Brevi racconti

© by Vittorio Crapella - i2viu


LA BICI CON LO STOP

Anno 1964

Un signora vicina di casa possedeva una bicicletta da uomo dimenticata in un locale, adibito a ripostiglio, dopo che il figlio era emigrato in Australia.

Valutò che quella bici sarebbe rimasta li per sempre senza che suo figlio la potesse più utilizzare e conoscendomi bene decise di regalarmela.

Potete immaginare quale immensa gioia fu per me a quell'età e in quel periodo possedere una bicicletta, l'avrei poi utilizzata per recarmi a scuola, alle medie presso la città di Sondrio a circa 4 Km da casa mia.

Dopo qualche intervento di manutenzione ordinaria, la bici divenne perfettamente utilizzabile.

Rimasi subito affascinato dall'impianto elettrico, aveva una dinamo (alternatore) molto più grossa di quelle viste su altre bici e il faro, anch'esso bello grande, aveva fissato un levetta di bachelite nera che permetteva di avere due posizioni che ben presto scoprii corrispondere a due livelli di luce, quasi come gli abbaglianti e anabbaglianti delle moto ed auto.

Sul breve rettilineo, di una stradina vicina a casa, di sera pedalavo a più non posso per verificare l'efficienza di quel faro. Sulla posizione di massima luce emetteva un fascio di luce eccezionale e la cosa mi affascinava ed ero contento e convinto di possedere, a mio parere, una super bici.

La curiosità mi spinse ad aprire quel faro per capire come poteva dare due livelli di luce.

La levetta era un deviatore che in una posizione collegava la lampadina in modo diretto e nell'altra metteva in serie un avvolgimento di filo sottile (immagino di nichelcromo), avvolto su un supporto isolante rettangolare, così da offrire una resistenza per limitare la corrente e diminuire di conseguenza l'intensità luminosa.

Una bici super doveva avere degli optional che altre bici non possedevano e pertanto pensai bene di munirla anche dello stop aggiungendo una lampadina supplementare sul fanalino posteriore.

Rimaneva come realizzare il contatto di comando di questa lampadina.

I freni di allora sulle bici venivano realizzati mediante bacchette fissate con snodi sul telaio e tirate dalle leve mosse dalle mani che comandavano le ganasce con tappi in gomma che si stringevano contro i cerchioni delle ruote frenandole.

Non possedevo certo microswitch o fine corsa da poter fissare così da utilizzare il loro contatto normalmente aperto in serie al filo della lampadina.

Quello che non possedevo però lo potevo realizzare anche se in modo poco professionale.

Per me contava solo il risultato.

Il movimento di quelle bacchette o asticelle metalliche, mi portarono a pensare a due pezzi di filo che si potessero unire quando frenavo e si potessero allontanare quando mollavo il freno. Presi due spezzoni di filo rigido in rame isolato, li spellai per 1 cm da un lato e ne fissai uno al telaio e lo collegai al lato caldo della lampadina (l'altro capo era già a massa sul telaio) e fissai l'altro sulla bacchetta mobile e lo mandai alla dinamo.

Il gioco era fatto, frenavo e i due contatti si toccavano, chiudendo il circuito e la lampadina dello stop si accendeva.

Ben presto mi accorsi che il sistema non era efficiente quanto avrei voluto, infatti dovevo girare in bici sempre con la dinamo inserita anche di giorno e in più la luce dello stop durava pochissimo e si affievoliva fino a spegnersi a causa della frenata.

La migliore soluzione era mettere una batteria supplementare così lo stop sarebbe rimasto acceso anche da fermo a freno tirato. Detto fatto, dotai la bici di due pile piatte da 4,5V.

A scuola andavo in bici anche d'inverno se non nevicava e ricordo che gelavano le mani anche se si portavano i guanti che di certo non erano come quelli di adesso.

Pensai a qualcosa che potesse scaldare l'impugnatura del manubrio e le mie poche conoscenze tecniche mi portarono ad una soluzione che a livello teorico poteva anche essere valida ma che poi a livello pratico si rivelò deludente.

Avvolsi su entrambe le impugnature isolanti del manubrio del filo sottile di rame smaltato alimentati dalla dinamo. Quegli avvolgimenti avrebbero dovuto con la resistenza del filo produrre calore così da poter tenere le mani al caldo. In realtà scaldavano sì ma non a sufficienza per alleviare il freddo alle mani e in compenso assorbivano tanta corrente da rendere perfino la pedalata più faticosa per muovere la dinamo.

