“Buongiorno”, dissi entrando nell’aula e puntando dritta verso la cattedra, senza degnare di uno sguardo i ragazzi seduti dietro ai banchi.
Una serie di “buongiorno” mi arrivarono all’orecchio, dettati dall’educazione, bofonchiati, sicuramente non pensati.
In effetti, quella non poteva essere una buona giornata e non c’era augurio che avesse il potere di renderla tale. Una pioggia sferzante si abbatteva sui vetri, una convocazione straordinaria di un inutilissimo collegio docenti per il pomeriggio, l’auto che non aveva voluto saperne di partire erano indizi più che rispettabili per capire che di buono in quella giornata non c’era proprio niente. Tutto questo oltre alla telefonata ricevuta la sera precedente.
Pensai che era inutile cercare di addolcire la pillola. Così, dopo aver posato di malagrazia il registro, li guardai fissi negli occhi e dissi:
“La lezione d’oggi s’incentrerà sulla legge di gravitazione universale di Isaac Newton”.
Feci una pausa, poi sorridendo ironicamente aggiunsi: “Vi risparmio la storiella della mela caduta in testa, altrimenti sono sicura che di tutto ciò che vi dirò vi rimarrà impresso solo quello…”
Mi odiavo quando ero così acida, ma non potevo farci niente.
Quel giorno, poi, avevo tutt’altro per la testa.
“La legge di gravitazione universale ha una valenza generale: è possibile applicarla a due corpi qualsiasi. A differenza della forza elettrica descritta dalla legge di Coulomb che, vi ricordo, vale solo se i corpi sono carichi elettricamente e che può essere attrattiva o repulsiva, questa è una forza sempre attrattiva”.
Attrazione. Questo è il termine giusto per definire il mio rapporto con Franco. Appena conosciuto avevo sentito questa forza attrattiva esercitata dal suo sguardo magnetico, dal tono di voce calmo e profondo e dalle simpatiche battute che accompagnavano le sue lezioni. Era il relatore di una serie di conferenze organizzate dall’Università sul tema “Didattica della meccanica nelle scuole superiori”: un corso di dodici ore concentrate in tre pomeriggi consecutivi. Professore di fama nazionale, cinquant’anni portati benissimo. Anzi quei capelli brizzolati lo rendevano, se possibile, ancora più affascinante ai miei occhi di giovane donna.
Durante l’intervallo della seconda giornata gli avevo chiesto chiarimenti sull’utilizzo della rotaia ad aria nei laboratori. E mentre gentilmente mi rispondeva fissavo, come ipnotizzata, la sua bocca.
“Serve anche per verificare il principio di inerzia?”, buttai lì per continuare il discorso. Intanto pensavo “Chissà come bacia?”.
“Sicuramente, ma ho ottenuto ottimi risultati utilizzandola per dimostrare la conservazione della quantità di moto”.
Guardavo le sue mani. Le muoveva elegantemente per accompagnare alcune sue frasi. Di nuovo mi sorpresi a chiedermi come potevano essere le sue carezze.
Era la prima volta che mi succedeva una cosa del genere. Tutte le mie esperienze si limitavano ad uscite tranquille con coetanei. Anche il mio ragazzo non riusciva a suscitare in me una simile reazione, neppure nei momenti più intimi.
“L’intensità della forza dipende da alcuni parametri, come le masse che indicherò rispettivamente con m minuscolo e M maiuscolo e la distanza d tra i corpi”.
Mi girai verso la lavagna e iniziai a scrivere la formula
“Come potete osservare dalla struttura della formula la forza è direttamente proporzionale al prodotto delle masse dei due corpi. Vi ricordo che a parità di forza applicata tanto minore è la massa del corpo tanto maggiore è l’accelerazione del corpo stesso”.
Feci una pausa, poi chiesi:
“Vi ricordate da quale legge segue l’affermazione che ho appena fatto?”.
Il silenzio fu l’unica risposta che ebbi.
La seconda legge della dinamica, mi risposi automaticamente. Io l’avevo sperimentata su di me: il mio cuore doveva avere una massa ben piccola visto il modo in cui accelerava i battiti quando incrociavo il mio sguardo con quello di Franco.
Lui insegnava in una prestigiosa università, distante qualche centinaia di chilometri da dove risiedevo, ma, sovente, teneva seminari in tutto il Paese.
Al termine dell’ultima lezione mi ero avvicinata come molti dei miei colleghi per congratularmi per le interessanti lezioni tenute. Non so come, ma mi ritrovai ad essere l'ultima a salutarlo. Gli porsi la mano e lui la trattenne qualche istante in più del necessario. Si guardò attorno: tutti gli altri erano presi dai saluti e dagli ultimi commenti. Con un tono di voce molto basso, udibile a fatica mi disse:
“Stasera verrebbe a cena con me? Vorrei approfondire alcuni aspetti importanti che oggi, per mancanza di tempo, non ho potuto esaminare. Lei mi è parsa molto interessata durante questo corso”.
