Fuorigioco (The Pass)

Recensioni di Giorgia Paglialunga 5B 

Gaia Storani 3A

Andrea Muratore 5G

Fuorigioco (The Pass)

Di John Donnelly

Regia di Maurizio Mario Pepe

Con Eduardo Purgatori, Miguel Diaz, Gianluca Macrì e Giorgia Salari

 di Andrea Muratore 5G

Agli albori del ‘900 Antonin Artaud ebbe a scrivere, in occasione di una rappresentazione del sogno strindberghiano, che “il senso della realtà vera del teatro” era “smarrito”. Non era una vaticinazione, né una profezia vagheggiante, ma un’ardua sentenza con la quale tutti gli operatori culturali addentro il mondo del Teatro avrebbero dovuto fare i conti, da quel momento in poi. Non possiamo ipotizzare quale fosse il bersaglio privilegiato del famoso drammaturgo e teorico teatrale, ma le colpe, se vogliamo, andrebbero spartite tra più soggetti. Nel 2019 forse non siamo nemmeno più in grado di fare i conti con una simile affermazione, ma quello che accade oggi, allorché si varca la soglia di un qualsiasi teatro, è assolutamente inspiegabile, soprattutto per dei giovani neofiti quali purtroppo siamo. 

I lunghi drappi color vermiglio del teatro si dischiudono e attoniti assistiamo ad uno strano effetto percettivo: la linea di demarcazione della quarta parete, che da un punto di vista meramente scenografico non viene “sfondata”, è come se crollasse a causa del forte impatto degli attori con il pubblico. Lo spettacolo esordisce infatti in medias res, e fin dalle primissime battute ci troviamo al cospetto due attori che impettiti e gagliardi si divertono a schiamazzare, fare esercizi fisici e trastullarsi a vicenda con giochi canzonatori. È l’inizio di un dramma che si concluderà esattamente come era cominciato: sotto la doccia. Un talentuoso calciatore ripercorre i passi più importanti della sua carriera, ma man mano che prosegue nella sua affabulatoria narrazione ci rendiamo conto che il mosaico che sta intagliando è incompleto, manca qualcosa; i dubbi e le perplessità ci sommergono quando glissa volutamente sulle domande che gli vengono poste dal suo compagno di squadra e da una corteggiatrice – preferisce non rispondere, si rinserra in un silenzio e in un isolamento che sono assolutamente eloquenti. Ma quella che indossa il protagonista cosa è? Bisogna capirlo: una maschera pirandelliana, una inclinazione all’estetismo dannunziana, o c’è di più? 

Lo spettacolo non sembra rivelarci risposte esaurienti, e allora tocca a noi dipanare il groviglio di incomprensioni che spesso ci trasciniamo dalle sale teatrali: il beneficio del dubbio. Ora, per chi non lo conoscesse, il mondo mediatico del calcio – ma il calcio stesso – è un ambiente che molto spesso tende a rivelarsi cinico e disinteressato, benché composto da persone umane: il risultato fagocita l’individualità, chi fallisce resta indietro, e l’ansia da prestazione talvolta supera la prestazione stessa, risolvendosi in un abbattimento scoraggiante. Una darwiniana selezione naturale del più forte, che esclude senza scrupoli. Il protagonista del nostro spettacolo sembra aver vinto tale lotta fratricida, poiché è riuscito ad arrivare laddove altri non sono giunti, ma fatalmente si ritrova sconfitto in un mondo che offre la percezione di vincere sempre, costantemente, mentre invece si è spesso vinti e raramente vincitori. È il mondo pervasivo dei media, nei cui confronti gli studiosi si dividono tra profezie catastrofiche e segnali di speranza per un futuro che potrà beneficiare (dove? come?) di una socializzazione sempre crescente. La realtà appare invece sostanzialmente diversa: ciò che dà l’impressione di supportare, di coprire spazi vuoti e di avvicinare, tragicamente non fa che isolare e dissolvere. 