IL CIRCUITO STAMPATO

Anno 1964

Quando andavo a scuola con la bici, prima di arrivare a scuola, facevo un giro alla stazione ferroviaria che era un po' il ritrovo di tutti gli studenti.

Una mattina fra le riviste dell'edicola della stazione intravidi una copertina con disegnato sopra una valvola termoionica e la cosa mi incuriosì parecchio visto che in parte conoscevo l'argomento visto che possedevo le dispense di Radio Elettra.

Controllai subito il costo di quella rivista e valutai se le mie misere risorse economiche mi permettessero l'acquisto. Il costo era di 50 lire che fortunatamente avevo in tasca e spinto dalla curiosità non esitai a pronunciare all'edicolante il nome della rivista: Radio Rama.

La sfogliai velocemente nei pochi minuti che mi restavano prima di avviarmi alla mia scuola e rimasi attratto dallo schema di un ricevitore per cuffia ad un transistore.

Lo immaginavo già realizzato avevo visto il circuito stampato ma di preciso non sapevo ancora come avrei potuto crearlo ma ero certo che l'articolo me l'avrebbe indicato.

Quel giorno non vedevo l'ora che le lezioni in classe finissero presto per andarmene a casa e ritornare a sfogliare e leggere quella rivista che mi intrigava molto.

Sorvolai sulla spiegazione del funzionamento della radio ad un transistore e approfondii invece quello del circuito stampato e scoprii che mi sarebbe servito una basetta di bachelite ramata ma non veniva spiegato bene come avrei potuto poi ottenere le sole piste necessarie.

Avevo intuito che oltre la basetta ci voleva anche qualche soluzione per corrodere il rame ma ignoravo ancora il suo nome e anche sul resto della rivista non lo trovai o non seppi capire. Intanto mi procurai la basetta che dovetti ordinare per posta, i tempi di attesa erano sicuramente più lunghi di adesso ma come si sa tutto andava con ritmi più lenti.

L'unità tempo per queste cose era il mese come mensili erano le riviste.

In possesso della basetta mi rimaneva di risolvere come segnare le piste sul rame e con che soluzione corrodere. Per le piste mi venne in mente di ricoprire la basetta con carta adesiva plastificata e poi con un taglierino seguire il contorno delle piste che per fortuna erano poche e sufficientemente grandi. Per la soluzione corrosiva feci una ricognizione dai due riparatori radio TV di Sondrio per informarmi ma mi resi conto che anche loro non ne sapevano molto di più del resto erano ottimi tecnici ma di circuiti a valvole, dove i cablaggi erano ancora tutti filari.

Mi venne l'idea di andare in farmacia come ultima spiaggia per la realizzazione di un sogno che stava svanendo. Non sapevo come affrontare la faccenda con il farmacista ma non mi restava che raccontare cosa stavo facendo e cosa avrei voluto.

Credo che il dottore mosso da pietà, verso un adolescente che mostrava tutto il suo entusiasmo nel raccontare del circuito stampato, e compreso che il problema era corrodere del rame mi informò che la cosa era assai insolita per lui ma che mi avrebbe dato un preparato che sarebbe venuto pronto dopo un paio d'ore.

Mi consegnò un cartoccio con dentro una poltiglia di color giallo ocra scuro tendente al marroncino che infilai in tasca e, sempre con la bici, di corsa mi avviai a casa per concludere la mia impresa. Avevo ricevuto poche istruzioni per l'uso; diluire in un poco d'acqua messa in recipiente non metallico ma non mi aveva detto che le eventuali macchie sui vestiti erano indelebili, la sorpresa l'ebbi quando mi tolsi il cartoccio dalla tasca e osservai i pantaloni.

Immersi la piastra ramata con le piste ricoperte dalla carta adesiva e aspettai quanto basta guardando ogni poco come proseguiva la corrosione fino a che il rame superfluo sparì dalla basetta.

In seguito non andai dal farmacista ma acquistai per corrispondenza un litro di cloruro ferrico e nel frattempo scoprii l'esistenza di altre riviste che trattavano argomenti di elettronica a valvole e a transistori che ormai si stavano diffondendo in sostituzione dei tubi termoionici.

Ricordo riviste come "Sistema Pratico", "CD Elettroica", "Radio Kit", "Elektor", "Selezione Radio TV", "Sperimentare", "Onda Quadra", "Elettronica Oggi", ecc.. forse alcune di queste si trovano tutt'ora in edicola.

