Uno sguardo furtivo intorno, poi Raffaele percorse a passi svelti il sagrato nel silenzio assolato di uno dei tanti pomeriggi estivi, tutti uguali e sonnolenti. Raffaele entrò, non visto, dentro la chiesa e si godette per un attimo la frescura. Si avvicinò all’antico confessionale in noce, scostò la pesante tenda di velluto rosso cupo e trasse dalla tasca dei pantaloni un biglietto ben ripiegato. Lo dispiegò e con una puntina da disegno lo fissò sul bordo superiore del confessionale, poco sopra la tenda. Il foglio bianco, con su scritto in stampatello “Confessore forestiero”, spiccava sul legno nero e, sicuramente, non poteva non essere notato.
Raffaele si sedette sulla bassa sedia imbottita, si appoggiò allo schienale e guardò l’orologio. Aveva un’ora di tempo prima che don Antonio si svegliasse dal sonnellino pomeridiano e venisse in chiesa per le consuete preghiere. Il vecchio prete, in ogni caso, non era un problema: aveva ottant’anni, vedeva poco ed era duro d’orecchi. Ormai, qualsiasi cosa gli si chiedesse, rispondeva sempre allo stesso modo: “Le vie del Signore sono infinite! Non dobbiamo farci della domande, ma solo avere fede in Lui” e troncava così sul nascere ogni discorso. Piuttosto, pensò, doveva stare attento a camuffare la voce per non farsi riconoscere: in quel paese si conoscevano tutti. La spessa grata, in quel senso, era utile: il resto lo faceva il fazzoletto che teneva vicino alla bocca.
Sentì aprirsi il portone della chiesa e si augurò che fosse Clizia. Cercò di sbirciare attraverso le tende di velluto e intravide, vicino al fonte battesimale, la figura di una donna, alta e formosa. Poteva essere lei, ma, d’altra parte, tra la penombra e il velo in testa, non ne era affatto certo. Era il terzo pomeriggio che stava al confessionale e la voce di un “Confessore forestiero” iniziava a circolare pericolosamente. L’aveva sentito dire proprio quel mattino nel suo negozio di frutta e verdura da due clienti che commentavano la novità.
“Era ora! Confessarsi da Don Antonio è perfettamente inutile. Secondo me non riesce nemmeno a sentire ciò che gli si dice!”
“A me dà sempre la stessa penitenza, qualsiasi cosa dica. Tre ave maria e un pater noster: anche a te?” L’altra donna aveva annuito e si erano messe a ridere, poi, per fortuna, avevano cambiato discorso. Raffaele aveva pensato che se la voce girava troppo per lui sarebbe stato molto rischioso continuare nel gioco. “Non posso esagerare: va a finire che mi beccano!”, ma, nonostante questo pensiero, era deciso a proseguire fino a quando non avesse ottenuto quello che voleva.
La prima che si era confessata da lui era stata Maresa, proprio l’ultima donna che Raffaele avrebbe voluto “confessare”. Logorroica, pettegola, nubile era evitata da tutti per quella sua mania di parlare troppo.
Appena si era inginocchiata al confessionale, dopo essersi fatta un frettoloso segno della croce, anziché iniziare ad elencare i suoi peccati aveva esordito con una domanda: “Padre, da dove viene?”
A Raffaele, riconoscendola, per poco non era scappata un’imprecazione. Si era subito ripreso ed aveva risposto: “Figliola, sai, vero, che la troppa curiosità è peccato? E, ora, dimmi, in cos’altro hai peccato?”
A questa domanda la donna aveva iniziato un elenco interminabile di piccole mancanze, inframmezzandole di tanto in tanto, con osservazioni e giustificazioni personali. Raffaele si era limitato ad ascoltare, dicendo nei momenti in cui la donna riprendeva fiato: “C’è dell’altro, figliola?” Nel frattempo pensava al modo migliore per congedarla. Stava quasi per assolverla quando Maresa disse:
“L’altro giorno ho sperato che venisse un mal di pancia al fruttivendolo. Però, Padre, credo che non sia un peccato perché deve sapere che Raffaele mi ha rifilato due pesche intaccate e io le ho pagate per buone.”
