tutti bomboniere- erano ben allineati sul piano della credenza disposti dal più alto al più basso così da formare una ridicola scala. Il primo era un porta candele in ferro battuto a forma di gatto stilizzato, l’ultimo un piccolo delfino di porcellana blu con su un berretto bianco da marinaio. Vide, con una certa soddisfazione, alcuni fili di ragnatela che andavano dall’antenna della televisione al muro e si stupì del centrino e di un vasetto vuoto posti sopra all’apparecchio televisivo: da diversi anni, ormai, sulla tv ci stava, in precario equilibrio, un piccolo elefante di terracotta con il sedere rivolto verso la porta d’ingresso perché “messo così porta bene” le aveva spiegato Clelia.
“Sarà caduto! Gh’e l’avevi dii ch’el saria bourlà giò, mis inscì, in quela manèra” pensò.
Intanto Clelia si stava affaccendando per servire il tè e, contemporaneamente, continuava a parlare, saltando, come sua abitudine, di palo in frasca. Per via del fisico minuto e per quella vocina acuta sembrava un piccolo pulcino pigolante.
“Hai visto che tempo? A gh’è un umid… Se non mi vengono i dolori el sarà un bel miracol!”
“È umido davvero! El sòo ben perché stamatina sont andada a Musocc a trovà el me pover Umberto.”
“Che combinazion! Propri incoeu ho pensà all’Umberto: mi sono cucinata quel risotto che…”
Evelina la interruppe bruscamente.
“Gh’è capitada una roba che guarda: proprio, non mi so dare una spiegazione!”.
Clelia si bloccò con il pentolino in mano e lanciò un’occhiata interrogativa all’amica.
“Non c’è più rispetto neppure per i morti! Per lassa a stàa el rispett per i vedov, ma, questo, sarebbe il meno!” affermò con aria disgustata e concludendo la frase con un rumoroso sospiro.
“Ma che è successo?”
“Sono andata dal mio Umberto”, disse accentuando con cura il mio, “come tutt i domenegh da dieci anni a questa parte…”
“E alura?”
“Allora c’è che qualche maleducato nel bel mezzo dei miei fiori finti ha messo due pulcini di ciniglia… cont’ el becc, i oggit e i sciampett in una specie di… di… di nido, ecco!”
Rimase un attimo in silenzio, poi riprese:
“Non capisco proprio perché fare una cosa del genere a mi e al mè Umberto! Puresitt giald… ma di un giallo così sfacciato che non ho mai visto in vita mia!”
“E cosa c’è di male?”
“El savevi, mi, che te capivett nagotta, ma, d’el rest, per capire certe cose bisogna essere stati sposati” ribatté con malignità Evelina.
Bevvero il tè senza scambiarsi altre parole e si salutarono freddamente augurandosi la buonanotte.
Clelia, una volta uscita l’amica, aprì la credenza e tirò fuori un mazzolino di narcisi di plastica e una coppia di teneri pulcini gialli adagiati in un soffice batuffolo di bambagia che sistemò con cura in mezzo ai fiori; poi mise il mazzolino nel vaso sopra alla tv. Guardò compiaciuta il risultato e, mentre sciacquava le tazze del tè, pensò ai due identici pulcini che, il giorno prima, aveva deposto tra i fiori della lapide di Umberto. Sicuramente lui aveva apprezzato quel suo gesto. D’altra parte Umberto, quando giacevano appagati e sazi dopo aver fatto l’amore, non mancava mai di sussurrarle: “Tu sei il mio piccolo pulcino segreto”, mentre le accarezzava i biondi capelli.
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Pubblicazione del racconto nell’antologia Giallo Milanese 2006 (ExCogita)