Cinema

Recensioni dei film in concorso alla «Festa del Cinema» di Roma 2017

"Porcupine Lake"

Martina Tecce, III H


Regista: Ingrid Veninger

Genere: drammatico

Ambientazione: Ontario, Canada

Durata: 84 minuti

Attori principaliCharlotte Salisbury (Bea)

                               Lucinda Armstrong Hall (Kate)

                               Christopher Bolton (papà di Bea)

                               Delphine Roussel (mamma di Bea)

                               Harrison Tanner (Romeo, fratello maggiore di Kate)

Trama: Durante una caldissima estate in una piccola città in Ontario, la tredicenne Bea desidera più di ogni altra cosa trovare una migliore amica, ma quando incontra la turbolenta Kate, si imbatte in molto più di quanto potesse immaginare. Quest'ultima, infatti, ha un carattere forte proprio a causa della situazione familiare che è costretta a vivere ogni giorno. Con un padre assente da sempre, una madre alcolizzata, una sorella maggiore già diventata madre, un fratello più grande che, a causa di un incidente subito anni prima, ha dei grossi problemi di autocontrollo e un fratello minore troppo esuberante, nessuno ha tempo da dedicare alla piccola Kate che ha, di conseguenza, piena libertà delle sue azioni.

Le due ragazze trascorrono insieme la maggior parte delle giornate, vivendo, in un mondo riservato esclusivamente a loro, le avventure che due ragazze della loro età possono affrontare in completa autonomia.  Nonostante le mille difficoltà, il dissenso dei genitori, l'assenza di regole e alcuni piccoli incidenti di percorso, le due riusciranno a rimanere unite fino alla fine. 

Commento: Il film è stato girato in maniera chiara, naturale, concisa e lineare. Ogni giornata è rappresentata allo stesso modo: la protagonista Bea si lava i denti di mattina, viene inquadrato il tramonto di sera.

I dialoghi sono semplici, le due protagoniste utilizzano, infatti, il lessico tipico degli adolescenti. Non appena si incontrano e capiscono che tra loro due può instaurarsi un'amicizia lunga e duratura, fanno un giuramento: "Never squeal" ("mai fare la spia"), che racchiude in se molti più significati di quanto si possa pensare. E' la promessa di non tradirsi mai, di fare sempre affidamento sull'altra, di condividere ogni istante a disposizione.

Il personaggio di Kate è spavaldo, risultando a volte volgare ma, allo stesso tempo, estremamente reale, soprattutto considerando la realtà sociale in cui la ragazza è nata e cresciuta.

La recitazione è efficace, la produzione cinematografica è efficiente e la cornice è bella.

Sono molto utilizzate dalla regista scene corte e semplici per raccontare un retroscena molto più grande. 

Per esempio, all'inizio del film, subito dopo che Bea e sua madre sono arrivate nel paese, il marito prende quest'ultima per mano e camminano fino ad arrivare alla camera da letto, dove si sdraiano e si guardano. I loro occhi mostrano esaurimento, piacere e vulnerabilità, la scena stabilisce esattamente chi sono questi personaggi e quali sono i rapporti tra la coppia: amore, ma molto stanco. Infatti la coppia ha dovuto affrontare diverse situazioni ardue e ormai la forza per continuare questo viaggio insieme è andata esaurendosi. La madre di Bea, abituata al caos della città, non sentendosi a suo agio nella città in cui trascorrono l'estate, cerca disperatamente di convincere il marito a vendere il bar che aveva ricevuto in eredità, per tornare a vivere tutti e tre insieme a Toronto. Il padre di Bea, però, non prende nemmeno in considerazione la proposta della moglie, in quanto gli affetti che lo legano al piccolo paese e, più in particolare, al bar che gestisce, sono da lui considerati troppo importanti per essere dimenticati da un giorno all'altro. L'amore che lega i due sta cominciando a svanire, ma mai del tutto.