Un’ultima nota di merito per il regista, che dimostra, con la coincidenza della prima e l’ultima scena (entrambe sotto la doccia, in perfetta solitudine), di aver capito perfettamente l’essenza del calcio nel mondo moderno: si va sotto la doccia, lontano dalle telecamere e dai grandi schermi, e si scopre che non siamo quello che appariamo ogni giorno, ma tutt’altro: qualcosa di indefinibile perché continuamente scacciato dalla presenza-assenza dei media. E così, frammezzata da una serie quasi interminabile di eventi turbolenti e vertiginosi, si chiude la scena, con un calciatore che, al netto del suo gigantesco successo e della sua ingombrante fama, si ritroverà sempre, appunto, “fuori-gioco”, fuori dai giochi, il che è lo stesso. 

Cosa sei disposto a perdere? 

di Giorgia Paglialunga

Il sipario si apre. Il pubblico è catapultato nel 2006, in una camera d’albergo. In scena due ragazzi: uno di schiena, nudo, che si fa la doccia dietro una vetrata sul fondale che divide lo spazio; l’altro che in biancheria salta la corda. Sono due giovani atleti, giocatori di calcio, non ancora titolari. Quella che stanno vivendo è la serata che segnerà per sempre il loro futuro: il giorno dopo affronteranno il loro debutto in Champions League e solo uno di loro potrà portare avanti la sua carriera. Il loro atteggiamento, il loro modo di scherzare, non sembra quello di qualcuno sottopressione, sono pur sempre due ragazzi poco più che diciottenni… Trascorrono la loro serata tra scherzi infantili e battute , talvolta di una bassezza insolita per un ambiente teatrale, ma che sicuramente rispecchiano in modo realistico il loro mondo.  Tra risate e confidenze, si crea un’atmosfera particolare. I registri cambiano e dagli scherzi si passa ad un abbraccio che li segnerà per sempre nel profondo. Ed ecco che viene svelato uno dei temi tabù del mondo del calcio: l’omosessualità. Dal secondo atto in poi diventa protagonista Cristian, dei due è lui quello che ce l’ha fatta a raggiungere la vetta del successo. Ma il successo non è cosa da poco: è disposto a sacrificare la sua stessa libertà e privacy pur di mantenere la fama? Riuscirà a non far scoprire il suo segreto? 

Numerosi sono i temi affrontati in questo testo, The pass di John Donnelly: l’omofobia, il successo e la conseguente perdita di sé, la solitudine e, non meno importante, il potere che i social media esercitano sulla vita di un personaggio pubblico. Lo spettatore è catapultato all’interno di questo mondo senza mezze misure, senza però entrarci mai veramente dentro. È come se il pubblico avvertisse un senso di distanza, dovuto in gran parte a momenti di noia suscitati da numerose ripetizioni , battute che sembrano quasi casuali. Lo spettacolo ha una durata, compreso l’intervallo, di due ore e un quarto, un tempo piuttosto lungo per un testo che avrebbe potuto esaurirsi, ed essere altrettanto esaustivo, in un ora e trenta minuti, evitando molti scambi di battute superflui. Battute talvolta indecenti che indubbiamente facevano un calco veritiero della realtà rappresentata sul palco, ma quanto è davvero lecito portare in un teatro? Quando si vuole rappresentare in tutto e per tutto la realtà su un palco, il margine tra l’interesse e l’imbarazzo dello spettatore è sottile: il teatro non è il cinema, il pubblico, nonostante la “quarta parete”, è direttamente a contatto con l’attore. Ruolo fondamentale in questo ha giocato la regia di Maurizio Mario Pepe, che avrebbe potuto rendere lo spettacolo più godibile specialmente nel primo atto. 

Nonostante ciò la vicenda si svolge in modo coerente durante tutto il corso dello spettacolo e i personaggi risultano molto ben caratterizzati. In particolare è da lodare l’interpretazione attoriale: spiccano tra i quattro attori Emanuele Purgatori, interprete di Cristian, e Giorgia Salari, nel ruolo di una spogliarellista in declino.  

Un dramma tutto sommato interessante che sviluppa tematiche nuove, ma che purtroppo risulta carente in alcuni punti. Nel complesso potrebbe risvegliare l’interesse dei più giovani per il teatro, sperando che non si fermino solo a questo spettacolo.

The pass

di Gaia Storani 3A 

Ambizioso, sfrontato, eccentrico. Questi i tre aggettivi che meglio descrivono il protagonista di The pass - Fuorigioco, la pièce insolita ma attraente  di John Connelly in scena dal 31/01 al 17/02/2019 al teatro Eliseo per la regia di Maurizio Mario Pepe.

