Nel giugno 2025, l’incontro tra Donald Trump e Volodymyr Zelensky alla Casa Bianca ha destato grande clamore non solo per i contenuti politici, ma anche per la forma. Secondo numerosi osservatori, la scena non ha avuto nulla della diplomazia tradizionale: è apparsa piuttosto come una strategia di dominio, pianificata per umiliare pubblicamente la controparte e riaffermare la supremazia americana secondo una logica binaria di vittoria e sconfitta.
Questa modalità operativa non è nuova. La sua matrice culturale può essere rintracciata nel pensiero di Reinhard Höhn, ufficiale delle SS e teorico del management tedesco del dopoguerra. Dopo la Seconda guerra mondiale, Höhn divenne un architetto della formazione manageriale tedesca, fondando un istituto che formò oltre mezzo milione di dirigenti. Secondo lo storico Johann Chapoutot, il suo modello proponeva una leadership gerarchica e impersonale, in cui i funzionari erano liberi solo di obbedire. Un sistema che mascherava l’autoritarismo dietro l’efficienza e il concetto di “responsabilità funzionale”.
Donald Trump, da parte sua, ha fatto dello stile autoritario e del bullismo negoziale un marchio di fabbrica, come descritto nel suo libro The Art of the Deal. Lì, Trump delinea una filosofia fondata sulla contrattazione distributiva, una visione win-lose in cui il successo dell’uno implica necessariamente la sconfitta dell’altro. Una logica efficace nelle trattative immobiliari, ma inadeguata e dannosa nella diplomazia internazionale.
Nel recente incontro con Zelensky, questa visione è emersa in cinque tappe sistematiche: screditare la controparte, dominare la scena, distorcere la narrativa, umiliare pubblicamente e infine imporre condizioni non negoziabili. Un vero e proprio “manuale” di asimmetria negoziale, dove la libertà dell’interlocutore si riduce a quella di obbedire e ringraziare.
Il parallelo tra il pensiero manageriale di Höhn e lo stile trumpiano suggerisce un pericoloso ritorno alla centralità del potere come imposizione, più che come costruzione condivisa. In un mondo interdipendente, questo approccio rischia di compromettere relazioni strategiche e stabilità internazionale.
In definitiva, ciò che emerge non è leadership, ma dominio travestito da decisionismo: un modello che privilegia la forza sulla cooperazione e l’obbedienza sulla sovranità.