Venivamo tutte per mare

di Julie Otsuka

Recensione di Asia Campolucci (5R)

Aprile 2021

    “Venivamo tutte per mare”

                                                                                                         (The Buddha in the Attic

 Il libro “Venivamo tutte per mare” è un romanzo scritto dall'autrice americana Julie Otsuka e pubblicato per la prima volta nel 2011 negli Stati Uniti e poi nel 2012 in Italia dalla casa editrice Bollati Boringhieri.   Otsuka voleva descrivere a pieno la sorte di donne coraggiose unite da un solo destino; in un’intervista affermò che si era imbattuta in molte storie interessanti durante la sua ricerca e che voleva raccontarle tutte, ed è proprio qui che capì che il protagonista non poteva essere solo uno. 

 Speranza, amore, paura e sofferenza; sono queste le parole fondamentali che accomunano le protagoniste di questa storia: le donne o, per meglio dire, “le spose in fotografia”. 

Il libro narra del viaggio delle giovani donne giapponesi che nel Novecento emigrano negli Stati Uniti in cerca di una vita migliore, andando in spose a uomini del tutto sconosciuti, visti solo in fotografia e conosciuti tramite delle lettere piene di bugie. Personalmente definirei questo viaggio come un viaggio di “abbandono” e di piena fiducia: donne che lasciano la propria terra natale, in questo caso il Giappone, i loro affetti più cari e la loro famiglia, solo fidandosi di parole buttate al vento e false promesse… scelta molto rischiosa. 

Ma qual era l’unico modo per salvarsi e vivere una vita migliore? 

La risposta è molto semplice... diventare delle migranti. Delle donne sofferenti. Strumenti di lavoro. Un divertimento. Una macchina impeccabile. Una moglie fedele. Una madre presente. 

Per il resto della vita sarebbero state "noi" solo l'una per l'altra: con l’inizio della Seconda Guerra Mondiale furono isolate e allontanate dai mariti, dai figli, dall’America, con lo scopo di far dimenticare alla popolazione dei “bianchi” la sola esistenza dei giapponesi. 

L’autrice è stata in grado di raccontare la storia di un popolo che teme il pericolo di ricordarsi delle proprie origini e di  ricordare agli altri la propria diversità. Otsuka scrive questo racconto in prima persona plurale sollevando molte domande a cui non riesce a rispondere: in questo modo il lettore riesce a identificarsi col narratore o, direttamente, col protagonista che, in questo romanzo, non è solo uno ma un intero gruppo di donne senza più un’anima.

Alla fine del libro vengono raccontati i primi giorni, i primi mesi di ostilità e sospetto che, durante la Seconda Guerra Mondiale, i giapponesi americani hanno provato e vissuto; ciò che traspare nei capitoli è la loro costante paura, le loro mille perplessità: cosa ci succederà? i nostri mariti verranno catturati? e se il nostro nome è scritto sulla lista? e i nostri raccolti? e le nostre case?  

La scrittrice, nel corso del racconto, focalizza la sua attenzione su un altro punto di vista, ovvero quello degli americani dopo la deportazione dei giapponesi nei campi  di detenzione. 

Vi è una frase in particolare che mi ha molto colpito: “perché i giapponesi sono scomparsi, tutto qui; ti preoccupi per loro, preghi per loro, ma poi la vita continua”. 

Ciò fa comprendere l’importanza che essi assunsero negli Stati Uniti  la maggior parte della popolazione - prima dell’inizio della  guerra - si fidava di loro: andavano a mangiare nei loro ristoranti, portavano loro la biancheria da lavare, ma tutto questo d’un tratto cambiò: i giapponesi erano diventati i loro più grandi nemici. 

Consiglio vivamente questo libro perché non racconta solamente un avvenimento storico ma narra proprio come quelle donne, le cosiddette “spose in fotografia”, hanno perso la loro naturale identità nell’esatto momento in cui sono state costrette a lasciare la terra natale per vivere nel continente americano. È molto interessante scoprire come si sentono le persone, i migranti, i nemici, la popolazione durante una guerra mondiale come questa; di solito nei libri di storia vengono analizzati i fatti più devastanti che accadono in una situazione del genere, non ci si concentra mai sull’aspetto interiore dell’essere umano, sul suo stato mentale, su cosa pensano e cosa provano.