L’afa e l’umidità rendevano l’aria pesante, quasi irrespirabile. Domenico stava seduto immobile sulla sua solita panchina, nei giardini di Palazzo Reale, cercando un po’ di frescura all’ombra delle camelie del piccolo giardino Italia. I suoi respiri erano brevi, talvolta fatti a bocca aperta, come se in quel modo gli fosse più facile respirare. Nonostante fosse piena estate aveva addosso una camicia abbottonata fino al collo e una vecchia giacca altrettanto chiusa. La sua età e la sua dignità non gli permettevano di andare in giro sbracato come quasi tutti facevano. Fosse anche stato giovane, ragionava, non gli sarebbe in ogni modo piaciuto. Maria, poi, ci teneva che andasse in giro sempre curato.
Ormai si era abituato a vedere le ragazze con l’ombelico di fuori e i giovanotti con i pantaloni così larghi e appesantiti da catene che parevano dover scivolare a terra da un momento all’altro, almeno per la forza di gravità. A Domenico non spiaceva guardare i bei ventri femminili esposti con tanta disinvoltura dalle fanciulle nonostante fossero rovinati, almeno la maggior parte, da tatuaggi e anellini.
Pensava alla buonanima di sua moglie e invariabilmente considerava che non avrebbe assolutamente sfigurato, anzi sarebbe stata la più bella di tutte. Il ventre di Maria l’aveva visto solo dopo essersi sposato, ma sicuramente era valsa la pena attendere tanto. Un ventre piatto, bianchissimo, sodo.
Si erano conosciuti poco più che bambini: lei aveva dodici anni e lui uno in più. Stava seduta sull’uscio di casa e lavorava di cucito accanto a sua madre, seduta su un basso sgabello. Aveva i capelli nerissimi, lunghi, legati alla base della nuca con un piccolo fiocco. Sul viso olivastro spiccavano due occhi grandi, neri come i capelli. Era andato in quel vicolo perché invitato da amici per una partita di pallone importante: una sfida tra i ragazzi di due quartieri dove la posta in palio era alta. La squadra vincente avrebbe ottenuto il possesso di un pezzo di giardino pubblico conteso da entrambi i gruppi. Domenico viveva in un’altra zona della città, ma siccome era molto bravo a giocare a pallone era stato appositamente chiamato da un suo amico. Durante la partita aveva più volte notato che Maria si bloccava con l’ago a mezz’aria per seguire le azioni concitate e che sussultava ogni qual volta la sua squadra perdeva il possesso del pallone. Allora si era impegnato al massimo, dando fondo a tutte le tecniche e le astuzie che conosceva. Alla fine aveva segnato la rete del vantaggio decisivo ed era stato portato in trionfo dai suoi occasionali compagni. E mentre era sulle loro spalle lanciò uno sguardo orgoglioso a quella ragazzina ricevendone in cambio un bacio mandato sulla punta delle dita. Domenico, allora, era arrossito per il piacere.
“Ma che ha questo da fissare? Da quando siamo arrivate non ha ancora smesso! Andiamocene”, quella frase pronunciata con voce alta e sgarbata da una ragazza alla sua amica lo fece trasalire. Perso nei suoi ricordi, lo sguardo era rimasto fisso sulle due ragazze che si erano sedute sulla panchina posta di fronte alla sua. Domenico, nonostante l’età, arrossì per la rabbia. Già, quello di arrossire era un vezzo che non aveva mai perso. Arrossiva quando provava piacere oppure quando si arrabbiava. E più provava piacere o più si arrabbiava e più arrossiva: un circolo chiuso dal quale non ne era, suo malgrado, mai uscito.
Di questo fatto Maria lo prendeva delicatamente in giro. Ma si capiva chiaramente che a lei piaceva così, anzi glielo diceva tutte le volte che lui se ne lamentava.
Si asciugò le lacrime che stavano scendendo sul suo volto. Si guardò in giro per assicurarsi d’essere solo, poi borbottò: “A chiàgnere'nu muorto so' làcreme pèrze”. Se lo ripeteva sovente, più per dovere che per vera convinzione. Ormai erano quasi vent’anni che se lo ripeteva, ma senza trarne alcun reale beneficio.
Lentamente si rizzò in piedi, con addosso la stanchezza di tutta una vita. Era già l’imbrunire e doveva rientrare all’ospizio se non voleva essere nuovamente sgridato come gli era successo alcuni giorni prima. L’avevano pure minacciato di non farlo più uscire se si fosse ripetuto un altro incidente del genere. Domenico aveva sentito il sangue ribollire, il rossore avvampare in viso, ed aveva chinato impotente il capo.
Ci fosse stata Maria non avrebbe dovuto subire tutte quelle angherie e non avrebbe patito quella solitudine che lo stava lentamente uccidendo. Sicuramente l’avrebbe accolto nella cucina di casa con la cuccuma fumante, ben sapendo quanto era goloso di caffè. Mentre così ragionava gli venne improvvisamente una voglia irrefrenabile di berne una tazzina. Un caffè degno di quel nome: nero, denso, caldo. Non come quel liquido scuro e tiepido che all’ospizio spacciavano per caffè e che servivano, bontà loro, solo al mattino. Era da tantissimo tempo che non si permetteva quel lusso. Ormai aveva perso il conto dei mesi, forse degli anni.
Si affacciò dentro ad un bar, il primo che incontrò sulla strada del ritorno. Un locale scuro, piccolo, occupato quasi interamente da un gran bancone. Fu contento che in quel momento non ci fossero avventori. Si schiarì la voce, poi, rivolto alla donna che stava asciugando dei bicchieri, chiese sottovoce: “C’è un caffè sospeso?”, vergognandosi quasi fosse un ladro.
Mentre formulava la domanda sentì il cuore accelerare i battiti. Si rivide mentre nei pomeriggi domenicali passeggiava con Maria per le vie della città. Camminava lentamente con lei sottobraccio, chiacchierando di sciocchezze. Maria rideva felice, come una bambina, alle sue battute. Andavano al Maschio e lì si fermavano a contemplare il mare. Poi si sedevano ad un caffè. Quando veniva l’ora di rientrare a casa e si alzava per andare a pagare il conto immancabilmente Maria gli ricordava di lasciare un sospeso.
La barista annuì e si voltò verso la macchina del caffè e Domenico, dopo un tempo immemorabile, arrossì di piacere.
Il “caffè sospeso” è antica tradizione napoletana: i clienti, al momento di pagare la propria consumazione, pagavano un caffè in più lasciando così un caffè sospeso per chi non poteva permetterselo.
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Secondo posto al premio letterario Storie a Mezzogiorno