Raffaele, nel sentirsi nominato, sobbalzò. Trasse un profondo sospiro e interruppe bruscamente la donna che, nel frattempo, si era messa a parlare d’invidia per un abito nuovo della sua vicina di casa che, a suo parere, manco le stava bene.
“Figliola, questo è un peccato grave, anzi gravissimo: mai augurare del male a nessuno! E, ancor peggio, pensare alla malafede di quel pover’uomo!” In quell’occasione il fazzoletto si rivelò provvidenziale per soffocare una risata. Approfittò del momento di silenzioso stupore della donna per rincarare la dose: “Questo è un caso di malanimo, uno dei casi peggiori!”
Maresa, mortificata, continuava a rimanere in silenzio.
“Vediamo, figliola… Sei pentita per avergli mandato un accidente?”
“Sì, Padre, ma lui…”
“Non c’è ma che tenga! Per penitenza reciterai l’intero rosario ogni giorno e per una settimana. Ora vai.”
Brontolò la formula di rito e, appena la donna si fu allontanata, si mise a ridere sommessamente.
Raffaele scostò ancora un po’ la tenda: la donna che era entrata in chiesa stava, ora, inginocchiata davanti al tabernacolo raccolta, evidentemente, in preghiera. Sorrise soddisfatto nel riconoscere Clizia. Anche in quella posizione manteneva la schiena eretta e lo sguardo dritto davanti a sé. Raffaele poté guardarla con calma e ammirarla come era solito fare. Clizia, altera e sprezzante, esibiva le sue forme con ostentazione, evidenziandole con gonne strette e camicette attillate che lasciava sapientemente sbottonate. Aveva uno sguardo penetrante e sembrava voler trafiggere chi aveva di fronte; non amava molto parlare e quando lo faceva le sue frasi erano, di solito, lapidarie e simili a sentenze.
Raffaele era convinto che, nonostante fosse sposata e non perdesse occasione di parlare del suo “caro e meraviglioso marito”, avesse degli amanti o, per lo meno, che li avesse avuti. Lo intuiva dalle movenze sensuali, da certi sguardi, dal modo con cui socchiudeva le labbra, da come muoveva le mani sui fianchi per sistemarsi la gonna. Erano soprattutto quelle carezze che lo lasciavano ogni volta stordito. Quando capitava loro di rimanere soli in negozio, Clizia non mancava mai di lisciarsi la gonna, di muoversi con lentezza esasperante tra uno scaffale e l’altro, di piegarsi in avanti per prendere una verdura posta in basso, rimanendo in quella posizione ferma più del necessario. Rovistava nella cesta, poi si rimetteva in piedi esclamando: “Che belli questi cetrioli! Ne prendo due: mio marito ne va matto!”
E se non erano cetrioli, erano finocchi, o rape o cavolfiori: Raffaele si era più volte chiesto se c’era qualcosa per cui quell’uomo non andasse “matto”.
Nel ripensare alla volta in cui l’aveva invitata nel retrobottega con la scusa di farle vedere delle cassette di pomodori “veramente speciali per fare la conserva”, si sentì invadere da una gran rabbia e provò il solito increscioso senso di umiliazione e di frustrazione che, da allora, lo perseguitava. Quel giorno, in negozio, Clizia si era comportata come sempre, cioè lanciando quei segnali che Raffaele considerava inequivocabili. Così l’aveva invitata ad andare nel retro con la scusa delle cassette di pomodori speciali e, mentre lei li palpava e li annusava, lui si era avvicinato da dietro, le aveva posato le mani sui fianchi e l’aveva attratta a sé, gustando la morbidezza di quel contatto. A Raffaele sembrò che la donna si stesse per abbandonare tra le sue braccia e non opponesse resistenza. Ma fu questione di un attimo. Clizia si divincolò, si girò su stessa, lo fissò con quei suoi occhi gelidi e disse una sola parola, sottovoce: “Cretino!”. Lo sguardo e il tono colpirono Raffaele come uno schiaffo. Anzi, ebbero un effetto ben più devastante di un sonoro ceffone.