In conclusione, secondo il mio parere personale, i temi di cui la regista voleva parlare sono stati affrontati in modo efficace. L'amicizia è, senza dubbio, l'argomento principale che accompagna l'intero film, ma sono presenti anche questioni minori, altrettanto importanti. Come l'amore tra gli adulti, gli affetti familiari, il concetto di "casa" e quello di "famiglia", il confronto tra due mondi completamente diversi (quello di Bea comparato con quello di Kate), l'importanza di avere un animale domestico, il bisogno degli adolescenti di andare alla ricerca di nuove avventure. 

ADDIO FOTTUTI MUSI VERDI, di Francesco Capaldo (Italia, 2017) 

recensione di Emanuela Iole Carlucci

Perché Ciro Priello con una laurea in scienze della comunicazione, con due master e tre specializzazioni, a trent’anni è ancora mantenuto dalla madre? Cosa lo costringe a lavorare  in una misera friggitoria? Questa è la vita del protagonista napoletano di Addio fottuti musi verdi, che rispecchia anche la realtà dei suoi amici e purtroppo quella di molti giovani disoccupati italiani... Finché non verrà catapultato, a sua insaputa, in una nuova dimensione: quella Aliena. Infatti gli si presenta l’occasione della vita: lavorare non in un altro paese  o continente, bensì nella nave spaziale ACX983. Dove tutto è ben organizzato e gestito in modo perfetto, il talento di Ciro è necessario e indispensabile per l’agenzia aliena. Finalmente dopo anni d’attesa, la sua creatività non solo viene riconosciuta, ma addirittura retribuita. 

Addio fottuti musi verdi è un susseguirsi di comicità e di geniale demenzialità, che come miele avvolge l’amara  realtà  italiana. Fare della propria passione un lavoro è il messaggio rivolto ai giovanissimi dai The Jackal, subentrati recentemente  nella scena dell’intrattenimento italiano come youtubers. Il loro primo lungometraggio si distingue per la modernità, la nuova comicità ed effetti speciali paragonabili alle grandi produzioni americane. 

Come il protagonista viene catapultato nello spazio, così lo spettatore è partecipe di folli vicende e situazioni surreali. Fresco, ironico e imprevedibile AFMV è infine un omaggio all’amicizia che in Italia ha fatto raggiungere il successo alla squadra The Jackal e che nello spazio sarà l’arma vincente di Ciro.  Purtroppo l’ultima scena, che  preannuncia un possibile sequel, non convince ed è mal riuscita, mentre la coprotagonista risulta priva della naturalezza dei suoi geniali colleghi.  

AND THEN I GO, di Vincent Grashaw (USA, 2017)

recensione di Marianna Putelli

“Quando si verifica un tragico incidente, vengono deposti sul luogo fiori, lettere, candele, poesie…E restano lì per mesi. Ecco, sto pensando solo a questo”. Queste sono le parole che Edwin (ArmanDarbo), il protagoni-sta, si sente dire da Flake (SawyerBarth), il suo migliore amico.

And then I go è un film drammatico ispirato al massacro della Columbine High School: il 20 aprile 1999 negli Stati Uniti, due studenti della Columbine si introdussero nell’edificio armati e aprirono il fuoco su nume-rosi compagni di scuola e insegnanti.

Flake per i genitori è “un figlio senza ambizioni”. Non c’è da meravigliar-si allora se un ragazzo malvisto da tutti, persino dai suoi genitori, arrivi ad odiarsi, e macerando in questo odio e in questa solitudine arrivi a voler fare una cosa simile. Edwin, con le sue fragilità e insicurezze, non può che sostenere le idee, seppur folli, del suo migliore (unico) amico.

Nel cinema, lo spettatore ricopre un ruolo fonda-mentale: il film potrà essere tra i migliori mai fatti, ma se lo spettatore in primis non è disposto a cre-dere a ciò che vede, non sarà mai considerato “un bel film”. Il film deve emozionare chi guarda, ma chi guarda deve essere a sua volta disposto ad emozionarsi. Sono stata una spettatrice disposta a credere e ad emozionarmi. Ammetto che nella prima parte è stato difficile farlo, poiché la narrazione scorre piuttosto faticosamente. Man mano che la vicenda prende corpo si viene però presi dalle emozioni del protagonista in maniera quasi sconvolgente. Vi è una scena in particolare in cui Edwin, in silenzio, passa in mezzo al consueto chiasso e chiacchiericcio degli studenti liceali; ma lo spettatore è talmente preso dal film che quel chiasso gli da fastidio, proprio come infastidisce il protagonista.

