Fantadrammatico

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VIVERE IL NOSTRO TEMPO, "MAGNIFICO E DRAMMATICO"

di Mario Montani Brescia, 26 ottobre 2003

1. Generazioni dell'esodo, in "crisi"

Il tempo in cui viviamo fu definito da Paolo VI “magnifico e drammatico”: magnifico per gli straordinari traguardi che l’umanità ha raggiunto in ogni campo; drammatico per le contraddizioni, le ingiustizie e le atrocità che porta con sé.

• In realtà noi non siamo nati in uno di quei periodi in cui l'uomo trascorre una esistenza tranquilla, basata su una solida tradizione che rassicura. La nostra società sta vivendo un cambiamento d'epoca e non solamente un'epoca di cambiamenti. Ciò che fino a poco tempo fa dava una determinata maniera di essere, di agire, di valutare le cose, si scontra con un nuovo modo di essere, di agire, di valutare.

Il poeta Eugenio Montale riconosceva che «Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo»: siamo insoddisfatti di quel che siamo, ma non sappiamo precisare cosa vogliamo essere. Prepotentemente sospinti verso ciò che è inesplorato, in più di un'occasione saremo costretti a diventare men of many firsts: uomini che fanno molte cose per la prima volta.

• Molti parlano dappertutto e sempre di crisi! Ma bisogna procedere con circospezione ogni volta che si adopera questo vocabolo, quasi fosse automaticamente sinonimo di perdita, disfatta, peggioramento. La parola crisi che, per la coscienza media, ha sempre un suono negativo, nel senso originale significa situazione di decisione: in una "situazione critica" le strutture e le forme di comportamento sin qui date non sono più ovvie. E con questo si dà spazio alla libertà e possibilità all'azione.

Il futuro è così aperto. Per questo una crisi può portare tanto alla rovina quanto diventare un kairòs, ossia un momento opportuno, un'occasione favorevole, un tempo decisivo per puntare verso il meglio.

• Io, qui, non ho certo la presunzione di decifrarvi il nostro tempo, straordinariamente complicato e anguillesco. Ma penso cosa utile sottolinearne, solo per cenni (a mo' di esempio e di stimolo), alcune caratteristiche che possono aiutare a vivere il nostro tempo senza patemi d'animo e a non rassegnarsi unicamente ad esistere come un indecifrabile frammento dell'uni-verso.

2. Caratteristiche emergenti

2.1. Innanzitutto

Il nostro tempo è caratterizzato da una nota dominante, che viene definita accelerazione della storia: tutto cambia molto velocemente.

Con sorprendente unanime convergenza gli storici attestano che negli ultimi due secoli l'umanità ha cambiato più velocemente che non in tutti i precedenti millenni, e che nei decenni succedutisi dal 1950 l'umanità ha cambiato più velocemente che non nei due ultimi secoli.

Certo, i cambiamenti socioculturali ci sono sempre stati; però mentre nel passato avevano il ritmo dei secoli, oggigiorno si misurano con il ritmo dei piani quinquennali. Per l'attuale accelerazione della storia, nella nostra epoca in cinque/dieci anni si sperimenta e si vive ciò che prima capitava normalmente in un secolo. Cosicché, se per realizzare la società industriale sono occorsi 150/200 anni, per la società dell'informatica ne bastano 20/30.

«Tutto ciò favorisce il sorgere di un formidabile complesso di nuovi problemi, che stimolano ad analisi e a sintesi nuove (GS 5)».

2.2. Una seconda caratteristica.

«Oggi il genere umano passa da una concezione piuttosto statica dell'ordine ad una concezione più dinamica ed evolutiva (GS 5)». Cosa vuol dire?

• In breve: anticamente, e, si può dire, fino a "ieri" (fino all'inizio del secolo scorso), l'uomo era convinto che la sua storia e quella dell'universo partivano da un iniziale ordine fisso e prestabilito, da accettare fatalisticamente e passivamente (ricordiamo p. es. la concezione "fissista" e statica delle specie dei viventi). Col passare del tempo, così si pensava, l'uomo si allontanava nostalgicamente da questo inizio felice e compiuto. Tutte le culture antiche conoscono il mito di una primordiale età dell'oro, nella quale regnava la perfezione e una beata convivenza degli uomini con gli dèi (anche la Bibbia paga il suo contributo a questa mentalità).

In tale visione, più si guardava indietro e più si intravedeva la perfezione cosmico/umana.