Raffaele controllò l’orologio: ancora mezz’ora di tempo, poi avrebbe dovuto staccare il foglio appeso, controllare che non ci fosse nessuno in giro per uscire dal confessionale. Il giorno prima aveva dovuto aspettare un bel po’ prima di poter mettere il naso fuori. Aveva appena “confessato” l’Evelina e fatto in tempo a togliere il foglio quando erano entrate alcune donne. Lui si era rincantucciato sul pavimento del confessionale ed aveva atteso in quella scomoda posizione che accendessero le candele, facessero quello che dovevano fare e, finalmente, se ne andassero. Era già in ritardo per aprire il negozio e quelle comari, evidentemente, avevano scambiato la chiesa per un salotto: si erano sedute nell’ultimo banco, si godevano il fresco e chiacchieravano tra loro. Sottovoce, ma chiacchieravano.
Evelina era stata una vera sorpresa. Vedova da un paio di anni, ancora abbastanza giovane anche se non piacente (non lo era mai stata, poveretta, neppure quando aveva dalla sua parte l’età) durante la confessione si era sfogata e Raffaele aveva avuto conferma di quanto sospettava: Clizia aveva degli amanti. Non solo: si divertiva con gli amanti delle altre. Almeno a sentire Evelina.
La donna spiegò, per filo e per segno, come stava la situazione, senza farsi scrupoli nel dire nomi e cognomi. La colpa, a suo parere, era principalmente di Don Antonio. Era rimasta vedova da pochi mesi quando confessò al prete (a quel tempo ancora udiva bene) che, in mancanza del marito, si dava soddisfazione da sé. Don Antonio l’aveva severamente ammonita, le aveva fatto un lungo discorso legato alle pratiche contro natura, al sicuro inferno meritato se avesse continuato per quella strada e, in conclusione, le aveva detto che, se proprio non poteva fare a meno dei piaceri del corpo, sarebbe stato meglio se si fosse risposata. Da allora Evelina aveva cercato marito, ma ogni volta che trovava qualcuno ecco che compariva Clizia che, con il suo modo di fare, glielo portava via.
“Cosa posso fare, Padre?”, aveva chiesto sconsolata Evelina.
“Insisti, figliola, insisti. Alla fine Dio provvederà anche a te.”
Raffaele era troppo scombussolato dalla scoperta fatta per formulare una risposta più adeguata. Ormai non c’erano dubbi: Clizia non era una donna virtuosa come amava far credere d’essere. “Il posto di una donna è in casa, vicino al focolare”, affermava ripetutamente. Che faccia tosta! Il rifiuto ricevuto nel retrobottega, a quel punto, gli bruciò ancora di più.
Quel giorno diverse donne si andarono a confessare: la voce del confessore forestiero, di sicuro, era circolata per il paese. Ben presto si annoiò nel sentire ripetere sempre le stesse cose e si mise a pensare al da farsi. Un’idea gli balenò all’improvviso per la mente: la cosa lo mise di buon umore tanto che, senza distinzioni di sorta, le assolse tutte, rassicurandole e definendo i loro peccati bazzecole o poco più. Quello, poi, sarebbe stato l’ultimo giorno trascorso in confessionale, quindi aveva deciso d’essere magnanimo: almeno avrebbe lasciato un buon ricordo.
Quando anche l’ultima donna se ne fu andata staccò il foglio, sbirciò attraverso le tende ed uscì con circospezione. La chiesa era deserta: evidentemente Clizia se n’era andata senza confessarsi. “Meglio così”, pensò.