La fotografia rispecchia perfettamente il genere del film, con una bassa saturazione e i toni freddi. La sce-neggiatura non poteva che essere curata da JimShepard, autore dell’acclamato romanzo Project X, ispira-to anch’esso ai fatti di Columbine.

Consiglio la visione al pubblico degli adulti, in particolare agli educatori. Fa riflettere su come spesso i disagi vissuti dai ragazzi si trovino molto più in profondità di quel che sembra, ed Edwin ne è la prova: la madre tenta di entrare in con-tatto con lui, ma non abbastanza a fondo da accorgersi della sua depressione, delle sue paure ed insicurezze. Il padre lo schernisce con battute leggere, che però diventano tutt’altro che vissute con leggerezza se come Edwin si è fragili e pieni di complessi. Lo stesso la sua insegnante, che si limita a complimentarsi con lui per i bei disegni che ha fatto, senza accorgersi però che lui si sente troppo insicuro per esserne soddisfatto.

Consigliato anche ai ragazzi con più di 16 anni, affinché vengano sensibilizzati sul tema dell’inclusione del-le minoranze, attuale e di grande rilievo. Sconsigliato ai più piccoli, poiché la tematica viene affrontata in modo diretto, crudo e violento.

Si esce dalla sala quasi storditi, tanto è forte l’impatto di questa pellicola sulle nostre coscienze.

BEYOND THE SUN, di Graciela Rodriguez Gilio, Charlie Mainardi (Italia, 2017)

recensione di Benedetta Lemma

Il messaggio che i creatori di questo film hanno voluto trasmettere è quello di essere consapevoli che la presenza di Gesù è ovun-que, anche se non fisica, ma spirituale.

L'incitamento, che Papa Francesco ha rivolto alla fine della visione, sui motivi per cui bisognerebbe leggere o possedere in vangelo è stato molto chiaro e ferrato: abbi fede e non ti sentirai mai solo! Inoltre ci sono state molte metafore e riferimenti religiosi come: la pecorella smarrita o la moltiplicazione del pane. Proprio per questo si può comprendere che il film si rivolga ai bambini che frequentano il catechismo per la comunione.

L'unica critica che posso volgere al film riguarda la grafica e gli effetti speciali, ma considerando che è stato prodotto come animazione per bambini, non credo che sia di vitale importanza. Quindi a conti fatti posso essere soddisfatta di averlo visto.

CAMORRISTE, serie TV di Paolo Colangeli, Italia

recensione di Chiara Cicchinelli

La serie, diretta da Paolo Colangeli - che ha collaborato con Vania del Borgo anche per la scrittura del programma - e andata in onda nel 2016 con tre episodi, è un vero e proprio documentario che mostra in modo nudo e crudo una realtà che molto spesso viene tralasciata soprattutto dai giovani: le organizzazioni criminali. Nello specifico la serie si concentra su quella campana, la Camorra, e trascina lo spettato-re nella vita di donne che ne sono state protagoniste, donne che si sono pentite o che si sono semplice-mente dissociate e che ora hanno ripreso in mano la propria vita dopo aver scontato le condanne loro attribuite.

Il primo episodio della seconda stagione, presentato in ante-prima ad Alice nella Città, vede come protagonista Patrizia Franzese, una donna a cui è stato tolto il privilegio di essere bambina troppo presto e che non ha mai ricevuto affetto dal-la propria famiglia; non essendo stata riconosciuta come figlia dal padre, Patrizia viene mandata in collegio all’età di due an-ni e riuscirà a rivedere la sua famiglia solo dodici anni dopo ma senza ottenere risultati migliori. La ragazza viene infatti “ceduta” per sanare un debito di famiglia come donna delle pulizie e compagna ad un uomo che la maltratta e abusa di lei. All’età di diciannove anni mette al mondo il suo primo figlio, abbandonando totalmente la sua adole-scenza mai vissuta pienamente per occuparsi della bambina e per ribellarsi coraggiosamente all’uomo, nonostante questo la porti a risvegliarsi la mattina seguente in un letto d’ospedale a causa dell’ennesi-ma violenza subita. 