• Attualmente avvertiamo che la storia del mondo non è già stata scritta tutta in anticipo, "a priori", ma "si fa" in senso vero; cioè è una storia da inventare, imprevedibile, da realizzare liberamente e responsabilmente. Scopriamo noi stessi e l'universo tendenzialmente "in marcia" verso un completamento, una perfezione, che non stanno all'inizio, ma alla fine della storia cosmico/umana. Anche in una visione che ammetta la creazione, come quella cristiana, si scopre non un Dio "che fa le cose", ma un Dio "che fa che le cose si facciano"; non un Dio "che ha creato", ma un Dio "che crea" (crea delle "creazioni"); un Dio che non fa mai niente da solo.

In tale contesto la natura umana non è più riconosciuta come un dato compiuto, totalmente programmato fin dalla nascita. L'uomo si scopre non un prodotto finito, ma un progetto da realizzare; si scopre il costruttore di se stesso, calamitato dal futuro, in marcia verso un compimento con un cammino né sempre rettilineo, né privo di ripensamenti.

Nella nostra "macchina umana" le "ruote trainanti", per così dire, sono quelle anteriori, che però non possiamo orientare con delle certezze.

• Ecco perché oggi si parla di noi come generazioni dell'esodo: cioè dell'abbandono, dell'uscita da un passato che non è ancora completamente scomparso, benché stia tramontando velocemente, verso un futuro appena iniziato, temuto e desiderato, affascinante ed esigente, benché ancora molto indeterminato.

2.3. Una terza caratteristica: il pluralismo culturale.

Oggi le sempre più numerose relazioni (politiche, economiche, sportive, turistiche), enormemente favorite dalla facilità dei viaggi e dei mass-media, uniscono talmente tra loro i vari popoli della terra da non mettere più in dubbio il cammino di tutta l'umanità verso una convivenza pluralistica: pluralismo di idee, di culture, di comportamenti, di religioni.

Non si può negare che, a prima vista, di per sé, nel suo semplice esistere e porsi, il pluralismo culturale non si presenta come un vantaggio scontato. E', diciamo così, una realtà neutra; non è automaticamente né positiva né negativa: lo si può vivere positivamente, come possibilità di motivazioni più personali, più convinte, più libere e responsabili. Ma lo si può vivere anche negativamente, abbandonandosi alla deriva dell'indifferenza di fronte ai valori e della relativizzazione della verità, poiché ha la capacità di sconvolgere e corrodere tutte le certezze e di mettere in continua fibrillazione le convinzioni, le tradizioni, ogni ordinamento sociale.

2.4. Un'ultima caratteristica: l'indifferentismo religioso.

Per quanto riguarda il mondo euro-occidentale, si potrebbe dire che siamo di fronte a una nuova stagione della percezione del divino. Ci avevano appena annunciato la morte di Dio, mentre ora, nel gergo dei mass-media, si proclama: Dio ritorna! E invece è tornata la religione, non Dio! Se fino a trent’anni fa il problema era Cristo sì, chiesa no, oggi il problema è: religione sì, Dio-Cristo no (pensiamo al New Age e alle nuove spiritualità orientali).

La religione che è tornata, è una religione dionisiaca, una religione placebo, che assicura un appagamento eludendo la fatica e la sofferenza; è una religiosità intesa come presunzione psicologica. Potremmo dire: è morto Marx, ma vive trionfante Nietzsche con il suo slogan: mito sì, Cristo-Dio no e con la sua sfida: Finisce la vita dove comincia il regno di Dio! E’ un ritorno anticristiano!

Più che un ateismo ideologizzato e combattivo, ci troviamo di fronte un ateismo dell’indifferenza e della noncuranza. Si vive come se Dio non esistesse! «Oggi la religione è tutt'al più ridotta ad un abbellimento a dei fenomeni civili, umanitari» (W. Kasper), ma non scava le coscienze, non incide sui comportamenti.

3. Sollecitazioni e prospettive di impegno

• Orbene, ognuna di queste caratteristiche, nel suo genere, è una crisi, che può venir percepita e vissuta come disfatta o come provvidenziale opportunità per scelte decisive verso il "meglio".

Tutti noi oggi siamo sollecitati a impegni più esigenti di ieri; siamo chiamati a diventare uomini più maturi per un mondo più adulto (come si suol dire). Però attenti all'ingenuità: il solo fatto di vivere oggi, non è automaticamente una garanzia di essere uomini maturi, adulti, responsabili. Se uno oggi vuole essere pienamente uomo (una persona matura, responsabile, costruttiva), e "diventare uomini" è il mestiere più difficile di tutti, deve accettare l'attuale sfida socio-culturale, che gli chiede un supplemento di riflessione, di capacità critica, di partecipazione responsabile, di convinzioni più motivate, di disponibilità al dialogo, di generosità altruistica, di creatività equilibrata e coraggiosa. Quindi, nessun automatismo e nessuna presunzione: né di età, né di titoli accademici, né di cariche o di incarichi!

