La primavera  dell'asino

di Massimo Mandelli 

Tratto dal romanzo  

“La primavera dell’asino” di Massimo Mandelli

La pratica dell’alpeggio

Nella valle dai costumi antichi i piccoli cortei di uomini e animali che percorrevano l’esile perdonabile strappato al selvaggio ripetevano la millenaria pratica di transumanza che, allo sbocciare della bella stagione, prescriveva di condurre il bestiame sugli alpeggi, i pascoli in quota, e di mantenervelo per un tempo che generalmente era di 83 giorni.

L’organizzazione della vita in alpeggio era rigidamente gerarchica, funzionale al pascolo delle bestie, alla loro mungitura e alla produzione del formaggio d’alpe il quale costituiva la merce da cui ricavare l’introito dell’intera stagione.

Un guadagno che spesso si rivelava magro computando che il caricatore d’alpe doveva per l’affitto circa la metà del ricavo, che v’era da evadere il lavoro di tutti i pastori e del casaro e che, buone ultime, davano il loro contributo ad alleggerire la borsa le varie spesucole di vettovagliamento ed attrezzi ch’erano serviti alla bisogna.

Nel conto doveva poi rientrare anche l’ultima fatica ch’era quella di scavalcare i monti con le grevi forme di formaggio sulle spalle per recarsi alla fi era dove smaliziati mercanti s’aggiravano a gustare, a palpare, a contrattare finché il battito reciproco delle palme concludeva, solitamente a favore del compratore, la trattativa che riguardava tutta la partita di latticini cosicché l’intera stagione di lavoro s’involava, alfine, a rimpinguare di gusti rustici e genuini le tavole di facoltosi possidenti della Bassa.

Ognuno nella comunità d’alpeggio aveva un preciso compito.

Al vertice della piramide v’era il Càp, solitamente colui che aveva steso alla festa di San Martino il contratto d’affitto con il padrone dell’alpe e che aveva la responsabilità della sua conduzione economica.

A lui spettava il compito di dà l’erba, e cioè di assegnare il pascolo alla malga, alla mattina e alla sera contando sulla propria esperienza per economizzare il foraggio in maniera da raggiungere il punto ideale di nutrimento delle bestie senza compiere sprechi.

Sempre a lui spettava, poi, distribuire i pastori nei punti più adatti per la custodia del bestiame, abbinando al meglio caratteri ed abilità delle bestie e degli uomini.

Seguiva nella scala gerarchica il casèer, il casaro, colui che confezionava i formaggi e ne curava la stagionatura. Siccome dalla sua abilità nel saper coniugare temperature, ingredienti, pesi e tempi dipendeva l’esito di tutta una stagione di lavoro era un personaggio tenuto in grande considerazione nella comunità dell’alpe ed era coadiuvato dal casinèer che badava a preparare la legna, ad accendere il fuoco, a portare il formaggio appena fatturato alla casèra, oltre ad essere il cuciniere ufficiale del gruppo, colui che preparava la polenta per pranzo e la minestra per cena.

V’erano poi i pastori, occupati in tutte le necessità dell’alpeggio e i cui compiti principali erano quelli della custodia della mandria, della mungitura e della sistemazione dei sentieri e dei muretti di recinzione.

Da ultimo venivano i cascìi, i pastorelli, ragazzini a cui toccava obbedire a tutti gli adulti, essere sempre pronti ai vari comandi e soprattutto vegliare con assiduità la malga, da mane a notte fonda.

Episodi della monticazione

La luce era decisamente cambiata allorché il piccolo gruppo di famiglia con relativi armenti giunse in prossimità della baita-fienile al piede dell’alpeggio, dove già concorrevano altri contadini con le rispettive bestie e dove ad attenderli v’era el Càp, il caricatore d’Alpe, che accoglieva tutti come l’ufficiale accoglie le reclute.

La grande radura erbosa si sviluppava su un pendio ripido che s’addolciva solo in brevi tratti e proprio su uno di questi, quasi alla mezzeria, campeggiava il muro della baita grande dove veniva cucinato il formaggio e dove dormivano la maggior parte dei pastori.

Era proprio solo un muro perché il tetto era mobile, costituito da un grande telo che si sarebbe smontato allorché da questa stazione base la malga, dopo aver esaurito l’erba a disposizione, si sarebbe spostata in pascoli più alti, per poi, dopo avere raggiunto l’apice, ridiscendere lungo le usate tappe.

