Burt gettò il borsone sul letto e appoggiò la ventiquattrore sul tavolino, vicino all’ingresso. La stanza del motel non era diversa da quelle che frequentava abitualmente con le tende impolverate, le bruciature di sigaretta sul comodino, la tappezzeria stinta, l’arredamento spoglio, le stampe anonime alle pareti.
Si buttò sul letto con tanto di scarpe, fissò il soffitto e rimase a guardare la luce fioca della lampadina. Il pensiero che avrebbe dovuto telefonare a Rose lo mise di malumore. Allungò la mano verso il telefono, compose lo zero e appoggiò la cornetta sul cuscino, vicino all’orecchio.
“Qui la reception, desidera?”
“Devo fare una telefonata, mi serve la linea.”
“Nazionale o internazionale?”
“Nazionale.”
“Attenda, prego…”
“Quanto?”
“Qualche minuto... A quest’ora, signore, sono in molti a chiedere la linea.”
Burt si allungò sul letto fino a raggiungere con una mano il borsone, lo tirò verso sé e aprì la cerniera. Iniziò a frugare: da qualche parte avrebbe dovuto esserci la sua fiaschetta di bourbon.
Evidentemente c’era stato un cambio alla reception perché al suo arrivo, dietro all’alto bancone, c’era un uomo dalla faccia butterata, di poche parole e dall’aria scocciata. Mentre attendeva la linea si chiese come potevano essere le tette di quella donna. Burt andava matto per le tette e il suo gioco preferito era quello di immaginarle anche solo sentendo una voce femminile. Quando incontrava una donna, poi, il suo primo sguardo era per i seni: gli bastava ormai una sola occhiata per capire il tipo di reggiseno indossato e la misura.
Bevve un’abbondante sorsata di bourbon e si asciugò la bocca con il dorso della mano.
“Signorina?”
“Sì?”
“Cosa si può fare di sera in questo posto sperduto?”
“A dieci miglia a nord c’è il paese e lì può trovare un pub e un cinema. Al martedì il cinema è sicuramente aperto e c’è sempre una proiezione serale.”
“Ci possiamo andare insieme: che ne dice?”
Silenzio.
“Non importa… Allora, questa linea?”
“Ecco, signore, se n’è liberata una. Ora può comporre il numero.”
Burt posò la fiaschetta ed iniziò a digitare il prefisso e il numero di casa.
“Ciao, Rose. Sono io…”
Allontanò la cornetta dall’orecchio: sua moglie, come al solito, parlava a voce altissima per sovrastare l’audio della televisione.
“Era ora che ti facessi vivo. Quando torni?”
“Ancora qualche giorno… per venerdì dovrei essere a casa.”
“Sarebbe ora! Il rubinetto continua a perdere e Brian ha bisogno di una lezione.”
“Che ha fatto?”
“Deve aver tirato un pugno ad un compagno e il direttore mi ha mandato a chiamare.”
Burt riprese la fiaschetta, ingollò l’ultimo sorso rimasto. Con un gesto di stizza la posò sul tavolino.
“Senti, non puoi abbassare il volume della televisione? Almeno fino a quando siamo al telefono, così smetti d’urlare… Per Brian non ti preoccupare: gli parlerò io.”
“Rose, non ricominciare con questa storia! La so a memoria. Vuoi metterti in testa che non vado a spasso, ma che è il mio maledetto lavoro? Lo vuoi capire una volta per tutte?”
Per qualche istante non parlarono: Burt udì distintamente la voce del presentatore del notiziario serale augurare a tutti un buon ascolto, quasi avesse avuto la televisione in camera.
“Dov’è Brian? Passamelo.”
Dopo un attimo di silenzio, Burt sentì la donna singhiozzare. Gli sembrò di vedere il seno prosperoso di sua moglie muoversi su e giù al ritmo del respiro affannato.
“Calmati, Rose, e smetti di piangere! Sai che non lo sopporto! Non volevo sgridarti: al mio ritorno sistemerò tutto, vedrai, e farò pure un bel discorso al ragazzo.”
Alla tv, intanto, davano le previsioni del tempo.
“Ci sono altre novità?”
Rose tirò su con il naso, prima di rispondere.
“No, mi sembra di no… Ah, sì! Ieri Mia, facendo retromarcia, ha sbattuto contro il palo della luce, quello che è di fronte al market, in fondo alla strada. Hai presente? Non si è fatta nulla, per fortuna.”
“Mi fa piacere. Senti, ora ti saluto: vado a farmi una doccia e poi a mangiare un boccone. Sono stanco morto e non vedo l’ora di andare a letto. Ci vediamo venerdì, allora. Intesi?”
“Sì, e mi raccomando: stai attento e vai piano… Ah, Burt…”
“Dimmi.”
“Come vanno gli affari?”
