Arrancò faticosamente su per la scala a chiocciola, portandosi appresso i suoi abbondanti cento chili di peso.
Era uscito dalla cucina imprecando contro quella inetta di sua moglie. Non serviva certo una laurea per capire alcune cose elementari che, da trent’anni e più, cercava di inculcarle. Era pur vero che la donna quella laurea non l’aveva mai conseguita essendo rimasta incinta al primo anno di università quando ancora erano fidanzati, ma, che diamine, quella non poteva mica essere una scusante! In fondo doveva semplicemente comprendere che essendo lui a portare a casa i soldi per il sopravvivere, il vivere e, pure, per il superfluo aveva diritto, come minimo, ad essere servito e accontentato in quelle piccole cose che lo gratificavano, lo spronavano, lo mettevano in condizione di dare il meglio di se stesso: era un concetto semplicissimo, addirittura lapalissiano, ma, con tutta evidenza, non per sua moglie. Niente da fare: stava combattendo una guerra destinata ad essere persa.
A metà scala si fermò per un accesso di tosse che le sigarette fumate e la rabbia inghiottita gli provocarono. Quella femmina, pensò, l’avrebbe fatto morire per ipertensione o per un infarto fulminante, uno di quelli per cui resti secco e tutti a commentare: “Ma che bella morte! Se n’è andato senza dar fastidio a nessuno…”. Approfittò di quel pensiero per toccarsi e per dare, nello stesso tempo, un’aggiustata alle parti interessate.
Nel riprendere a salire fu perseguitato dall’odore di cibo cucinato, una delle cose che non poteva soffrire. Eppure, anche quella volta, sua moglie si era ben guardata dall’accendere la ventola della cappa: un piccolo sgarbo che aveva avuto il potere di farlo imbestialire sin da quando si era seduto a tavola. Non era arrabbiato perché aveva cucinato l’impepata di cozze, di cui era particolarmente goloso, ma per il fatto che non si era preoccupata di disperdere l’odore.
Si chiedeva come avrebbe potuto, ora, concentrarsi nell’esplorazione del firmamento con quel puzzo di pesce che lo sospingeva- nei fatti- verso una maleodorante cucina di un pessimo ristorante o, a voler essere poetico, negli abissi marini. Era uno scienziato, seppure autodidatta, un genio di natura, ma sua moglie, quel concetto, proprio non riusciva ad afferrarlo. Anziché essere orgogliosa e porlo al centro della sua attenzione, sembrava che facesse di tutto per ignorarlo, se non addirittura per infastidirlo.
Entrò nella mansarda fatta a cupola e guardò il gigantesco telescopio che troneggiava al centro. La cupola era completamente di vetro e quindi era possibile esplorare il cielo a trecentosessanta gradi stando comodamente seduti al caldo. Quel mese di febbraio si presentava particolarmente adatto per l’osservazione di Saturno con i suoi splendidi anelli, che si trovava giusto in opposizione al Sole e fisso, almeno per quel periodo, nella costellazione del Leone. Avrebbe potuto preparare un bellissimo articolo per la rivista scientifica amatoriale di cui era collaboratore e corredarlo con preziose e inedite foto. Non solo avrebbe fornito delle descrizioni precise ed interessanti, ma avrebbe aggiunto una vera chicca partorita dalla sua mente geniale: avrebbe fatto notare a tutti come l’anagramma di “saturno” fosse “un astro”! Lui stesso era rimasto stupito di tale incredibile coincidenza avendola scoperta per caso, in un momento in cui stava riposando la vista dall’osservazione del cielo: riposava la vista, non certo il cervello che, invece, lavorava in continuazione. Un giorno, ne era certo, avrebbe scoperto una nebulosa o un ammasso, se non, addirittura, una galassia! Ma il piacere che provava durante le sue osservazioni notturne non era solamente un piacere scientifico: nel sistemarsi davanti al telescopio, di fronte all’immensità del cielo, all’universo infinito, se non addirittura –come amava pensare- agli infiniti universi, sovente riusciva a cogliere il senso della piccolezza umana, a commuoversi per gli affanni meschini della gente, a dare il giusto peso al valore delle cose, a dimenticare le preoccupazioni materiali. In quei momenti si sentiva clemente anche verso sua moglie.
Abbandonandosi sullo schienale dell’ampia poltrona e soffocando a malapena un rutto provocato dall’abbondante cena, pensò che, di per sé, avrebbe potuto raggiungere con facilità quello stato di grazia e di comunione con l’infinito, se non ci fosse stato quell’insopportabile odore di pesce ad aleggiare nella cupola. E così, consolato da quell’inattaccabile giustificazione, decise di non opporre resistenza al sonno postprandiale che lo stava avviluppando.