Piuttosto di lato era invece costruita la casera.

Questo sì era un edificio completo, con un tetto di solido legname: un sito meritevole di una architettura solida e rispettosa essendo il forziere di tutte le fatiche e le speranze dei pastori.

Il pascolo risultava composto da una serie di quadrilateri piuttosto sghembi disegnati da muretti di pietra, i cosiddetti barek, recinti dove venivano portati gli animali a nutrirsi e a stanziare, secondo le ore, i giorni e le notti a insindacabile decisione del Càp

Le mucche erano inquiete, quelle appartenenti alla stessa stalla si raggruppavano fra loro e guardavano con diffidenza e timore le altre sconosciute con le quali erano costrette a condividere il pascolo.

Qualcuna più intraprendente cominciava a prendere a cornate la vicina dando così inizio a una serie di scontri che venivano intensificandosi o scemando in successive ondate.

Via via che si susseguivano le varie tenzoni aumentavano anche gli spettatori, alcuni dei quali incitavano calorosamente la propria bestia a prevalere sulle altre.

La battaglia per divenire la prima donna, la regiura dell’alpe, era combattuta a suon di cornate che, prevalentemente, le contendenti si infliggevano frontalmente, con gran cocciare di zucche, al fine di fare arretrare la rivale, costringendola a ritirarsi, a cedere il passo, come conviensi nelle più classiche dispute d’onore.

Le esperte lottatrici però erano più scaltre e invece di puntare direttamente al bersaglio, imitando l’ebete consuetudine tipica del toro, assaltavano ai lati e miravano ad imprigionare fra le corna il collo dell’avversaria in maniera che la successiva fase di spinta risultasse molto agevolata per il dolore e la scomodità a cui veniva sottoposta la malcapitata. A fronte di una presa di questo tipo non rimaneva che la resa e la vincitrice si godeva la vittoria punzecchiando in sovrappiù con le corna la rivale nella pancia e nelle natiche.

Robusto aveva già assistito a tale spettacolo, ne conosceva anche gli strascichi che si propagavano come onde nella comunità contadina: possedere la regiura conferiva prestigio all’allevatore, tanto che, si mormorava, pur di far vincere la disfi da alla propria vacca, c’era chi prima di giungere all’alpeggio dava alla bestia pane inzuppato di vino o, anche, le faceva tracannare il “ricostituente” direttamente dal fiasco.

Ma queste erano magagne che duravano lo spazio di una giornata perché la vacca, privata della sua razione alcoolica, sarebbe stata facilmente spodestata nei giorni seguenti in quanto incapace di sostenere la rivincita cui le sue invidiose rivali l’avrebbero costretta.

La merenda dei pastori

Nel frattempo la polenta era cotta, il Càp lo segnalò battendo lo sgabello su una secchia.

Dai tascapane uscirono pezzi di formaggio e di carne secca; eccezionalmente girarono per l’alpe anche fiaschi di vino, recati perlopiù dai contadini provenienti dalla sponda soliva, dove le viti crescevano arrampicandosi sulle rocce e maturavano al sole riflesso dai sassi.

Nella compagnia conviviale iniziarono le consuete e reciproche celie e si rinnovarono le antiche dispute su chi fossero i migliori allevatori della zona.

Poi si sparse nell’alpe la pigra malia della siesta.

Qualche pastore prese confidenza, per ripararsi dal sole, con la propria cassa di legno, detta bait, quella che avrebbe utilizzato come stanza da letto per tutta la stagione.

Dai dirupi lì intorno provennero canti di ragazze che s’erano arrampicate in questi posti da capre per raccogliere l’erba selvatica, la festuca: anch’esse si riposavano in attesa che il magro foraggio essiccasse per riunirlo in grossi fasci e portarlo a casa. Al cristallino richiamo risposero i giovani pastori che ricamarono jödel nella quiete del meriggio.

Sul far della sera

Terminata la mungitura i cascìi condussero la malga al pascolo serale, la scéna, in un barek vicino alla baita provvisto di abbondante erba così le bestie satolle sarebbero state tranquille durante la notte.

