Professor Demitri, la sua classe la sta aspettando.»
A rammentarlo, con tono di voce basso e rispettoso, fu l’anziano bidello, una sorta di istituzione –come, d’altra parte, lo era pure il professore Demetrio Demitri- del prestigioso e quasi centenario Liceo Classico “Dante Alighieri”. Giuseppe era entrato nella silenziosa e severa sala insegnanti preannunciato dagli scricchiolii del vecchio pavimento in legno. Nessun rumore poteva entrare in quel luogo –tranne quello del traffico che proveniva dalla strada e che penetrava (assieme a poderosi spifferi d’aria e, talvolta, a rigagnoli di pioggia) attraverso gli infissi delle vecchie finestre– e solo il rumore del traffico impediva di credere, a chi fosse capitato lì per caso, d’essere finito, per uno strano effetto temporale, in un’altra epoca.
Il professore Demetrio Demitri sollevò lentamente il capo dal libro che stava leggendo impiegando alcuni istanti a riemergere dal suo mondo e riprendere contatto con la realtà. Si sistemò gli occhiali, che durante la lettura erano progressivamente scivolati sulla punta del naso, e si alzò in piedi come se l’atto gli costasse uno sforzo non indifferente.
«Sì, Giuseppe, vado» disse con la sua bella voce profonda «e grazie: quando studio, lo sa, mi dimentico di tutto.»
«Lo so, professore, non si preoccupi: ci penso io a ricordarglielo.»
C’era un sorta di amicizia affettuosa tra i due, anche se non era mai stata dichiarata apertamente; erano rimasti solo loro, della vecchia guardia: ancora qualche mese, poi entrambi sarebbero andati in pensione. Con i nuovi arrivati non avevano legato: troppo diversi per età, per modo di concepire il lavoro e loro invece entrambi troppo stanchi per iniziare nuove relazioni.
Il professor Demitri chiuse con delicatezza il libro facendo scorrere, come in una carezza, le dita magre e nervose lungo i bordi, quasi a consolarlo e a consolarsi del momentaneo distacco, quindi prese il registro e si avviò verso l’aula della quarta ginnasio, sezione A. Nel percorrere il lungo corridoio dalle alte volte e dalle ampie finestre che davano sul cortile interno riandò con il pensiero a quando, appena ragazzo e con indosso ancora pantaloni corti al ginocchio, aveva varcato la soglia di quella scuola, intimorito e curioso. Ricordò la sua voglia, e quella di tutti i suoi compagni, di imparare. Ora, rifletté, era tutto cambiato: gli allievi erano perennemente annoiati, sul loro volto si leggeva in modo inequivocabile la richiesta di non essere disturbati e, soprattutto, di non essere oggetto di chissà quali pretese. Il fatto, poi, che questi provenissero da famiglie facoltose ed agiate li portava a considerare tutto come dovuto e, al limite, acquistabile. Tale atteggiamento non era proprio tollerato dal professor Demetrio Demitri che, sovente, si ritrovava a parlare da solo, a voce alta, lamentandosi della situazione scolastica in generale, e di quella classe in particolare. «Farabutti, ecco cosa sono: farabutti presuntuosi!» Oppure: «Sono ignoranti e sono fieri di esserlo!» Quando gli capitava di sbottare in questo modo, subito se ne pentiva. Persona mite, nella sua lunga carriera scolastica non aveva mai alzato la voce verso nessuno, allievo o collega che fosse. D’altra parte la sua severa espressione e l’indiscussa serietà avevano reso superfluo ricorrere a certi mezzi, quali urlare o, tanto peggio, battere pugni sulla cattedra. Quando sentiva giungere dalle aule adiacenti le voci alterate dei colleghi si limitava a scuotere tristemente il capo, poi riprendeva la lezione.
Nel momento in cui entrò in aula l’intera classe si zittì, i ragazzi si sistemarono rapidamente ai loro posti e cellulari e lettori di compact disc sparirono in fretta dentro gli zaini.
«La forma» pensò, «ecco, loro si nascondono dietro ad un comportamento solo formalmente corretto.» Poi mentalmente aggiunse: «Ipocriti.»
Si sedette alla cattedra e scommise con se stesso che entro dieci secondi Petris, il rappresentante degli studenti, avrebbe detto la solita frase. Così, senza neppure alzare gli occhi dal registro che stava compilando, disse: «Che cosa vuole, Petris?»
«Professore, a nome dell’intera classe, le devo dire che gli esercizi non ci sono venuti perché non abbiamo ben capito la spiegazione.»
Demetrio Demitri sorrise amaramente per la scommessa vinta.
«Che cosa, in particolare, vi risulta ostico?»
«Tutto, professore.»