• E rimaniamo pure critici e diffidenti di fronte al millantato prestigio della cosiddetta esperienza, parola con la quale, afferma Oscar Wilde, il più delle volte si contrabbanda una "serie ripetuta di sbagli". Il tempo, da solo, forse matura le nespole, ma non matura né le persone né le istituzioni: il tempo, da solo, sclerotizza e porta alla morte.

Per fare esperienza (in tutti i campi: dal marketing alla didattica, dallo sport alla politica e perfino all'ascetica) occorrono sempre tre "cose", ineliminabili:

1. un progetto ben chiaro, un ideale (per noi, qui, una visione dell'uomo e del mondo;

2. fissare degli obiettivi mirati, determinati: cosa in concreto io devo fare per?;

3. una verifica periodica, metodica: cosa ho o non ho ottenuto? e perché?

• Adeguatamente "maturati" e "attrezzati", nel rispondere alle sollecitazioni delle crisi del nostro tempo, noi dovremmo conservare un atteggiamento di apertura vigile, che sappia offrire una "concessione di credito" alle novità, base di partenza è l'ottimismo e la fiducia; però una "concessione di credito" che sia temperata da un'attenzione critica e da un discernimento ponderato.

Esemplifichiamo.

3.1. Accelerazione della storia e ordine dinamico/evolutivo

a) Ottimismo e fiducia per il "nuovo", d'accordo, senza dimenticare però che non tutto ciò che è nuovo è perciò stesso automaticamente e necessariamente migliore: non è detto che l'ultimo tipo di auto sfornato dalla FIAT sia il migliore della sua produzione: può essere una macchina non riuscita (com'è capitato più di una volta).

Perciò occorre avere un criterio di giudizio, una "misura", che se non ci darà proprio la sicurezza di ogni passo nuovo che faremo, ci impedirà almeno i passi sicuramente negativi e compromettenti, difficilmente riparabili. Il primo e principale criterio di giudizio, più indispensabile oggi di ieri, è una retta visione dell'uomo, che fondi e difenda la dignità della persona umana nella sua interezza di corporeità, spiritualità, socialità; che sia attenta e rispettosa di tutto l'uomo e di tutti gli uomini; una visione dell'uomo fondata sulla convinzione che la persona umana è sempre fine e non può mai essere ridotta a mezzo o venir usata come strumento per il raggiungimento di altri scopi: né dalla politica, né dall'economia, né dalla tecnica, né da qualsiasi istituzione (civile, ecclesiale, familiare, nazionale, mondiale).

b) Dobbiamo inoltre renderci coscienti che l'azione (il fare) è la manifestazione concreta del nostro pensiero. L'azione è la parte emergente di un iceberg; la parte immersa, quella che regge ogni nostra azione, è sempre un'idea, nostra conquista personale o impostaci da altri e accettata acriticamente: non si scappa! Perciò se di tanto in tanto non ti fermi a pensare come agisci, finirai inesorabilmente per agire come "altri" ti fan pensare, riducendoti a «strumento cieco d'occhiuta rapina» (G. Giusti). E "predatore" lo può diventare qualunque sistema operativo (economico, finanziario, politico, tecnocratico, sportivo ecc.) se, abbandonato alla sua cieca forza di gravità, viene attratto in libera caduta dall'egoismo, dalla speculazione, dal monopolio informativo, dalle dittature economiche, politiche, culturali.

3.2. Il pluralismo culturale

• E' in questi nostri tempi che si comincia a "smantellare" il perdurante dogmatismo culturale, una specie di incapacità di apprezzare una cultura straniera perché si è convenuto, una volta per tutte, che la propria fosse chiamata a dirigere le altre. E' finito il tempo in cui gli “altri” erano o un nulla insignificante (i barbari), o i cattivi da combattere e da salvare convertendoli alla propria cultura.

Badate però che l'autentico pluralismo non è solo tolleranza, non è semplice sopportazione dell'esistenza di altri punti di vista (Goethe diceva: «Tollerare vuol dire oltraggiare»).

Il vero pluralismo è accettazione delle differenze; è dialogo con differenze feconde. Si tratta di incamminarci verso un nuovo genere di solidarietà fra interlocutori che sono d’accordo nel riconoscere il loro disaccordo, ma tuttavia vogliono perseguire insieme il bene comune. Si tratta di un’autentica “convivialità” delle differenze!

• Il "ponte", chiamiamolo così, che permetterà il dialogo fra culture diverse non sarà la religione, ma l'accettazione di principi di validità universale che possono essere riconosciuti e condivisi da tutti gli uomini "ragionevoli", capaci cioè di fare buon uso della propria ragione. Pensiamo alla Dichiarazione universale dei diritti umani; pensiamo a quelli che Gandhi, già nel 1920, classificava come i sette peccati sociali, da eliminare radicalmente in ogni convivenza:

1. politica senza principi;

2. benessere senza fatica;

3. piacere senza coscienza;

4. conoscenza senza carattere;

5. commercio senza moralità;

6. scienza senza umanità;

7. successo senza sacrificio.

