Riscritture di testi classici

Esercizi di scrittura creativa a partire dalle suggestioni nate dalla lettura un testo classico

Cinque racconti ispirati dalle tragedie di Sofocle. e costruiti a partire dal punto di vista di uno dei personaggi della tragedia.

Emone 

(da Sofocle, Antigone)

Valentina Di Stefano    IVB

Crudeli verdetti, empie decisioni e sconsiderati progetti mi hanno spinto a tal punto da dover considerare mia unica salvezza la sua eterna vicinanza.

Le nostre vite sono nate avvelenate, la nostra esistenza è proseguita turbolenta, finirà ingiusta. Le colpe dei nostri avi gravano sulle nostre spalle, pesano sui nostri fragili destini. Il ghenos ci tramanda errori da espiare, peccati da scontare con pene troppo atroci e supplizi altrettanto ingenti. L’unico rifugio da tali responsabilità: la morte.

Io, Emone, figlio del forte tiranno di Tebe, Creonte, e  futuro sposo della giovane e bella Antigone, sono pronto ad accompagnarla nel talamo  della morte, già eterna dimora di molti suoi congiunti. Persefone ci accoglierà nell’Ade profondo, accudendo le nostre anime degne d’amore, ci garantirà perpetuo riposo tra le sue braccia che ormai da tempo ospitano anche Edipo e Giocasta, genitori della mia amata, Eteocle e Polinice, i fratelli “ vittime d’un solo fato in un giorno solo, feritori ad un tempo e colpiti”.

Da religiosa purità raccolse un’impura condanna, Antigone che desiderosa di porre un’onorevole fine alla seppur tragica e avventata terza sciagura della sua famiglia, non ritenne follia varcare i limiti terreni imposti dal re, suo zio, mio padre. Essa, inizialmente cercando una vana complicità nella sorella Ismene, scelse convinta di concedere legittima sepoltura a Polinice, sangue del suo sangue, il cui corpo lasciato privo di onoranze funebri, sarebbe divenuto presto ”riserva per i rapaci dallo sguardo fiso sulla gioia del pasto lacerato”.

Le membra illagrimate e senza vita di Polinice rappresentavano tuttavia per il re l’equa vendetta nei confronti di un uomo nemico della propria patria, volontario artefice della schiavitù dei propri cittadini e avido goloso di un sangue che era anche il suo.

Fu dunque il padre mio a condannare Antigone che disprezzando le leggi aggiunse il vanto all’azione compiuta perché a sue parole “ non è vergogna la venerazione di un fratello del sangue e della carne”. Egli la costrinse a “ esser straniera alle case dei morti e a quelle dei mortali, né tra i vivi esser più, né tra gli estinti”, la fece condurre difatti in una rocciosa fossa deserta, con una quantità di cibo sufficiente solamente al tempo necessario alla sua espiazione.

E gemette lei povera per la sua stirpe e per le rovine ad essa legate, per l’incestuosa unione dei propri genitori, per la maledizione lanciata dal padre in punto di morte, per il fratello Polinice, che “viva, già morto” la uccise.

La magnanimità della mia bella eroina sarà ripagata con il buio eterno; gioca l’autore con “ ironia tragica ”, si diverte creando aspettative nei lettori, poi deluse, frustrate, è Sofocle a ricamare la vicenda attraverso finte speranze, incapaci di condurre noi personaggi alla libertà.

Provai io a distogliere il duro Creonte dalla malvagità dei suoi piani, non raggiunsi tuttavia con le mie suppliche, buon esito. Gli consigliai di piegarsi ai forti flussi dei torrenti come fanno gli arbusti, di assecondare la violenza inaudita dei venti come è solito fare un buon marinaio nel moderare la tensione delle vele della barca. È necessario assumere un atteggiamento di umiltà nei confronti di una realtà turbolenta. “I cittadini piangono nella vergine che muore”.

Difendendo la sua forte autorità Creonte offenderà i diritti e le volontà divine. Sarà l’indovino Tiresia a profetizzarlo.

Le leggi della polis non trionfano come nelle Eumenidi eschilee, saranno invece la causa scatenante dell’arroganza reale, la fonte del dolore, il pretesto per la fine. 

Reagirà mio padre quando ormai sarà troppo tardi; gli dei avranno già progettato la loro nemesis. La mia morte è vicina e tu mio caro re sei il carnefice di tale amaro destino. Esso condurrà all’ uccisione di mia madre, Euridice, e alla tua follia.

Creonte, padre mio, non hai ben considerato la profonda forza empatica che lega me alla mia futura donna, non hai previsto la veemenza del tuo eccessivo rigore; colpevole il tuo egoismo, rea  la tua impassibilità, vittima la tua famiglia, martire il tuo nome.

