La traviata

regia di Sofia Coppola

recensione di Marta Pacifici

Quando si parla di teatro musicale, non si può non parlare di Giuseppe Verdi (1813-1901), per il quale l’opera è stata il centro del suo lavoro di artista. Di origini modeste, studiò grazie all’aiuto di un ricco commerciante. Tra le opere più importanti, ricordiamo “Nabucco”, che fu un trionfo e il cui coro divenne il simbolo del Risorgimento italiano; ancora, “Macbeth”, “Aida”, “Un ballo in maschera”, “Don Carlos” e, tra le ultime, “Otello” e “Falstaff”. Al periodo della piena maturità appartengano i lavori “Rigoletto”, “Trovatore” e “La traviata”. Quest’ultima fu un’opera decisamente “nuova” all’epoca, soprattutto perché la storia tratta un dramma “borghese” e non “popolare” e, tra l’altro, la vicenda della protagonista non è eroica ma racconta i problemi della vita di tutti i giorni. Alla sua “prima”, nel 1853 al Teatro La Fenice, fu fischiata perché troppo audace (Violetta è infatti una donna di liberi costumi), per poi diventare una tra le opere più rappresentate. La produzione che qui vede Pietro Rizzo in qualità di direttore e Sofia Coppola alla regia, va in scena al Teatro dell’Opera di Roma il 24 febbraio 2018, la prima di sei serate. 

L’allestimento è indubbiamente tradizionale, ricco di elementi scenici e ben curato: da notare soprattutto la scenografia del Primo Atto, con le bellissime e grandi vetrate sullo sfondo, o la scalinata bianca che introduce la protagonista. Giochi di luci e ombre (a cura di Vinicio Cheli) invadono la scena durante tutta la rappresentazione, con risultati straordinari all’arrivo degli invitati all’inizio del Primo Atto (in cui si passa improvvisamente dal buio a una luce festosa) e alla fine del Terzo (punto su cui tornerò più avanti). I costumi di Valentino Garavani sono in tema, non eccessivi ma eleganti; più ricercati quelli femminili.

Discreto il Coro ma non eccellente, Orchestra buona ma non entusiasmante, bravo il Direttore, Corpo di Ballo (sebbene abbia avuto una parte minima all’interno dello spettacolo) eccezionale come al solito.

Sembra che anche le voci degli interpreti, contemporaneamente alla vicenda, abbiano subìto un’evoluzione nel corso dello spettacolo; probabilmente perché all’inizio non erano ancora “calde”, e forse anche perché il crescendo di tensione drammatica creato da Verdi favorisce la piena espressione della qualità vocale dei cantanti. Tant’è che il famoso duetto “felice eterea” (cantato da Alfredo e Violetta) e l’aria “sempre libera”, entrambi nel primo Atto, sono stati poco coinvolgenti, mentre l’”addio del passato” nel Terzo è stato molto più vivo e partecipato. Tuttavia in questa produzione non si trova una voce davvero emozionante, sebbene Maria Grazia Schiavo (Violetta) possieda una tecnica e un virtuosismo tali da sorprendere (efficacissima nei pianissimo) nonostante il timbro anonimo. Precisa dunque, come del resto Antonio Poli (Alfredo), la cui voce purtroppo manca però di volume. Più sentito il ruolo di Giorgio Germont, interpretato da Stefano Antonucci, che si è dimostrato adatto alla parte. Timbro scuro ma sordo e con pochi armonici quello di Anna Malavasi (Flora), una degna Annina (ruolo assunto da Rafaela Albuquerque) e passabili il Barone, il Marchese, il dottore e Gastone (rispettivamente Andrii Ganchuk, Domenico Colaianni, Graziano Dallavalle e Domenico Pellicola).

Troppo spento e quasi noioso il famosissimo duetto con Coro del Primo Atto, “libiam ne’ lieti calici”, mentre nel Secondo Atto riuscito e a tratti commovente il duetto di Violetta e G. Germont, per non parlare del bellissimo “Amami Alfredo”: l’angoscia e il delirio di Violetta, che la portano a pronunciare la nota frase, sono rese splendidamente; ma il vertice lirico e drammatico è raggiunto solo nel Terzo Atto, in cui possiamo percepire il sentimento di disperazione e di tormento della protagonista. Qui l’allestimento è di sicuro il più riuscito dei tre Atti, ed esprime un realismo quasi magico e coinvolgente, cosicché ci sentiamo davvero partecipi della sorte di Violetta. Perciò trovo doveroso soffermarmi sul Finale, che la regia e le luci hanno esaltato incredibilmente: prima di morire, Violetta sembra esalare l’anima e staccarsi dal suo corpo terreno; le altre figure si bloccano e il tempo si ferma, dalla finestra arriva una luce bianchissima e quasi divina, ed è significativo che in quel momento Violetta si sente rinascere, che passino “gli spasimi del dolore”: e proprio al culmine della felicità e della speranza, rappresentato da un liberatorio acuto sulla sillaba “gio” di “gioia”, ella cade a terra morente, e la luce si spegne.