3.3. L'indifferentismo religioso

A questo riguardo, è da anni che il Papa Giovanni Paolo II ci sta "martellando" che i cristiani di oggi devono ricominciare da Cristo! Il che vuol dire che:

- il cristianesimo non è un codice da osservare ma una persona, Gesù Cristo, da conoscere, amare, testimoniare;

- il cristiano è un uomo "scombussolato" dall'incontro con Gesù Cristo;

- cristiano è colui che trova l'ultima parola del mondo e della vita in Gesù;

- cristiano è chi riesce a capire che «non bisogna salvare l'anima come si salva un tesoro (nascondendolo sotto terra). Bisogna invece salvarla come si perde un tesoro: spendendola!» (Péguy);

- cristiano è chi si sente corresponsabile e costruttore della comunità in cui vive e non semplicemente fruitore o, peggio, solo detrattore.

Riconosciamolo apertamente: soprattutto oggi Gesù Cristo non ha bisogno di esse difeso, ha bisogno di essere portato, con la coerenza della vita dei cristiani.

Charles de Foucauld: "Gridare il vangelo con la vita!»

Shakespeare: «Gli occhi degli ignoranti sono più colti delle loro orecchie!»

• E' da duemila anni che nostro Signore Gesù Cristo sta tentando di far divampare la più grande rivoluzione immaginabile sulla terra, ma da solo non ce la fa! Ha bisogno di ciascuno di noi!

Il mondo, lasciato all'inerzia del suo egoismo, "innerva" la vita su tre verbi (tre ambizioni, tre ideali): avere – godere – dominare. Avere, denaro, macchine, l'ultimo telefonino, titoli autorevoli, stima e prestigio; se non si ha, si crede di non esistere, di non valere niente.

Godere, sfruttare al massimo le fonti del piacere, in tutte le sue dimensioni corporee e incorporee; aborrire qualunque sacrificio, qualunque impegno "che costi"; pretendere solo la "libertà da" che svincoli da ogni legge, e burlarsi della "libertà per" costruirsi "persone mature e responsabili". Dominare: sentirsi signori e padroni degli altri; trovarseli ai propri piedi come strumenti di ambizione, di avidità, di potere, di prepotenza, di lussuria.

Invece la rivoluzione del Signore, quella evangelica, fa perno su tre verbi (o "valori") totalmente opposti ai precedenti: essere – amare – servire. Essere onesti, veritieri, casti, giusti, convinti che l'uomo vale più per quello che è che non per quello che ha. Amare, che non vuol dire soltanto "non pestarsi i piedi", vuol dire "esistere per gli altri", "volere il bene di (dell'altro)", vuol dire "scomodarsi"; vuol dire immettersi nella gratuità del dare senza pretesa di contraccambio. Servire, venire incontro alle necessità dell'altro, prevenire l'indigenza, spendersi umilmente nel dono di sé, non mettersi a capofila di coloro che hanno solo pretese e si ritengono l'ombelico dell'universo.

• Avete capacità, cultura, energie giovanili: perché non vi fate promotori nel vostro ambiente di iniziative costruttive, di iniziative evangelicamente rivoluzionarie?

• Per un celebre predicatore nessun edificio chiuso (chiesa o teatro) poteva contenere le folle che accorrevano per sentirlo. Fu scelto uno stadio. Quella sera gli spalti erano gremiti ed erano illuminati da fari potentissimi. In mezzo al campo, un tavolino e un microfono. Comparve il predicatore e disse. «Spegnete tutti i fari». Lo stadio piombò in un buio pesto. In mezzo al prato si intravide vide luccicare una piccolissima luce, perché il predicatore aveva acceso un fiammifero. «Accendete tutti un fiammifero». Lo stadio comparve più illuminato di prima. «Ho finito la mia predica.

Tornate a casa, accendete tutti un "fiammifero di bontà" e in tutta vostra città divamperà il "fuoco" dell'autentico progresso, dell'autentica "pace", fondata sui quattro "pilastri" della verità, della giustizia, dell'amore e del rispetto della dignità di ogni persona.

• Siamo ciò che doniamo! Come "misurare" la crescita umano/cristiana (non solo adolescenziale). Alla sera, prima di addormentarvi, fatevi questa domanda: cosa ho donato oggi di me agli altri? (in casa, a scuola, nel gioco, nel lavoro). Niente? Sei ancora il bamboccio egoista, anche se hai 15, 20, 30, 50, 70 anni!

Mario Montani

Brescia, 26 ottobre 2003 Ricordi del Don Bosco Brescia