16 Ottobre 1943

di Giacomo Debenedetti

Un testo breve del ‘44 di grande valore letterario e testimoniale                   

di Federica Bernardi III B

 In “16 ottobre 1943”, il primo dei due testi in cui è articolato lo scritto, Debenedetti riesce a catturare abilmente, come un fotoreporter di guerra, gli ultimi istanti di terrore e drammaticità delle vite di persone comuni, doppiamente “colpevoli” di essere ebrei ed italiani, attraverso vaghe e frammentarie testimonianze di quella memorabile retata avvenuta nel ghetto ebraico di Roma il 16 ottobre del 1943.

 Il lettore contemporaneo è portato a comprendere e ad assorbire la tragicità dei fatti narrati, immergendosi nelle vicissitudini, nei timori e nelle vane speranze dei protagonisti, il tutto grazie all’abilità stilistica dell’autore, che riesce a riportarne gli aspetti più significativi. 

La sera del venerdì 15 ottobre, sopraggiunse nel ghetto di Roma una donna, poco stimata dalla comunità, che tentò di avvertire gli ebrei romani dell’imminente pericolo, ma essi “Risalirono alle loro case, si rimisero a sedere intorno alla tavola, a cenare, commentando quella storia senza sugo”. Qualche ora dopo l’inferno scese sulle vie del ghetto romano e accolse tra le sue braccia migliaia di vite. “Contrariamente all’opinione diffusa - scrive Debenedetti– gli ebrei non sono diffidenti. Per meglio dire: sono diffidenti al modo che sono astuti nelle cose piccole, ma creduli e disastrosamente ingenui in quelle grandi”, infatti, chi visse le persecuzioni naziste, ricorda bene la paura che scaturiva da queste, ma anche un roseo ottimismo che la realtà fosse più mite e più ragionevole dell’immaginazione. 

 

In “Otto ebrei”, il secondo testo, Benedetti tenta di offrire al lettore uno scorcio psicologico oltre che narrativo riguardo la figura di un commissario di Pubblica Sicurezza che davanti all’Alta Corte di Giustizia, per dimostrare  il proprio disappunto sulla politica antisemita del regime nazista, dichiara di aver cancellato dieci nomi, due a caso e otto  di ebrei, dalla lista di coloro che sarebbero stati destinati alle Fosse Ardeatine, dunque otto ebrei gli dovevano la vita. 

Il commissario probabilmente sperava che questa sua decisone fosse interpretata dai giudici come un atto di incredibile eroismo e di somma umanità, ma questa fu considerata ugualmente un’azione razzista, poiché si erano discriminati gli ebrei  in quanto tali, quando invece, essi non volevano alcun trattamento speciale. Purtroppo non sapremo mai se il commissario agì spinto da un reale pentimento per ciò a cui aveva preso parte, oppure fu semplicemente una mossa strategica che un giorno l’avrebbe salvato da un tribunale di giustizia. 

 

2 gennaio 2018