Cleopatra

“Cleopatra va in prigione“ di Claudia Durastanti

di Claudio Guerrieri

Una ex ballerina e spogliarellista  visita il suo fidanzato nel carcere di Rebibbia di Roma, ripercorre la sua vita nel mettersi in nuova situazione affettiva pur restando fedele ad un certo rapporto con lui.  Un romanzo al femminile che vuole dare corpo a paure ed attese, descrivere situazioni limite e d entrare nella piaga di un certo strato sociale. Un racconto che si snoda nei quartieri di Roma, ma è una Roma asettica, universalizzata da una attesa di recupero che non trova la forza di tradursi in speranza e che trova in molte altre città situazioni simili. La scrittura nella sua immediatezza da testimonianza delle situazioni e nel giocare con feed-back e ricordi ricompone la coscienza del vissuto della protagonista ma non riesce a dare spessore ai suoi sentimenti. Tutto si svolge con un ritmo che fa pensare ad un perdurante dejavù in cui la protagonista si muove e che da voce al suo non potersi riscattare in alcun modo dai sentimenti contraddittori che vive. Ne risulta un abbandono allo scorrere degli eventi che sconcerta e sembra far concludere il racconto lì dove è iniziato. La necessità e l’illusione di poter cambiare si infrangono in un passivo andar avanti che non diviene un andar oltre. 

8 Novembre 2017

“Cleopatra va in prigione“ di Claudia Durastanti

di Adriana D'Avella

“Ogni donna ha due grandi amori ed è troppo stupida per non morirne”: è così per le protagoniste delle telenovelas, è stato così per Cleopatra, regina d’Egitto, non può essere così per Caterina, perché sopravvivere per lei non è una scelta, ma una necessità. 

Il lettore segue il filo delle vicende dell’arresto di Aurelio, il fidanzato di Caterina, accusato di sfruttamento della prostituzione quando gestiva un night in cui Caterina stessa, fino all’incidente dell’anca, si esibiva come spogliarellista; della relazione di Caterina con l’innominato poliziotto, che era a capo dell’indagine sul locale; della rinascita lenta e stanca di Aurelio, che porta sulla pelle e sui muscoli i segni di Rebibbia e il suo odore di muffa.

A voci alternate, quella del narratore esterno e della protagonista stessa, si entra nel mondo romano e periferico di Caterina, nella sua quotidiana esplorazione e ricerca di una realizzazione che non arriva, in una giovinezza fatta di sogni di impresa e di intraprendenza che finisce troppo presto. Momenti del passato e del presente si mischiano senza mai sovrapporsi o confondersi. 

Sullo sfondo, dolente protagonista, Roma polverosa, con le sue tangenziali e le strade a gomitolo, i palazzoni, le decadenti giostre e i parcheggi malamente illuminati, le officine, l’erba alta lungo il Tevere, gli insetti delle estati roventi, popolata di persone “normali” che silenziosamente lavorano e cercano lavori: Caterina passa dalla danza classica alla lap dance, trovandoci gusto, dal lavoro di spogliarellista a quello di truccatrice, da quello di receptionist a donna delle pulizie.

Non ci sono scuole, università, musei, non c’è la luce dei parchi o la goliardia delle osterie, ma c’è un’umanità sincera, capace di sentimenti delicati e intensi, come la tenerezza di Caterina verso Aurelio, il suo fidanzato non più muscoloso, ora indifeso, perché “quando sei stata così tanto tempo con qualcuno, i suoi fallimenti sono una corteccia che ti cresce addosso e le sue colpe diventano tue”; la sincerità del poliziotto, incapace di mentire sui propri sentimenti, incapace forse anche di definirli, perché “è la persona che ti salva a volerti dare qualcosa per sempre  […] che non riesce ad andare avanti”; la meccanica gestualità dei secondini, mai brutali né abbrutiti; le movenze aggraziate delle spogliarelliste, i loro corpi tonici e le unghie perfette. 

Non c’è squallore, non c’è degrado, alla reception di quell’alberghetto restano l’andatura da ballerina, dei progetti ormai passati e un futuro che non arriva mai.