Rimasi piacevolmente stupita e mi sentii rispondere: “Volentieri, professore”.
“Lasci stare il titolo. In fondo siamo colleghi e così mi fa sentire vecchissimo”.
Non diedi peso alla mia coscienza che mi ricordava che da tempo avevo promesso ad una cara amica che proprio quella sera saremo andate al cinema insieme. Fissò l’appuntamento presso il ristorante dell’hotel in cui alloggiava e si raccomandò la puntualità.
Ero molto emozionata quando con un largo anticipo mi presentai nel posto convenuto. Lui scese dalla camera con dieci minuti di ritardo sostenendo che una serie di telefonate lo avevano tenuto impegnato.
Fino alla fine degli antipasti mi parlò di fisica mentre io, troppo emozionata per parlare, mi limitavo ad annuire e a sorridergli. Poi, con estrema naturalezza, quasi senza cambiare di tono, prese a raccontarmi della sua solitudine legata al fatto che era sempre in giro: nessuna donna l’aveva mai capito o, anche solo, aveva provato ad accettare questa sua situazione. Con un grosso sospiro aggiunse: “E, pensare, che io ho bisogno d’amore”.
Ne rimasi commossa e gli occhi mi si riempirono di lacrime. Timorosamente allungai la mano per appoggiarla sulla sua che teneva posata sul tavolo.
A quel punto sorrise e con voce sicura disse: “Per fortuna che ti ho incontrato, così sensibile e così matura nonostante la tua giovane età”.
Negli occhi aveva l’espressione felice dei bambini.
“Vieni, non perdiamo altro tempo. Ho bisogno di stare solo con te”.
Così salimmo nella sua camera. Senza neppure finire di cenare.
“Vedo che non rispondete. Vi ho sempre detto che voi studiate solo per l’interrogazione: vi appiccicate in testa quattro cose giusto per prendere sei e nient’altro...”.
Scrollai le spalle e lasciai perdere. Non ero dell’umore giusto neppure per sgridarli.
“Sempre analizzando la formula potrete dedurre che tale forza è inversamente proporzionale al quadrato della distanza. Tanto per fare un esempio: se la distanza tra i due corpi raddoppia, la forza diventa la quarta parte rispetto a quell’iniziale”.
Verissimo. Almeno per Franco. Ora che stavamo a centinaia di chilometri la forza di attrazione che esercitavo su di lui era diventata pressoché infinitesima.
Il mattino successivo, dopo aver trascorso una notte di appassionato amore, mi aveva salutato con aria triste.
“Ci sentiremo al telefono e, vedrai, farò di tutto per tornare presto a trovarti. Sei stata meravigliosa, piccola”.
Così iniziammo a telefonarci. O, meglio, iniziai a telefonargli. Sempre molto impegnato, difficilmente riusciva a trovare un momento per chiamarmi. Ma quando ci sentivamo era gentilissimo, rimpiangeva il poco tempo in cui eravamo stati assieme, prometteva che presto ci saremmo di nuovo rivisti.
“Lascia che passi questo brutto periodo, poi…”
Poi, poco alla volta, si era mostrato sempre più insofferente. Lo si percepiva chiaramente dal tono di voce frettoloso. Un giorno mi chiamò con il nome di un’altra.
“Concludo con qualche osservazione su “G”. E’ una costante universale, nel senso che, qualunque sia il mezzo in cui sono immersi i due corpi, ha sempre lo stesso valore. Più avanti nel corso ne incontreremo altre”.
Ho facilmente scoperto qual era la costante in Franco.
Ieri sera mi ha telefonato un’ex-compagna di università che insegna in una città del sud.
“Pronto? Sono Mirella. Come stai cara?”
“Insomma, benino”
“Solo benino? Mi spiace… Io sono euforica! Mi è successa una cosa incredibile e non vedevo l’ora di dirtela.
Hai presente il professor Franco Sismondi, quello che tiene i seminari di fisica? Beh, non ci crederai, ma l’altra sera, alla fine del corso a cui ho partecipato, mi si è avvicinato e con la scusa di approfondire delle cose mi ha invitato a cena. Mi ha fatto pena: è molto solo quell’uomo, poveretto… Così al termine della serata sono stata con lui. E’ un uomo bellissimo e affascinante… non ho altre parole per descriverlo. Adesso è ripartito, ma mi ha promesso che ci terremo in contatto e che tornerà da me non appena potrà”.
Sospirai.
“Mirella, hai tempo qualche minuto? Ti devo raccontare una storia interessante…”
“Bene, ragazzi. Per oggi ho concluso. Vi invito caldamente a riflettere su questa legge la cui portata va ben oltre ad una semplice applicazione fisica”.
Non mi preoccupai molto del fatto che questa frase potesse suonare strana alle loro orecchie. In fondo quanto avevo affermato era assolutamente vero.