Mi chiamo Jarold.
Lavoro al mattatoio comunale.
Non è un gran lavoro, ma è pur sempre un lavoro e poi, ormai, ho fatto l’abitudine. Quasi l’abitudine, intendo dire: l’odore di carne fresca macellata ancora non lo sopporto.
Il mio posto è presso la catena addetta al taglio dei quarti posteriori dei maiali. Nel mattatoio in cui lavoro si ammazzano la bellezza di cinque maiali al minuto e non ci si può certo distrarre durante il turno né, tanto meno, scambiare due parole con il vicino di posto. Portiamo le cuffie alle orecchie per via del rumore assordante dei macchinari e una mascherina che ci ricopre il naso e la bocca, obbligatoria –così ci hanno detto- per una questione d’igiene. Indosso un camice di plastica, perennemente macchiato di sangue, e stivali di gomma ai piedi perché, più volte durante la giornata, gli addetti alle pulizie passano a lavare il pavimento buttando acqua direttamente da un grosso tubo di gomma verde.
L’unica cosa del mio lavoro che non reggo è, appunto, il tanfo insopportabile. Ci tengo a non portare quell’odore addosso. Così mi faccio la doccia sia al mattatoio sia a casa, appena rientro: mi sfrego talmente tanto che la pelle mi viene rossa. Poi mi cambio e indosso jeans puliti e profumati di bucato. Prima di infilarmeli mi piace annusarli. In realtà continuo a sentire l’odore di carne macellata: quell’odore, ormai, è dentro al mio naso, ma mi sono fatto una specie di scala d’intensità e, fino ad un certo livello, lo considero sopportabile.
Vivo solo.
Non sempre, però.
In questi giorni – saranno una decina, ormai - c’è una mosca che, nonostante sia pieno inverno, vive nella mia cucina. Sembra una cosa stupida, ma io ci sono affezionato e, proprio per questo, non ho più aperto la finestra e sto anche molto attento nell’aprire la porta di casa per impedire che se ne vada. Talvolta si posa sulla mia testa quando me ne sto immobile seduto sul divano oppure si ferma sulla tovaglia e mi fissa mentre ceno. Ieri sera si è spinta fino sul bordo del piatto. Certo: avrei potuto ucciderla in più occasioni con uno stupidissimo colpo di giornale oppure con una spruzzata d’insetticida. Ma per quale motivo avrei dovuto farlo? Non mi dà fastidio, anzi mi tiene compagnia.
Qualche volta esco.
Come stasera che sono andato al cinema, anche se avrei fatto meglio a starmene a casa.
Ho pensato che non mi avrebbe fatto male uscire un po’ di casa, dopo aver lavorato tutto il giorno. Così mi sono infilato il giubbotto di pelle, ho spento la luce ed ho aperto la porta giusto lo stretto necessario per sgattaiolare fuori. Questo per via della mosca.
Fuori faceva freddo e piovigginava: per un attimo sono stato tentato di rientrare, ma, poi, ho rialzato il bavero del giubbotto, incassato il più possibile la testa tra le spalle e infilato con decisione le mani nelle tasche dei jeans, tenendo i pugni ben serrati. Mi sono messo a camminare sullo stretto marciapiede rasentando i muri delle case: gli occhi fissi a terra per evitare spiacevoli sorprese. In quella strada si danno convegno tutti i cani dell’isolato con al guinzaglio i loro padroni.
Ho, così, camminato di buon passo per una decina di minuti fino a quando ho intravisto, in lontananza, le insegne luminose del cinema dove ero diretto. Non sapevo che film c’era in programmazione e, a dire il vero, non mi interessava neppure: il tempo di un film, di un qualsiasi film, è sufficiente per star fuori casa un paio d’ore.
Per strada non ho incontrato nessuno, né uomini né cani. Unici segni di vita: i suoni provenienti dalle televisioni accese che ho sentito passando davanti alle finestre delle case e le deboli luci che filtravano attraverso le tendine o le imposte accostate.
Mancava ormai pochissimo all’ingresso del cinema quando mi è successo uno spiacevolissimo incidente, frutto di una serie d’incredibili coincidenze. Per evitare un escremento mi ero spostato sul bordo del marciapiede e, proprio in quel punto, si era formata sulla strada una profonda pozzanghera d’acqua e fango. Nel preciso istante in cui stavo sul bordo del marciapiede è passata, velocissima, una vecchia Ford verde scuro: ha sollevato una grande quantità d’acqua e fango che, ovviamente, mi ha colpito in pieno.
Sono rimasto senza fiato, fermo e inebetito. Ho fissato le luci posteriori dell’auto fino a quando non sono scomparse definitivamente e sono riuscito a leggere la targa: LOVE 555 JX.
“LOVE 555 JX: solo uno stronzo può avere una targa simile”, ho pensato. Ho pure pensato che era un gran figlio di puttana.
I miei jeans erano completamente fradici e il freddo rendeva ancor più fastidioso il contatto tra la pelle e la stoffa bagnata. Ho cercato di ripulirmi con una mano, ma non è servito a nulla, se non ad aumentare la sensazione di freddo e umido. Ho ripreso a camminare, in maniera un po’ rigida, cercando di evitare che la stoffa si appiccicasse alle gambe e maledicendo il momento in cui avevo deciso di uscire e, soprattutto, il guidatore di quell’auto.
Seduto al buio nell’ultima fila delle poltroncine della platea ho deciso che non sarei mai più tornato in quel cinema. La ragazza alla biglietteria, tanto per cominciare, non ha risposto al mio saluto, ma liquidato con “platea o galleria?” detto con tono annoiato. Quello che mi ha controllato il biglietto, dopo avermi squadrato dalla testa ai piedi, nel restituirmi il biglietto –sono pronto a giurarlo- ha fatto mezzo passo indietro, come per allontanarsi. Ad un certo punto, mentre seguivo il film, mi è scappato a voce alta: “Maledetto…LOVE555JX” tanto che quelli seduti nella fila davanti si sono voltati a guardarmi, come fossi un matto. Così ho deciso di uscire e di tornarmene a casa.
Io sono buono.
Insomma, io sono di solito buono, ma quando uscendo dal cinema ho visto parcheggiata una vecchia Ford verde scuro targata LOVE 555 JX non ho resistito alla tentazione.
Ho estratto dal giubbotto l’affilatissimo coltello che uso al mattatoio per i quarti posteriori dei maiali e, quasi senza sforzo, l’ho infilato in una gomma, poi in un’altra, poi in un’altra ancora e, infine, nell’ultima. Sono rimasto soddisfatto a guardare l’auto afflosciarsi lentamente.
Io sono buono, però: non riesco far male neppure ad una mosca.