I cieli di Marisol
di Aldo Reina e Cesarina Bo
“Marisol!”
La vorace voce di Luis rimbombò per tutto il capannone. La ragazza nel sentirsi chiamata con tale impeto dapprima sussultò, poi abbassò il capo sulla macchina per cucire e testardamente continuò nel suo lavoro di rifinitura di un paio di jeans, che la compagna di lavoro aveva posato in una grossa cesta, di fianco alla sua postazione.
Luis la chiamò ancora, avvicinandosi a passi rabbiosi. Era il capetto della maquiladora e non poteva sopportare che Marisol, una semplice lavorante, facesse finta di non sentirlo.
Le arrivò alle spalle e le tirò i lunghi capelli neri raccolti in una coda, e questa volta la ragazza non poté ignorarlo. L’uomo le si mise di fianco, a gambe aperte e con le mani sui fianchi.
“Ieri sera ti avevo detto che sarei andato alla cantina. Mi aspettavo di vederti…” le disse con un tono offeso.
“Ero stanca, Luis” mentì Marisol, mentre istintivamente arcuò il braccio a protezione del viso.
“Non ci credo. Secondo me vuoi solo fare la furba” la incalzò Luis, ponendosi ritto a pochi centimetri dal corpo della ragazza, come a volerla esasperare con la sua mole.
Di fronte al suo silenzio aggiunse:
“Stasera ti vengo a prendere nel tuo alloggio, fatti trovare pronta e mettiti il vestitino rosa a fiori, che ci sono alcuni miei amici importanti che ti vogliono conoscere. E sappi che la cosa non finisce qua…”
Accompagnò le ultime parole con una smorfia maliziosa, poi si allontanò senza nemmeno darle il tempo di rispondere.
Marisol sorrise dentro di sé: la cosa, invece, sarebbe finita lì.
Tutto era pronto. Aveva risparmiato un piccolo gruzzolo sufficiente a pagare gli uomini giusti che l’avrebbero portata in America, proprio quella notte.
Pregò la Madre de Dios di proteggerla. Quegli uomini non avevano nascosto il pericolo, ma con l’aiuto della suerte – ci fosse stata almeno una nuvola a coprire la luna!- ce l’avrebbe fatta.
Continuò a lavorare meccanicamente con i pensieri che le graffiavano il cuore. “Vigliacco, non gli basta avere il mio corpo per le sue schifezze, adesso lo vuole svendere anche ai suoi amici. Vigliacco!” sussurrò, mentre una lacrima selvaggia le scivolava sul viso. Con un perentorio gesto delle dita asciugò nervosamente l’attimo di debolezza e con determinazione s’impose che ora, più che mai, era disposta a tutto pur di sottrarsi a quelle bestie: doveva riuscire a fuggire.
L’America! Gliene aveva parlato Ben, un ragazzo conosciuto pochi mesi prima nel suo villaggio. Era arrivato con un grosso camion per una consegna alla maquiladora, poi, per via di un guasto al motore, si era fermato per un paio di giorni.
Avevano fatto amicizia e lei si era persa in quegli occhi chiarissimi, mentre stava ad ascoltare incantata la descrizione di un posto che le sembrava irreale. Un posto dove non si era sfruttati, dove si guadagnava abbastanza per vivere con dignità, dove le ragazze andavano a ballare tutte le sere.
La luna è piena, stanotte, alta e orgogliosa della propria luce riflessa. Splende nel cielo, mentre io cado, supina, fulminata da un artiglio di fuoco che mi azzanna il seno. Mi sembra di sentire la voce del nonno cantare ancora la dolce nenia con cui invocava le nuvole portatrici di pioggia e di vita, e mi sento libera di correre nelle distese dei desideri. Vedo la notte cambiarsi nell’alba. Come la mano di una madre che conduce il proprio bambino il vento spinge le nuvole verso una destinazione ignota; i nembi più recalcitranti e più deboli sfumano in dissolvenza verso il regno dei vortici bianchi. Viaggio sopra una nuvola cucita di allucinazione, che mi veste di bambagia e soffice pelle di cielo. Ho stupore disegnato sulle labbra e con il cuore aperto al sorriso accetto felice i refoli di sogno come carezze ardite. Il mio respiro si mischia al vento e intona fonemi cristallini di follia, mentre corro a perdifiato verso la libertà, verso l’amore.