LA SVEGLIA CON CLACSON

Anno 1964

Svegliarsi al mattino per me, in gioventù, è sempre stato un problema e dormivo in qualsiasi situazione di rumore, ricordo di aver dormito tutta la notte con la cuffia intanto che la famosa radio ad un transistore, realizzata con il mio primo circuito stampato, riproduceva musica e parlato proveniente da stazioni ad onde medie. Un gran "bailame" dato dalla poca selettività di un così semplice ricevitore.

Ricordo, anche se esula dal racconto della sveglia, che in alpeggio quando custodivo le mucche al pascolo e dovevo mantenerle in un confino ben delineato, riuscivo a dormire per due o tre minuti anche col frastuono dei campanacci poi svegliarmi e girare le mucche che avevano oltrepassato il confino e di nuovo addormentarmi sdraiato sull'erba per altri minuti, poi nuovo risveglio e così di seguito.

Tornando alla sveglia va immaginata come quelle con carica manuale a molla con le chiavette a farfalla da girare sul retro del quadrante delle ore.

Siccome la suoneria allo scadere dell'ora x impostata per il risveglio spesso la ignoravo, anche se dal suono sufficientemente lungo e forte, pensai di dotarla di una suoneria supplementare.

Disponevo di un clacson, recuperato da una vecchia lambretta, che avevo già provato con il trasformatore a 12V e che dava davvero un suono sufficiente a svegliare anche un ghiro in letargo. Adottai la stessa tecnica dello stop della bici con contatto ottenuto da un filo spellato.

Lo fissai sul retro della sveglia in modo che la chiavetta per la carica della suoneria mentre girava, durante lo srotolarsi della molla che muoveva il batacchio della suoneria, sfregava contro il filo spellato chiudendo così il circuito tra clacson e trasformatore.

La farfalla al temine della sua corsa si fermava mantenendo il contatto chiuso e il clacson emetteva un suono frastornante continuo.

Ero obbligato a svegliarmi, alzarsi e spegnere il sistema mediante interruttore disposto in serie al primario del trasformatore.

L'ARCO VOLTAICO

Anno 1965

La luce intensa del sole quella mattina di primavera mi svegliò un'ora prima del dovuto ma mi accorsi solo quando ormai non era il caso di tornarmene a casa, ero già arrivato a Sondrio per recarmi a scuola con la mia super bici e la cartella fissata alla canna della bicicletta con dentro un trasformatore e due carboncini ricavati da una pila piatta scarica.

Cosa centra quella roba con la scuola ? Nulla ma volevo mostrare ai miei compagni e magari al prof. di scienze, se me l'avesse permesso, l'esperimento dell'arco voltaico che già avevo provato a casa.

Sinceramente non ricordo da dove mi venne l'idea ma forse è stato in quel periodo che ebbi l'occasione di vedere una cabina di proiezione per film a pellicola dove appunto veniva utilizzato come lampada del proiettore una basata sul principio dell'arco voltaico. Mi avevano anche spiegato che ogni tanto bisognava avvicinare i carboncini per tenere sempre la luminosità ottimale.

Il trasformatore, che portavo in cartella, era uno di quelli della Scuola Elettra che avevo avvolto seguendo le istruzioni delle dispense. Ricordo quanta pazienza per avvolgere il primario con tutte quelle spire perfettamente affiancate e isolate ad ogni strato con carta paraffinata e per di più con tutte le uscite intermedie perché allora si usava avere i cosiddetti primari universali che partivano dal 110Vac per arrivare a 220Vac con 4 o 5 valori intermedi.

Questo per adattare la tensione in base al valore di rete che di certo non aveva gli standard e le tolleranze ristrette di oggi.

Il secondario era di non tante spire ma di filo abbastanza grosso in grado di dare 3 o 4 Ampere a 12V.

Appena arrivai in aula, anche senza la presenza del prof., infilai la spina nella prima presa che trovai (alla faccia della sicurezza) e avvicinai i due carboncini. Per creare un arco sostenuto, efficiente e degno di nota bisognava dosare nella giusta misura la vicinanza dei due contatti.

Mentre i compagni guardavano un poco stupiti il bagliore scintillante dei due carboncini, sopraggiunse il prof. che ci richiamò all'ordine e ci fece terminare l'esperimento senza però lasciare la cosa senza commenti.

E ben presto dall'arco voltaico, il professore incalzato da varie domande, arrivò a parlare anche della pila di Volta. Alla lezione successiva, la settimana dopo, arrivai a scuola con dei lamierini di rame e zinco (presi dal lattoniere del mio paese) per poter realizzare anche la pila di Volta.