“Come al solito: si vende poco e i clienti fanno incazzare, però non mi lamento troppo.”
Si salutarono mentre andava in onda la sigla di chiusura del notiziario flash.
Entrò nella doccia per allontanarsene immediatamente, nauseato dall’odore di fogna che usciva dallo scarico. Rinunciò a lavarsi e si sciacquò il viso al lavandino. Mentre si asciugava guardò la sua faccia riflessa nel piccolo specchio. In fretta distolse gli occhi da quel volto dalla pelle grigia e un po’ flaccida, incorniciato da radi capelli che, alla luce di quella lampadina, apparivano di un colore incerto, una via di mezzo tra il biondo cenere e il grigio. Aveva bisogno di riposo, si disse, e anche di stare disteso al sole su di una spiaggia bianca, senza Rose e le sue continue lamentele: non avrebbe dovuto telefonarle, pensò.
Il ristorante del motel era semivuoto. Un cameriere con una giacca rosso scura, non pulitissima, lo fece accomodare ad un tavolo d’angolo; dopo aver ordinato Burt si guardò intorno e alla fine si concentrò sulla coppia seduta al tavolo di fianco al suo.
Lei doveva portare una terza di reggiseno e indossava uno di quei modelli a balconcino: la camicetta era sbottonata e s’intravedeva perfettamente. Aveva sul tavolo un portacipria color avorio e, di tanto in tanto, lo apriva, si guardava nello specchietto e si aggiustava il trucco usando la punta del tovagliolo inumidito con la saliva per eliminare le sbavature del rossetto e dell’eyeliner. Lui guardava in giro e, nel frattempo, si portava il cibo alla bocca con lentezza e metodicità. La donna parlava in continuazione, senza aspettarsi nessuna risposta, con un tono di voce petulante, accendendosi una sigaretta dietro l’altra e lasciando il cibo intatto nel piatto.
“…ti avevo detto che questo viaggio sarebbe stato inutile. Abbiamo solo buttato via soldi e tempo. Credevi di convincere tuo cugino a prestarci il denaro? Sei sempre stato un povero illuso, Osvald! Bastava una telefonata per sentirsi dire «no», ma tu, come al solito, non mi hai dato retta, e così il «no» ce lo siamo sentiti sbattere in faccia ed ora eccoci qua in questo squallido posto. Per di più si mangia da schifo: non so come fai a mandar giù questa roba…”
Burt si chiese come faceva quell’uomo a sopportarla: di certo aveva imparato a non ascoltarla e pensò che gli sarebbe proprio piaciuto chiedergli come fosse riuscito in tale impresa. In quel momento i loro sguardi s’incontrarono: Osvald scosse impercettibilmente il capo e alzò gli occhi verso il cielo mentre Burt annuì con un sorriso comprensivo.
La donna, intanto, era passata a parlare dell’assoluta necessità di tinteggiare le pareti del salotto e di cambiare le tende della camera, sottolineando che la mancanza di soldi non era un problema suo, mentre lui sorbiva il caffè tenendo la tazza con entrambe le mani. Quando ebbe finito, la posò sul tavolo e la allontanò da sé, poi si pulì la bocca e si alzò, senza dirle nulla.
Nel passare di fianco a Burt, Osvald gli fece un cenno di saluto amichevole. Intanto la donna, rimasta sola al tavolo, raccolse in tutta fretta le sigarette, l’accendino, il portacipria e seguì il marito, quasi di corsa, senza smettere di parlare, lasciando al suo passaggio un forte profumo di gelsomino.
Burt osservò divertito la scena e scoppiò a ridere. Terminò la cena con calma non avendo alcuna voglia di rinchiudersi in camera; gironzolò un po’ nella hall, controllò con un’occhiata esperta il seno della donna alla réception e non trovandoci nulla di eccezionale (due piccole protuberanze avvizzite) scacciò l’idea di iniziare una conversazione. Alla fine decise di uscire e andò a sedersi ad un tavolino di ferro scrostato sul marciapiede del motel. L’aria era ferma e il muro alle sue spalle restituiva il calore del giorno: Burt allungò le gambe e fece tintinnare il ghiaccio nel grosso bicchiere di bourbon che aveva in mano.
“È andata a dormire.” disse Osvald avvicinandosi al tavolino.
Burt sorrise e lo invitò a sedersi.
“Un minuto…” rispose Osvald allontanandosi velocemente.
Ricomparve poco dopo con un bicchiere e una bottiglia di bourbon ancora sigillata.
Si sedette, l’aprì, si riempì il bicchiere e la lasciò, aperta, sul tavolino.
“Anche la mia è più o meno così. Vive con la televisione accesa. Mangia, dorme, scopa con la televisione accesa.” disse Burt.
“Scopa nel senso di…”
“Sì, proprio in quel senso…”
Rimasero in silenzio a guardare le auto passare sulla statale. Osvald riempì i bicchieri vuoti.