Fu fortunato. Il caso volle che un paio di giorni dopo Clizia ed Evelina entrarono, quasi nello stesso istante, nel suo negozio. Raffaele uscì da dietro il bancone, passò davanti a Clizia, quasi ignorandola, e si avvicinò ad Evelina, sfoderando un bel sorriso.
“Che piacere vederti! Stavo giusto pensando a te. Ti ho tenuto da parte delle pesche succose che sono una meraviglia… quelle mica le vendo! Le tengo per me o, al massimo, per delle persone speciali come te!”
Nel dire questo infilò con un gesto confidenziale due grosse pesche rosee e vellutate nella borsa della spesa della sbalordita Evelina. Prima di tornare al banco fece ancora qualche osservazione sulla somiglianza tra le sue gote e il colore delle pesche e su quanto questo pensiero avesse turbato i suoi sonni.
Servì una stupefatta Evelina e una meditabonda Clizia, poi le accompagnò entrambe alla porta. Si appoggiò allo stipite e, soddisfatto, si accese una sigaretta. Il primo passo era stato fatto e l’esca gettata. Ora non gli rimaneva altro che aspettare.
Nei giorni successivi Raffaele notò con soddisfazione che quando Evelina entrava in negozio quasi sempre compariva anche Clizia.
Così alle pesche seguirono altri omaggi: le ciliegie “rosse come le tue labbra”, le albicocche “vellutate come la tua pelle”, i pomodori “sodi come te”.
Evelina accettava con un sorriso meravigliato, lo guardava mezza incredula e mezza sognante, mentre tra sé pensava che quel confessore forestiero aveva avuto ragione nel dirle “Alla fine Dio provvederà anche a te”. Non era mai stata sfiorata dal dubbio di piacere a Raffaele, ma se questi erano i piani del Signore lei, di certo, non si sarebbe opposta.
Raffaele, intanto, aveva già in mente altri omaggi, ancor più espliciti: due meloni “belle come le tue tette” e delle fragole “perché la voglia di fragole è come la voglia di te”. Quel pomeriggio, nel negozio deserto, stava appunto pensando ai meloni e alle fragole e guardava in giro con occhio critico cercando spunti per continuare il suo corteggiamento, quando entrò Clizia.
“Strano! È venuta già stamani a fare la spesa”, pensò Raffaele. Proprio quel mattino aveva regalato ad Evelina un paio di pomodori “sodi” mentre Clizia aspettava il suo turno per essere servita. Le era sembrata impaziente e anche un po’ contrariata.
“In cosa posso servirti?”
Clizia esitò un attimo prima di parlare. Poi, a voce bassa disse: “Raffaele, ti ricordi quelle cassette di pomodori speciali? Quelle che tieni nel retrobottega…”
“Sì, me le ricordo.”
“Ecco, ho cambiato idea: vorrei vederle…”
Prese il cartello con su scritto “Torno subito”, lo appese alla porta e diede un giro di chiave. Fu una faccenda di dieci minuti.
Quando Clizia si fu ricomposta, uscì dal retrobottega con aria soddisfatta e compiaciuta. Raffaele era già dietro il bancone e stava mettendo in un piccolo cestino di vimini mirtilli, lamponi, fragoline di bosco. Lei lo guardava incuriosita e sorridente.
“Clizia…”
“Sì?”
“Mi faresti un favore? Mentre torni a casa, puoi sporgere questo cestino ad Evelina e dirle che è un omaggio da parte mia? Stamani non ho fatto in tempo a prepararlo…”
Stava per chiederle se, secondo lei, era il caso di mettere anche qualche mora, quando sentì la porta del negozio chiudersi, sbattuta con violenza.
“Pazienza! Vorrà dire che passo io stasera da Evelina, appena ho chiuso con il negozio.”
Sorrise: non gli sembrava per nulla una cattiva idea.