Un pastorello, cui la prospettiva della permanenza in alpeggio non andava a genio, aveva sfogato il proprio malumore scaricando robuste legnate sulla groppa di alcune vacche non proprio leste a seguire il branco e s’era guadagnato il rimprovero di un pastore il quale gli spiegò come anche nel mondo animale valeva il principio della pena commisurata alla colpa.

Venne il buio e la malga fu ricondotta al luogo dove doveva passare la notte.

I pastori si ritirarono nella baita a mangiare minestra con un po’ di polenta avanzata; i cascìi rimasero fuori a vegliare prestando anche particolare attenzione perché, aveva spiegato il Càp, la mandria era appena formata e a qualche carùgna de na vàca poteva venire per la testa di andarsene o di infastidire le sue compari più antipatiche, fomentando disordini che sarebbe stato poi difficile chetare.

I pastori seduti intorno al fuoco recitarono la corona del rosario seguita da vari Pater, dalla Salve Regina, dal Miserere, dal De Profundis e dai Requiem e poi iniziarono a chiacchierare fra loro, ed essendo questa la prima sera erano tante le notizie che avevano da scambiarsi o i racconti di vita da comunicarsi che la veglia si protrasse a lungo mentre la notte avanzava sul monte.

I poveri cascìi dovettero allora attendere a lungo che gli uomini si decidessero a raggiungere le loro casse dormitorio ch’erano state opportunamente collocate nei pressi della malga.

Essi erano affamati ed anche infreddoliti mentre ascoltavano con un pizzico di timore i fruscii provocati da qualche selvatico che aveva iniziato le sue notturne peregrinazioni.

Qualcuno di loro tentò di scacciare i fantasmi che iniziavano ad occupargli la mente, ma questi non volevano andarsene, anzi, chiedevano ligia attenzione.

Si ricordò allora, suo malgrado, delle leggende udite dai vecchi, quelle che parlavano di streghe, di apparizioni di morti, di anime inquiete di condannati: era stato facile ridere delle esagerazione in esse contenute quando le aveva sentite in compagnia nella stalla e magari anche burlarsi della serietà con cui il narratore pretendeva credulità; ma ora c’era poco da scherzare, ora il gelo della paura prendeva la sua rivincita.

Venne così a trovarlo l’anima dannata del Rigadìi che andava per le balze dei monti a spaccare massi con la sua mazza e che era sempre in cerca di giovanetti da trascinare alla perdizione perché facessero il lavoro al suo posto.

Si raccontava che costui quand’era in vita fu chiamato a testimoniare circa la proprietà d’un terreno conteso fra un mercante strozzino e un povero contadino ed egli, pur sapendo che esso apparteneva senza alcun dubbio al villano, prima di recarvisi si mise nelle scarpe uno strato di terra di proprietà dello strozzino, cosicché dinanzi al magistrato che lo interrogò disse «giuro che sono sulla terra del mercante».

Per scrollarsi da dosso la compagnia del truffatore colto in fallo dalla divina giustizia il ragazzo diede la voce ai suoi compagni i quali risposero prontamente.

Uno di loro si incaricò di recarsi di nascosto alla baita ad origliare per sentire cosa stessero dicendosi i pastori e da qui magari divinare quando si sarebbero decisi a por fine alla seduta.

Seguire i movimenti dell’intrepido esploratore, immaginarli allorché svaniva nel buio della sera, fu sufficiente per dimenticare i paurosi fantasmi finché la precipitosa corsa del cascìi verso la malga li avvertì che finalmente gli adulti avevano terminato la loro riunione.

Fu il loro turno di recarsi alla baita e di mangiare la minestra ormai fredda nella quale galleggiava un pezzetto di polenta.

Poi la fatica la vinse e nemmeno si accorsero dello scomodo giaciglio fatto di rami d’abete e di erba selvatica sul quale chiusero gli occhi ascoltando il tenue tintinnio de campanacci mossi dal ruminare delle mucche, tintinnio che ogni tanto si interrompeva quando la ruminante inghiottiva il bolo per poi riprendere subito dopo.

Il sonno sopraggiunse accompagnato anche dal lento ed uniforme rumore prodotto dal gocciolio del siero che, fuoriuscendo dal formaggio fresco e pressato, cadeva in una secchia.

Pastore dal sito del dialetto di Albosaggia