Colpevole o non colpevole? Vuole sapere come mi sento, signor giudice? Non posso prima spiegare? No? Non ora, signor giudice? Allora se proprio devo rispondere alla sua domanda mi dichiaro felicemente colpevole per aver commesso il fatto.
Sì, signor giudice, ora le espongo la mia versione dei fatti accaduti il 12 novembre scorso, così capirà.
Sono rientrato a casa, dopo una terribile giornata di lavoro: me la ricordo perfettamente, come fosse oggi. Sa, signor giudice, trattare con i clienti è snervante: bisogna essere sempre gentili e sorridenti, servizievoli e allegri, anche quando ti fanno le domande più assurde ed è evidentissimo che, in ogni caso, non intendono comprare un bel nulla.
Il capo, poi, ti sta sempre dietro con il fiato sul collo. Ogni vendita mancata la considera come un insuccesso personale. Non basta perdere la commissione di vendita: no, non basta! Glielo assicuro io che da vent’anni faccio il commesso! Il suo sguardo ti fa pure sentire doppiamente cretino, anzi, cretino al quadrato. Secondo me uno diventa capo solo se ha quello sguardo.
Poi, come se non bastasse, finita la giornata, c’è da affrontare il traffico caotico, le file interminabili d’auto, i fari accecanti, i clacson che ti ricordano le urla del capo, i nevrotici che ti insultano perché rispetti i limiti di velocità… Insomma una delle solite giornate.
Sì, signor giudice, vengo immediatamente ai fatti, e mi scusi se ho divagato, ma era per farle capire come stanno le cose. Come le stavo dicendo, sono rientrato a casa, veramente stanco, e mia moglie mi ha accolto con un sorriso.
Sì, sì: ha capito bene. Mia moglie sorride sempre. Ha un modo tutto suo di sorridere. E’ un misto tra un sorriso ironico, di compassione e di superiorità. Non mi parla quasi mai: si limita a sorridermi. Qualunque domanda le faccio la risposta è sempre accompagnata da quel sorriso. Quasi quasi preferisco le acide parole a quel sorrisetto.
Sì, signor giudice, ho capito: non devo lasciarmi andare a considerazioni personali, ma solo ai fatti.
Allora, dove ero rimasto? Ah, sì! Sono entrato in casa e l’ho salutata e lei mi ha sorriso. Sorriso a suo modo, mi capisce? Ho aggiunto: “Oggi ho passato una giornata infernale”. Sa cosa mi ha risposto? “Povero piccolo”, sempre con il suo solito sorriso beffardo. Piccolo a me? Lei vede, signor giudice, che sono grande e grosso come un armadio? Era ironica, come al solito.
Non aveva preparato cena, ma non è questo il punto. Il punto è che continuava a sorridermi, senza, per altro, smettere di ripassare lo smalto sulle sue lunghissime unghie e senza staccare gli occhi dalla telenovela che stava seguendo in tv. Mi sono messo subito al lavoro. Ho iniziato a lavare le stoviglie sporche della sera precedente. Forse ero un po’ nervoso, riconosco, perché nel lavarle ho rotto un piatto. “Fai piano, amore” mi ha detto sorridendomi.
A quel punto, signor giudice, proprio non ci ho più visto. Sapevo che nel cassetto della credenza c’era una corda elastica di quella che si usano per fissare i pacchi. L’ho presa e mi sono avvicinato a lei che, nel frattempo, si era sdraiata sul divano e le ho legato i polsi. Mica se l’aspettava!
Doveva vederla, signor giudice, com’era bella! In quel momento non mi sorrideva più. Non so da quanto tempo non mi guardava con quella espressione così seria. Rifarei quel gesto altre mille volte pur di rivedere quello sguardo sperduto. Deve sapere signor giudice che è proprio di quello sguardo che mi ero innamorato. In quel momento mi sono sentito felice, anzi molto più che felice.
Sì, procedo immediatamente, signor giudice. Mi scusi di nuovo: è che stavo ripensando a quel bellissimo momento e ogni volta che ci penso mi sento così bene!
Certo, signor giudice, che non sono pentito: perché uno deve pentirsi se sta bene?
Comunque, torno ai fatti, come vuole lei.
Ecco, vede, io avevo lasciato lo strofinaccio sul tavolo: l’ho preso e glielo ho infilato in bocca. Qui è sorto un problema: per quanto spingessi mica riuscivo a farlo entrare completamente, e poi avevo persino paura di soffocarla. Così ho dovuto strapparlo a metà perché fosse della misura giusta. Poi ho estratto dalla tasca quel pennarello nero, indelebile, il reperto come lo chiama lei. Sono quei pennarelli che costano un occhio della testa.
No, signor giudice: normalmente non tengo nella tasca pennarelli neri indelebili.
Sì, signor giudice: ce l’avevo in tasca già da una settimana. Dice che è premeditazione la mia? Sì, signor giudice, direi proprio di sì.
Con un angolo dello strofinaccio che aveva in bocca le ho asciugato i denti. Sa, nell’istruzione per l’uso si raccomandavano di adoperarlo su superfici ben asciutte. La cosa mi aveva un po’ preoccupato, ma l’idea dello strofinaccio in bocca è stata, a mio parere, geniale. In quel modo assorbivo la saliva e potevo lavorare tranquillamente all’asciutto, come era raccomandato nel modo d’uso. Così le ho dipinto tutti i denti di nero. Davanti, sopra e sotto e, almeno fin dove ho potuto, dietro. Mi interessavano, a dire il vero, solo quelli visibili. Gli altri avevano poca importanza per me. Poi ho aspettato che il colore asciugasse, prima di togliere lo strofinaccio. Mi sono alzato e sono andato al ristorante per festeggiare, lasciandola là, sul divano e con le mani legate.
Non ho altro da aggiungere, signor giudice, se non che, in quel momento, ero veramente soddisfatto di me stesso: con i denti così conciati non mi avrebbe più sorriso. Almeno per un po’.
Davvero posso scegliere, signor giudice? Solo perché sono stato collaborativo? Lei è proprio un’ottima persona, se lo lasci dire. Allora: tra la condanna a sei mesi di reclusione o, in alternativa, a pagare le spese dentistiche che mia moglie dovrà sostenere non ho il minimo dubbio… Preferisco il carcere.