La situazione cambia quando incontra Aniello Cirella, capo di un clan camorrista e futuro compagno che rivendicherà Patrizia lasciando a terra l’uomo esanime. La donna viene pre-sentata al resto del clan e per guadagnarsi la fiducia di Aniello prende parte ad un omicidio che la renderà protagonista. Camuffata e inge-gnosa ucciderà Raffaello Bianco, esponente del clan Rea. Ben presto riallaccia i rapporti anche con il fratello Carmine, tossicodipendente che verrà aiutato da Aniello; il suo lavoro all’interno del clan cambia quando rimane incinta, diventando supervisore dei giri di droga. Questa nuova vita nella ricchezza viene distrutta dalla morte di Aniello. Il boss infatti, dopo essere stato chiamato da esponenti del clan Belforte, viene tradito proprio da questi ultimi durante un tentato omicidio al clan rivale Picco-lo. Il comando del clan Cirella a questo punto viene affidato a suo padre Modestino, che però non sarà ingegnoso come il figlio e infatti rimarrà senza l’aiuto di Patrizia. Dopo un grave inconveniente che causa la morte di tre giovani innocenti scambiati per membri del clan Rea, Modestino assieme al suo clan per-dono totalmente credibilità. Carmine decide allora di farsi arrestare per iniziare a collaborare con le for-ze dell’ordine e presto verrà affiancato dalla sorella che prenderà la sua stessa decisione per salvargli la vita. Oggi la donna ha ricominciato a vivere dopo aver scontato la propria condanna, vedendosi di nuovo madre dei propri figli con cui ha riallacciato i rapporti.

È una serie indubbiamente interessante e costruttiva di testimonianze dirette di ex camorriste, forze dell’ordine, giornalisti e ministri affiancate alla riproduzione di fatti accaduti, scelta che chiarisce le cono-scenze – a volte scarse – dello spettatore in modo chiaro e diretto

CAPITAN MUTANDA, di David Soren (Animazione, USA 2017)

recensione di Francesco Ramon Franco

Un divertente e bizzarro supereroe in mutande, creato da due giovani au-tori di fumetti, travolge le loro vite con situazioni divertenti e li salva dalle tremende e noiose ore della giornata.

George e Harold trascorrono le ore di scuola in risate, sempre alla ricerca di scherzi da poter fare al preside Grugno antipatico e irascibile uomo che è allergico al divertimento. Nel tentativo di spezzare la monotona giornata di scuola, i due bambini decidono di fare l'ennesimo scherzo al preside, la conseguenza sarà lo smistamento in due classi separate. Per fermare la decisione del direttore scolastico, i due bambini lo ipnotizzano per errore, trasformandolo nello stesso Capitan Mutanda, il personaggio fantastico nato dai loro fumetti. Non ci vorrà molto perché i due bambini si rendano conto che il gioco è bello quando dura poco.

Capitan Mutanda è un film del 2017 diretto dal regista David Soren e pro-dotto dalla DreamWorks Animation. Il personaggio di Capitan Mutanda è la trasposizione del libro per bambini dello scrittore statunitense DavPilkey che ha venduto oltre 70 milioni di libri in tutto il mondo.

Nonostante la popolarità, i libri di Capitan Mutanda sono sempre stati piuttosto discussi, e soprattutto accusati dai genitori di usare un linguaggio inappropriato per il pubblico di riferimento, i bambini delle elementari.

Il film tende ad una commedia frivola e adatta a tutta la famiglia, spesso parodistica ma leggera rispetto al libro. L'uso dell'animazione tridimensionale in Cgi è uno degli aspetti che arricchiscono il film e che lo rendono una novità rispetto al libro.