Eracle

da Sofocle, Trachinie

di Andrea Martini  IVB

Così si conclude la mia vita, sconfitto dal dono funesto della moglie che si fidò delle ingannevoli parole del centauro Nesso, che uccisi per difenderla. La tunica intrisa del velenoso sangue del centauro mi corrode e mi dilania costringendomi a una sofferenza da cui non ho rimedio. Io, che sconfissi la terribile belva di Nemea, liberai Lerna dall’orribile idra, uccisi il biforme esercito di centauri e il cinghiale di Erimanto e domai Cerbero guardiano dell’Ade; ora abbandono il regno terreno senza aver fornito prova del mio valore con una morte eccelsa ed eroica. A me, che scampai le ire di Giunone, sposa di Zeus e che affrontai le eroiche imprese volute dall’odioso Euristeo, Zeus dona una morte sciocca e ingannevole, che non ripaga l’alta reputazione del mio eroismo. Ormai, morto per un nonnulla, non posso che abbandonare l’amata Iole a mio figlio, completando l’opera che fu cominciata per la travolgente passione d’amore che mi colse alla vista della ragazza. La giovanile bellezza della figlia di Eurito, sovrano di Ecalia mi spinse a muover guerra e a radere al suolo una città solo per il puro desiderio amoroso ed ora quella stessa bellezza ha distrutto me e la mia famiglia. Voglio però essere ricordato come un eroe bruciato sulla sacra pira in onore del divino Zeus, che tante sventure mi attribuì nonostante i miei continui onori nei suoi confronti. Infine la vita da eroe, che condussi tra fatiche e dolori, mi ha ripagato con una morte insignificante e vile; ma sento dentro che i grandi sacrifici e ringraziamenti rivolti a Zeus non saranno ripagati solo dalla morte:  un grande destino mi aspetta ora che la mia vita mortale mi abbandona.

Oreste

da Sofocle, Elettra 

di  Francesca Belperio   IVB

Oreste: “Sorge l’alba in questo giorno, glorioso quanto tragico. Aio, Pilade, voi mi accompagnate nel compimento della mia vendetta: so che oggi non sono solo. Ma hai ragione Aio, “tempo è d’opere” e non dobbiamo indugiare. Come mi è stato suggerito dall’oracolo, io, senza armi né esercito, dovrò ristabilire l’ordine nella discendenza di mio padre punendo con la stessa pena coloro che l’hanno ucciso!

Dunque Aio, tu ti recherai alla casa di Clitemnestra ed Egisto e annuncerai la mia morte durante gli agoni pitici. Loro non ti riconosceranno: sei invecchiato. Quanto a me, io mi reciderò una ciocca sulla tomba di mio padre per onorarlo e poi, presa l’urna che avevamo nascosto nel cespuglio, porterò questa a palazzo come prova che il mio corpo è cenere. Come molti eroi creduti morti e poi tornati a casa, spero anch’io di riuscire nella mia impresa e di essere degno di suscitare gloria…ma cosa sento? Non sono forse i lamenti di Elettra? Dici bene Aio… non dobbiamo rimanere: non va compiuta per ora nient’altro che la volontà di Febo Apollo.

L’Aio ha fatto il suo dovere e dalla sua fidata testimonianza è emerso che Clitemnestra non fosse affatto dispiaciuta della mia morte; ora tocca a me. Accompagnato da Pilade e da due dei miei servi, che custodiscono la mia urna, domando indicazioni per la dimora di Egisto e di mia madre e finalmente vi giungo. Mi viene indicata una giovane donna quando chiedo di avere un messaggero, affinché vada ad annunciare ad Egisto che sono morto e che le “mie” ceneri giacciono in quest’urna. Dunque ecco che la giovane inizia a disperarsi, dicendo che preferirebbe essere morta…non ho più dubbi: è lei la mia sfortunata sorella Elettra, colei che, tanto buona quanto misera, mi mise in salvo dalla feroce madre! Essa, trattata da serva, ha sofferto per molti anni e non ha marito, né figli: a lei sono sempre bastati solo la speranza che tornassi e l’odio verso gli assassini del padre. Le ordino di lasciare l’urna e le svelo l’inganno…non riesco a mentirle! Le svelo che: “Tombe di vivi non esistono” e fermo le sue lacrime di gioia ordinandole di fingere davanti alla madre che esse siano di tristezza: Elettra parteciperà al mio inganno. All’improvviso tacciamo entrambi per aver udito l’appropinquarsi di qualcuno alla porta, ma è solo il saggio Aio, che ci intima di tacere e con cui ripasso il piano, per poi presentarlo ad Elettra (che non l’aveva riconosciuto) come l’uomo al quale lei mi aveva affidato per salvarmi.