«Signori, non sia mai detto che rifiuti spiegazioni o chiarimenti richiesti, per di più, da un’intera classe. Mi permetto, però, di fare presente che questa sarà la diciassettesima volta che ritorno sull’argomento.»
Consultò rapidamente il registro, poi riprese:
«Sì, signori: proprio la diciassettesima volta. Ho già tenuto quattro lezioni e ho ripetuto la spiegazione del procedimento almeno quattro volte per lezione, tante volte quanti sono stati gli esempi fatti.»
Nel dire questo guardò in faccia i ragazzi: ventisei paia di occhi sostennero il suo sguardo con indifferenza e con un’espressione di assoluta non colpevolezza. Li fissò: gli sarebbe bastato che almeno uno, uno solo, avesse mostrato un po’ di vergogna o gli avesse detto che c’era solo un punto poco chiaro, ma, simili a pokeristi incalliti, non un minimo cedimento balenò nei loro occhi. Gli sembrarono, allora, dei piccoli mostri, esseri senza anima, asserviti al dio del consumismo: mostri compatti, silenziosi, invincibili.
Mai come in quel momento gli parve di aver sprecato le sue ore inutilmente e di aver predicato nel deserto. Si sentì solo e sconfitto e, per un attimo, i suoi occhi si riempirono di lacrime.
«Signorina Filippi, venga alla lavagna che facciamo la correzione del compito.»
Il professore dettò il testo e iniziò con voce chiara a dare le indicazioni per lo svolgimento. Sottolineava i passaggi e suggeriva le procedure da seguire. «Per la diciassettesima volta» pensò. La signorina Filippi eseguiva passivamente, sovente sbagliando.
«Richiamo la vostra attenzione su questo punto: quando l’equazione è nella sua forma canonica occorre porre il coefficiente dell’incognita diverso da zero.»
La signorina Filippi sgranò i suoi occhioni, poi, tutta compunta, si rivolse al professore:
«Mi scusi, ma dove lo pongo?»
Il professore Demetrio Demitri impallidì. Già durante lo svolgimento dell’intero esercizio aveva mostrato segni di nervosismo camminando pensosamente su e giù per l’aula, emettendo una serie di sospiri incontrollati e, più volte, togliendosi e rimettendosi gli occhiali. Segni inequivocabili di un certo malessere in una persona dal comportamento sempre misurato.
«Che cosa ha detto, scusi?» Non voleva credere alle proprie orecchie.
«Le ho chiesto dove lo devo porre, professore.»
Il professor Demitri rimase per un istante fermo, meditando e accarezzandosi con fare pensoso il pizzo. Poi una strana luce brillò nei suoi occhi.
«Già: dove lo si può porre?»
Con un’agilità insospettabile per i suoi sessantacinque anni fece un balzo verso la prima fila di banchi, raccolse uno zaino e lo capovolse facendo cadere a terra tutto il contenuto: «Lo si può porre qui dentro: che ne dice signorina Filippi?»
La ragazza rimase a bocca aperta e con il gessetto in mano, a mezz’aria.
«No, qui dentro non mi convince. Mi faccia pensare. Forse in tasca a quel giaccone rosso?» E, nel dire questo era letteralmente corso verso l’attaccapanni prendendo in mano la giacca in questione.
«No! Non è per nulla una bella idea!» Buttò a terra la giacca, guardandosi attorno. Urtando i banchi si diresse verso la finestra.
«Forse lo si può porre qui» esclamò iniziando a smuovere con le mani il terriccio del vaso di felci appoggiato sul davanzale della finestra.
«Cosa ne dite, signori?» I ragazzi lo guardavano ammutoliti e spaventati.
«No, qui non lo si può porre perché si sporcherebbe» e, rabbiosamente, scaraventò il vaso a terra.
Nel frattempo un ragazzo era uscito dall’aula per cercare un bidello, un professore, qualcuno che potesse intervenire.
«Ho trovato! Lo possiamo mettere sotto la cattedra. Lei concorda, signorina Filippi?»
Completamente esterrefatta, la Filippi si limitò ad annuire.
In quel momento entrò Giuseppe. Vide il professore Demetrio Demitri rannicchiato sotto la cattedra, gli si avvicinò e si inginocchiò accanto.
«Professore, che succede?»
«La signorina e io cercavamo un posto dove porre il coefficiente dell’incognita. Secondo lei, Giuseppe, qua sotto ci starebbe bene?»
«Sì, professore, ma ora si alzi.»
«Mi toglie un peso, Giuseppe. Ero molto preoccupato. Lei mi capisce, vero?»
«Sì, certo, professore, ma ora si tranquillizzi.» Nel dire questo prese ad accarezzare dolcemente il capo chino del professore «La prego, però: smetta di piangere.»
Racconto tratto da “Attrazioni e distrazioni” di Cesarina Bo pubblicato da ExCogita, 2004