Intrappolata tra le pareti di tre diverse  camere d'albergo e attraverso tre scene separate  in compagnia di tre persone dalla personalità contrastante, l'azione teatrale ripercorre i dodici anni di vita di un ragazzo,interpretato da Edoardo Purgatori, che cresce  dietro la maschera del calciatore in carriera, osservando il mondo con uno sguardo ostinatamente fiero e sicuro di sé e coltivando con estrema cura l'immagine di un campione invincibile e refrattario all'opinione altrui. Un uomo che ha fatto della vittoria uno stile di vita. Ma proprio in una di quelle stanze di lusso, Cristian nasconde un segreto inconfessabile. Una notte, un compagno di squadra, una complicità pericolosa perché inaspettatamente entusiasmante.  Una notte che lo ha lasciato disorientato, rapito da un sentimento che è esploso silenzioso ma che gli ha fatto tremare il cuore dalla paura: la paura di perdere il controllo e non riconoscersi più nell'immagine riflessa nello specchio. 

Così,  soffocando quel ricordo come un nemico da eliminare, Cristian sceglie di colmare il vuoto che ha dentro tirando un calcio al pallone che lo porterà lontano da quell' “ amico” che per una sera gli ha fatto perdere la testa accarezzandogli il cuore. 

I riflettori però, a un certo punto, non lo illuminano più, ma lo accecano e fanno risplendere dentro di lui soltanto la paura di aver perso l'equilibrio in un mondo che continua a girare veloce lasciandolo in disparte. Le voci iniziano a girare, il suo nome fa da titolo alle copertine di riviste e quotidiani, accompagnato però dalla parola “scandalo”. Nulla possono i tentativi di chiudere gli occhi e  le orecchie: fare finta di niente è impossibile. Così il ricordo della fama ormai lontana lo porta tra le braccia di una donna, interpretata da Giorgia Salari, con la quale trascorre una notte tra confessioni e provocazioni, in bilico tra la voglia di riscattarsi e la consapevolezza di non poter più tornare indietro nel tempo.

La verità è  che Cristian è solo, ma ha due figli e un moglie.  Cristian è fragile, ma non può permettersi di cadere. Cristian è grande, ma si sente piccolo come un bambino di fronte alle emozioni che prova nel rivedere Ade (Miguel Gobbo Diaz), emozioni che non riesce a distinguere, che per un momento lo convincono a farla finita, a togliersi la vita, le stesse che, subito dopo, lo ricoprono di acqua fredda finché le lacrime non soffocano  tutta quella felice disperazione.

Uno spettacolo dove finzione e verità si fondono, separate soltanto dal telo di una doccia, e coinvolgono il pubblico facendolo entrare nelle vite di due ragazzi che crescono tra i colori delle lenzuola che cambiano di anno  in anno e una colonna sonora fresca, ma mai scontata. Gli attori si muovono sul palco con disinvoltura e realismo, scattando la fotografia di un legame forte ma spaventoso, il ritratto di due persone che conoscendosi, si riconoscono. 

Forse proprio per abbattere completamente il muro della finzione, il regista decide di far parlare i protagonisti con un linguaggio che sfocia spesso in espressioni esplicite e a tratti volgari, offrendo lo spaccato di una quotidianità trascorsa negli spogliatoi a bordo campo, apparentemente semplice da interpretare su un palco ma che rivela invece uno sforzo da parte di attori e sceneggiatori di cogliere dettagli di frequente banalizzati in ambito teatrale - cinematografico.

Una sintesi tra pudore, fierezza e razionalità: Cristian non può, non deve e istintivamente non  vuole rompere gli schemi, anzi ci si aggrappa nel campo e li rincorre nella vita.

120 minuti che lasciano lo spettatore con mille dubbi e domande su una storia dipinta su molteplici sfondi, non soltanto quello più evidente dell'omosessualità in ambito calcistico, ma anche quello del successo lavorativo come forma di insuccesso esistenziale, che può addirittura distruggere una famiglia e sfociare nella più profonda depressione. Due ore difficili da digerire, due personalità contraddittorie e un'esperienza apparentemente frivola ma che indubbiamente fa viaggiare lo spettatore in un mondo dove la razionalità sembra aver avuto la meglio sulla natura.