E’ giunto il momento. Giustizia sta per essere compiuta. Per quanto io abbia ripensato centinaia e centinaia di volte a questo giorno, mi sento smarrito come quando, da piccolo, scoprii delle intenzioni di mia madre nei miei confronti. Eccola che si avvicina, baldanzosa e convinta di aver vinto su di me e su sua figlia: ma si sbaglia. D’improvviso la mia mano smette di tremare e la presa si fa salda; nonostante le suppliche di Clitemnestra non smetto di colpirla fino a che non muore. Allora la copro con un telo ed attendo Egisto. Quando egli giunge e vede il cadavere coperto, è convinto si tratti di me: eccolo che trionfante scosta il velo e la vede! La sua espressione da tracotante si fa impaurita, egli da invincibile appare all’improvviso piccolo e pavido: ma non è ancora giunto il momento di ucciderlo. Voglio vederlo soffrire e piegarsi nello stesso luogo in cui uccise mio padre, solo allora giustizia sarà finalmente fatta.” 

Elettra

da Sofocle, Elettra             

di Francesca Sofia Capozziello IVB

I rossi segni che le mie stesse unghie hanno impresso sul mio petto sono ben meno dolorosi della tristezza e della rabbia che attanagliano il mio animo, incapaci di fuoriuscire da me se non in pianti e gemiti. Il tradimento di cui la donna che io mi vergogno di chiamare madre si è macchiata, ha fatto cadere la nostra famiglia nella sciagura, e mi sembra di essere la sola a disperarsi per questo. Mia sorella Cristotèmide ha smesso da tempo di darsi pena per l'anima del nostro sventurato padre, morto nel suo stesso letto per mano di sua moglie, e anzi mi rimprovera aspramente per la mia stoltezza. Lei è riuscita facilmente a sottomettersi alla tirannia di Egisto, usurpatore del trono paterno, che combatte le proprie battaglie con la mano di una donna: ma io giuro, davanti alle Erinni, che mai il mio animo sarà così debole ed empio. La mia pavida sorella, inoltre, sostiene che l'odio di mia madre ed Egisto verso di me li porterà presto a rinchiudermi nelle segrete della reggia, lontano dai loro sguardi sprezzanti: tanto meglio, poiché allo stesso modo la loro vista è insostenibile ai miei occhi. Ormai, tutte le mie speranze sono riposte nel ritorno di mio fratello Oreste, che io feci fuggire da Micene alla morte di nostro padre. Sono sicura che il mio e il suo odio, una volta riuniti, saranno necessari per portare a compimento la vendetta che bramo. Mia madre Clitemnestra, la cui colpa è talmente presente nel suo animo da farle vivere sonni agitati e sogni minacciosi, mi apostrofa con parole crudeli, inadeguate ad una madre degna di tale nome. Sostiene che la mia sofferenza sia patetica, se non folle, e non vuole ascoltare nessuna delle parole che ho da rivolgerle. Il sacrificio della mia adorata sorella Ifigenia, la cui vita è stata richiesta dagli dei, l'ha portata ad una rabbia tanto folle da indurla ad assassinare mio padre. No, non è stata solo la rabbia a spingerla, bensì il turpe desiderio di Egisto, quell'uomo indegno. Nessuno dei miei gemiti, non un grido, non una preghiera potranno mai farle comprendere la gravità del suo peccato. Ma sarebbe inutile, poiché neanche questo le garantirebbe il mio perdono. Al giungere dello straniero, che riferisce a mia madre la morte di Oreste, il mio intero mondo crolla, mentre lei si bea nel sollievo. Quale madre può gioire della morte del figlio? Chi mai potrebbe provare sollievo per la morte del proprio sangue? Andata via Clitemnestra, giunge Cristotèmide, con il volto deturpato da un sorriso che ai miei occhi sembra una burla. Sostiene di aver visto Oreste di ritorno dal suo esilio, nonostante io conosca bene il triste destino che è capitato al mio povero fratello. Subito il dolore viene sostituito da rabbia cieca e furente: sono rimasta l'unica al mondo a poter fare giustizia per mio padre, dunque io stessa dovrò uccidere la vile Clitemnestra e l'altrettanto empio Egisto. Uno straniero giunge alla reggia, ed io, sola nel vestibolo, sono la sola ad accoglierlo. Mi porge le ceneri di Oreste, ed io non posso che piangerlo ed invocare invano il suo spirito. Lo straniero scruta il mio corpo scosso da gemiti, e mi conforta, dicendomi di lasciare l'urna, poiché non esiste un'urna per chi è vivo. Al di là delle lacrime, riesco a scorgere il volto del mio caro fratello, mia unica speranza e compagno in questa sciagura. Lo stringo tra le braccia, mentre le mie lacrime si tramutano da dolore in gioia. Mai avrei potuto sperare che i Numi mi avrebbero concesso una simile Grazia, per ripagarmi delle sofferenze. Mi intima di frenare la mia gioia, ed insieme discutiamo la vendetta che dobbiamo compiere, poiché il focoso spirito Marte alberga sia negli uomini che nelle donne. Oreste entra nella casa dove nostra madre è intenta a banchettare, incurante della falsa notizia della morte di suo figlio. Nessun sentimento di pietà mi induce a fermare mio fratello, nessun affetto per mia madre fa tremare la mia determinazione. Non scorgo questi sentimenti nemmeno nelle forti spalle di Oreste, attraversate da alcuna esitazione. L'urlo di Clitemnestra mi giunge chiaro e straziante alle orecchie, ma io riesco solo a desiderare che Oreste affondi il coltello ancora, una volta di più, fino a lasciare esangue quella donna indegna. Mio fratello esce dalla casa, con la mano sporca di sangue e la vittoria negli occhi. Mi dice di non temere più la tracotanza di mia madre, poiché lei non è più in vita. Il sollievo che cresce nel mio petto viene fermato dall'arrivo di Egisto che, ignaro, si appresta ad entrare nella reggia. Mi si avvicina, sbeffeggiandomi per la morte di mio fratello. Trattengo la rabbia solo grazie alla consapevolezza della sorte che presto il Fato gli riserverà. Lo sgomento che trapela dal suo volto alla vista del cadavere di Clitemnestra è a me più dolce di quanto potessi immaginare, e prego che Oreste lo metta a tacere al più presto. Mio fratello lo trascina fuori dalla stanza, mentre lui urla in preda al terrore. Rimasta sola con il cadavere di mia madre, chiudo gli occhi, beandomi delle grida che si continuano ad udire in lontananza. Se la Giustizia dovesse avere un suono, senza dubbio sarebbe quello.

