«Un signore lievemente incline ad allucinazioni, fantasie paranoiche, stati crepuscolari: insomma, uno che aveva una idea del mondo estremamente realistica.»
Giorgio Manganelli, “Sessantasei”, in Centuria, 1979.
Più a Ovest di qui, non c’è niente. Forse, proprio niente no: c’è il mare, la penisola iberica, o isole, e poi altro mare e altri continenti. Fa caldo, anche di sera, un caldo che – dice il telegiornale – come questo non s’è mai visto da ottant’anni in qua. Era vivo Monet, ottant’anni fa. Decide che, al primo posto che non si chiami Bar Sport, si fermerà.
Su una curva, in mezzo alle avances di un procace canneto che sta entrando nell’oscurità, c’è la piazzola di un locale. Il posto gli piace, sembra piccolo e, forse, ha una terrazza che dà sul mare. Parcheggia fra una grossa fuoristrada rivestita di adesivi da tutto il mondo e una lucida coupè blu scuro. Alza i finestrini senza lasciare spiragli e scende, urtando dolcemente la portiera contro l’auto vicina; per conquistarsi questa libertà, ha rinunciato da sempre a riparare i graffi sulla carrozzeria.
Da fuori, il posto sembra piccolo e senza ambizione, ma, dentro, è come l’appartamento del diavolo in Bulgakov[1]. Un ragazzo molto educato gli dice buonasera e gli chiede in quanti sono. Lui risponde che sono in uno e quello dice che dentro c’è posto subito, mentre, se vuole stare sulla terrazza, deve attendere qualche minuto. Intanto, però, può accomodarsi al bar. Lui risponde che vuole la terrazza e aspetterà nell’ingresso. Il locale è pieno e i camerieri svolazzano come pipistrelli ossequiosi, finché qualcuno gli dice che si è liberato un tavolino che è la fine del mondo. Lui sorride e viene accompagnato ad uno dei tavoli più esterni, che dà, proprio come aveva sperato, sul mare. Nota che solo i tavoli vicini alla balaustra sono da due persone, mentre quelli nella parte centrale della terrazza, e quelli all’interno, sono più grandi.
Sul tavolo, c’è già la lista dei cocktail; lui la apre, ma solo per esaminare le scelte grafiche dei gestori e scoprire buffi errori di ortografia, o traduzioni ridicole. Dopo due minuti contabili, arriva un cameriere distinto, raffinato, quasi grave, gli dà il benvenuto e gli chiede se ha già scelto qualcosa. Lui, continuando a frequentare il menù, chiede un Southern Confort con ghiaccio e limone, alza la testa, fa il gesto di spremere un limone e dice: «Molto limone».
Si guarda intorno: soprattutto coppie e gruppi di giovani fra i venti e i trenta, in profondo atteggiamento di siamo in vacanza e, stanotte, apriremo il mondo in due, pur di divertirci. C’è anche qualcuno sui quaranta o forse più, con abiti casual molto costosi e possenti macchine fotografiche e perfino videocamere. Inspiegabilmente, gli pare che alcuni di questi ultimi lo guardino con una certa invidia. Torna il cameriere, con un bel vassoio cromato, che sembra d’argento, e lo poggia sul tavolo. È un bel bicchierone, alto e di pianta quadrata, e i cubetti di ghiaccio sembrano iceberg. Su un piattino, l’anticipazione di un desiderio: altre due fettine di limone. Il venerabile si china e, come fosse un dono, gli porge lo scontrino.
Lui legge il totale due volte, poi fissa il cameriere e gli chiede se è sicuro che quello sia il suo conto. Quello non dice altro, se non: «Un Southern Confort, signore.» Lui osserva che per quella cifra potrebbe comprare un partecipazione di minoranza nella società produttrice del liquore. Il cameriere alza l’angolo destro della bocca, facendo cenno di aver capito la battuta, ma aggiunge: «Lei sa dove siamo, vero, signore?»
Lui recita comune, regione e stato, ma l’altro sussurra: «Certo signore, ma questo è il bar dove finisce il mondo e lei è anche seduto su uno dei posti migliori, da questo punto di vista.»
«Sì, ma non pretenderà che, adesso, sia pure per un bell’ambiente e il bel nome del locale…»
«Non è il bel nome, signore, qui c’è proprio la fine del mondo» e fa un cenno con la testa al di là della balaustra.
Lui si volta e vede – pur avendo tanto cercato il mare, non si era accorto che il mare non c’era – uno smisurato buio alla sua sinistra.
«Proprio la fine del mondo», ripete, con grande educazione, il vecchio.
«Ma scherza?», risponde lui, «ci sarà un po’ di nebbia…».
«Qui non c’è mai stata nebbia, signore: questa ringhiera è proprio il confine. E poi, guardi lassù» e fa segno, con gli occhi, verso un punto un più in alto, sopra il grande vuoto nero.
Lui guarda in alto e vede una luna stantìa che, vicina alla piena, naviga con imbarazzo, sospesa su quella incalcolabile oscurità. Ragiona: se ci fosse la nebbia, non si vedrebbe la luna, quindi la nebbia non c’è. Non essendoci la nebbia, dovrebbe vedersi il riflesso della luna sul mare. Ma il riflesso non si vede.
Prende il portafogli e paga il conto, perché non ha voglia di discutere; il cameriere, appagato, va in cassa a farsi dare il resto. Il cocktail è buono, forse è il più buono che gli abbiano mai preparato. Nel momento in cui poggia il bicchiere sul tavolo, guarda di nuovo al di là della ringhiera in ferro e cerca di concentrarsi sui rumori, isola il vociare dei clienti ai tavoli e il calpestìo del personale in livrea. No, non sente il rumore di onde che si infrangono sulla spiaggia o sugli scogli. I soli suoni che ode provengono dalla sala; al di là della ringhiera, non si vede, né si sente nulla. Allontana di qualche centimetro la sua sedia dalla balaustra e dà un altro sorso al liquore.
Nella sala, due ragazze, che stanno cercando un tavolo libero, gli passano accanto. Lui si alza e offre serenamente due posti. Una delle due pare gradire l’offerta, ma non la prospettiva e dice che, grazie, stanno aspettando altre due persone. Lui augura buona serata e gli conviene pensare che sia vero, oppure che sia una di quelle sere in cui due donne vogliono stare da sole; nel sedersi, urta il piattino del limone con il gomito, il piatto scivola sul tavolo e finisce al di là della ringhiera. Lui tenta di seguirne il percorso discendente nel buio, ma il piatto sparisce dopo nemmeno un paio di metri. Allora, cerca di udire qualche suono che possa confermare il tuffo in mare, o sugli scogli – un piatto che si frantuma sugli scogli si sente bene – ma nulla. Quando si volta, si accorge che l’intera sala aveva seguito la vicenda del piattino e ora tutti lo guardano, mentre alcuni gridolini isterici si stanno levando dai tavoli.
Il cameriere è tornato: poggia sul tavolo il vassoio con il resto e fa per andarsene, ma lui rimette le labbra sul bicchiere e adesso sente che al cocktail manca ancora qualcosa, così lo ferma e domanda: «Dell’altro limone, per cortesia.»
Vincenzo Sarcinelli
[1] Ne Il maestro e Margherita, il demonio abita in un condominio popolare di periferia, ma l’interno del suo appartamento è lussuoso e incredibilmente ampio.