Il prof. ci portò presso l'aula di scienze dove c'era l'acido solforico diluito in acqua e le bacinelle di vetro e in poco tempo infilate le lamine e collegate ad una piccola lampadina da 2,5V potemmo vedere una fioca luce (forse era solo il filamento arrossato) ma l'importante era poter provare qualcosa di insolito.

[ Pila di Volta versione moderna ]

LA RADIO DELLO ZIO

Dopo i mie primi passi con la radio del Nonno e dintorni, finito la terza media, scelsi di proseguire gli studi frequentando l'ITI (Perito Elettronico Industriale) presso l'Istituto Salesiano Don Bosco di Brescia e così passai molti mesi dei cinque anni lontano da casa. Potevo tornare solo quando le vacanze duravano due o più giorni, altrimenti sempre dentro il collegio dove però non mancava nulla per chi volesse dedicarsi allo studio.

Per rimanere nell'ambito dell'elettronica eravamo studenti fortunati, non solo per l'educazione Salesiana che ci veniva impartita, ma anche dal punto di vista tecnico avevamo a disposizione laboratori attrezzati con strumenti che per quei tempi erano davvero all'avanguardia.

Oscilloscopi e generatori di segnale della Telequipment e Tetronix in particolare ricordo un contatore (cronometro-frequenzimetro) con le NIXI e clock di riferimento con cella al cesio.

Anche gli Insegnanti erano molto preparati e gli appunti delle lezioni (allora obbligatori) davano come risultato dei quaderni manoscritti ma che a tutti gli effetti avevano il contenuto di un buon libro di testo. Li posseggo tutt'ora e quando li riguardo mi compiaccio di averli scritti; calligrafia decente e tratto ben marcato dell'allora famosa stilografica.

La nostra calcolatrice era il regolo con il quale si riusciva, dopo aver acquisito la giusta manualità e conoscenza del funzionamento, ad ottenere risultati con duo o tre decimali paragonabili tranquillamente a quelli della calcolatrice scientifica dei tempi nostri. Altra Foto

Ebbene è durante questi miei studi che ebbi modo di realizzare un trasmettitore FM a transistori con i famosi germanio AF116 e con diodo varicap BA102 modulato con un segnale di BF proveniente da un preamplificatore con AC126.

Lo terminai sul finire della scuola nel 1967, lo sistemai in una scatola di bachelite nera della Scuola Radio Elettra dove avevo pure fissato un'antenna a stilo e dentro assieme al circuito avevo messo due pile piatte in serie da 4,5V per avere i necessari 9V di alimentazione.

In estate, fin da bambino dopo i sei anni, finite le scuole partivo sull'alpeggio con mio padre e anch'io contribuivo nelle attività agro-pastorali, custodivo le mucche poi a nove anni mi insegnò a mungerle con il secchio tra le gambe seduto su una specie di sgabello di legno ad una sola gamba (in dialetto si chiama "scagn"), divenni a tutti gli effetti pastore d'estate e studente nel resto dell'anno. La valle del Livrio

In quell'anno assieme alla mia radio FM portatile a pile che portavo sempre a tracolla (lavori permettendo) un po' come oggi i giovani portano l'IPOD, mi portai sui monti in alpeggio anche il mio trasmettitore che non avevo mai provato su lunghe distanze.

In certi momenti quando il lavoro aumentava, per via dello sfalcio dei prati, saliva in alpeggio in aiuto anche lo zio Mario che di professione coltivava piante da frutto.

Quando arrivava aveva dentro lo zaino, oltre le poche cose personali, molta della sua frutta, pesche pere e mele. Non vi dico quanto erano, profumate, buone e gustose.

Bastava una pesca per rendere meno monotona la dieta del pastore contadino fatta di latticini, formaggio e qualche volta pasta o riso, altrimenti tanta polenta con il latte come si usava da noi.

Ma lo zio oltre questo si portava pure la sua radio, una Mivar molto più grande della mia portatile, davvero una bella radio per quei tempi, si sentiva bene e forte.

Quale miglior occasione per provare il mio trasmettitore.

La baita dove abitavamo era ubicata in un punto strategico dove, salendo sul tetto, si poteva scorgere l'unica mulattiera che solcava la valle, circa due chilometro in linea d'aria più in basso, unico punto in cui avrei potuto osservare il passaggio dello zio che mi avrebbe potuto segnalare a gesti se mi stava ascoltando nella sua radio.

Ebbi la certezza che la mia voce giungeva chiara sul suo ricevitore quando lui si spostava su mie precise indicazioni trasmesse con il mio primo trasmettitore FM.