Iole

da Sofocle, Trachinie              

di Giorgia Paglialunga  IVB

 

Non parlai neanche una volta. Non potevo. Non volevo… Io, Iole, figlia di re, resa schiava e impotente! Tanto Eracle mi fece pagare il prezzo della mia bellezza. Per me espugnò una città, la mia città, e per avermi con sé mi ridusse in stato di schiavitù. Ma il fato non è gentile con chi compie prepotenza. Ora lui è morto, ucciso dalla sua stessa moglie che voleva solo riattrarlo a sé con un atto d’amore…  Oh, Deianira, quanto soffristi a causa mia, ma mai lo desti a vedere. Mi hai accolto in casa tua ignorando i fatti accaduti e anche quando fosti a conoscenza dell’amore che Eracle provava per me  ti mostrasti magnanima, mai iraconda, mai risentita… Moristi anche tu, avvilita per la perdita di un uomo da cui desideravi soltanto amore ed una serena vecchiaia. Ora sono promessa sposa di Illo, per volere di Eracle. Ma non è per lui che mi presto a tale destino, bensì per te, Deianira, perché la tua morte porti con sé una luce derivante dal matrimonio, celebrazione che avesti a cuore tanto da morirne. Nell’attimo in cui fui presentata a te, Deianira, mi sentii colpevole e piccola, resa impotente dalla mia schiavitù e dal senso di colpa. Mai avrei voluto sottrarti tuo marito, ma questo tu lo sapevi. Fu la mia bellezza a farlo; d’altronde tu conosci  bene quanto me il potere di Bellezza . Esso porta con sé tante disgrazie, prima di tutte la guerra che genera morte e sofferenza.  Mi chiedo se una  mia parola avrebbe potuto alleviare il tuo male… ma probabilmente avrebbe solo fatto crescere odio da parte tua nei miei confronti.  Forse è stato proprio il mio silenzio a rendermi indenne dal biasimo ai tuoi occhi. Io che ero abituata al lusso, in un palazzo dove nulla mi mancava, mi sentivo soffocare in terra straniera e senza la mia libertà da nobile cittadina. Così mi resi spettatrice passiva di una vicenda che vedeva la mia bellezza come la causa di una disgrazia. Mi accingo ora ad andare all’altare, consapevole delle mie colpe, con il coraggio e l’amore di Deianira nel cuore, sperando in una salvezza divina.