“Ha delle belle tette, tua moglie” affermò Burt.
“È importante?”
“Beh… è meglio di niente, non credi? Niente di personale… È solo una mia fissazione, quella delle tette. Tu non ne hai?”
“Sì, a pensarci bene anch’io ho una fissa: vado matto per i culi, quelli belli e sodi. È la prima cosa che guardo in una donna.”
Furono interrotti da un’auto che arrivò a gran velocità e si arrestò a pochi metri da loro. La coppia che ne scese era, sicuramente, una coppia clandestina: lei era di mezza età, vestita in modo appariscente e i capelli, gialli come la paglia, così unti da rimanere incollati alla testa; l’uomo, abbastanza giovane e leggermente claudicante, doveva essere un impiegato della società del gas, almeno a giudicare dalla scritta sulla portiera dell’automobile. Sicuramente era in servizio e andava di fretta visto il modo brusco con cui sollecitò la donna a muoversi.
Osvald e Burt li seguirono con lo sguardo fino a quando non sparirono dentro al motel.
“Una puttana” fece Osvald.
“Tutte le donne sono puttane, chi più, chi meno” replicò Burt.
“Hai ragione! Lo sono tutte: chi si vende per soldi, chi per avere un tetto sopra la testa, chi per farsi mantenere a casa senza avere un cazzo da fare dalla mattina alla sera.”
Tacquero, riempiendosi i bicchieri e fissando il buio della notte.
Dopo un po’ ripresero a parlare.
“Che fai da queste parti?” domandò Osvald.
“Sono solo di passaggio… Con il lavoro che faccio sono sempre in giro, ma non mi lamento.”
“E che lavoro fai?”
“Sono un rappresentante delle migliori armi da fuoco che esistono in commercio e, naturalmente, sono anche il miglior rappresentante di tutto lo stato!” rispose Burt scoppiando a ridere. Poi aggiunse:
“Mai sentito parlare delle Colt?”
“Certo che sì!” rispose Osvald. “Hai un bel giro? Insomma se ne vendono molte?”
“Ma dove vivi? Basta sentire un notiziario o leggere un quotidiano: parlano sempre di morti ammazzati, rapine, violenze…Poi la gente ha paura e si tiene in casa una pistola, dice, per sicurezza… Sicurezza o no, le statistiche parlano chiaro: le richieste di armi per difesa sono in continuo aumento e a me la cosa sta bene, anzi benissimo! Vieni che ti riempio il bicchiere e facciamo un bel brindisi alla gente che se la fa sotto!” disse Burt.
I bicchieri tintinnarono e i due uomini rimasero nuovamente in silenzio.
“E tu cosa fai per campare?” chiese Burt, dopo un po’.
“Sono nel campo della rottamazione. Ho un grosso deposito e riesco a tirare avanti, anche se, capisci, mi piacerebbe allargarmi, ma mi servono soldi freschi. Sono andato a chiederli ad un mio cugino: per questo, ora, sono qui…di ritorno.”
“E com’è andata?”
“Come vuoi che sia andata? La risposta è stata picche. Un sacco di belle parole tipo: mi spiace davvero, ma proprio in questo periodo gli affari mi girano male, eccetera eccetera eccetera… Parliamo d’altro, anzi beviamoci su… è meglio!”
Fecero un altro brindisi.
Il traffico era completamente cessato e il silenzio era interrotto solo dal frinire di qualche insetto e dalle voci dei due uomini.
“Chi vincerà il campionato, secondo te?” domandò Burt.
“Il Miami Heat! Non c’è manco da chiederselo. Eddi Jones è una colonna e la squadra gli sta dietro.”
“Non mi far ridere… Quelli non arriveranno neanche terzi: sono pronto a giocarmi le palle. Jones è nessuno in confronto a Wallace. Quest’anno vincerà il Detroit Pistons con almeno dieci punti di scarto” affermò Burt con sicurezza.
“Te ne intenderai di tette, ma di basket non capisci un cazzo.”
Nel dire questo Osvald prese la bottiglia, se la portò alla bocca e bevve le ultime gocce.
“Morta!” esclamò, alzandosi con difficoltà e appoggiandosi alla bottiglia per non perdere l’equilibrio.
“È meglio che vada prima che il mio tesoro venga a reclamarmi...”
“Vengo anch’io... Culi e Miami Heat…mah…amico, lasciatelo dire, hai sbagliato tutto nella vita… sei proprio mal messo!” disse Burt dandogli una gran pacca sulle spalle e mettendosi a ridere. Anche Osvald rise, ricambiò la pacca e i due uomini si salutarono come vecchi amici.
Burt nel passare davanti alla réception guardò ancora una volta le tette della donna e, disgustato, scosse la testa.