La mèla ed altro

© by Vittorio Crapella - i2viu 

   Eravamo ragazzini che a fine maggio, ai primi di giugno, finita la scuola, si partiva per i maggenghi assieme ai genitori o con i nonni, servivamo forse a poco ma ci mettevano nel prato a custodire le mucche per tenerle nel pezzetto di prato che gli veniva assegnato mattino e sera. 

In tasca era consuetudine avere la roncola che chiamavamo la "mèla"

Per non perderla si praticava un foro nel legno dove non intralciava il passaggio della lama e poi si infilava uno spago sufficientemente robusto che veniva legato ad un passante per la cinta dei pantaloni.

Sarei curioso di vedere qualche ragazzino di adesso ingegnarsi a praticare il foro per questo spago,ovviamente qualcuno di grande deve pure aver fatto da maestro ma poi in pratica ognuno di noi ci si arrangiava da soli. 

Pur essendo piccoli, avevamo già molta confidenza anche con il fuoco del focolare dove si infilava un chiodo, tramite la tenaglia, nella brace infuocata e quando il chiodo diventava bello rovente lo si premeva , sempre tenendolo con la tenaglia, nel punto dove si voleva praticare il foro.

Senza la "mèla" era come essere senza una mano, quasi come oggi non avere sotto le dita il touch screen dell'iphone. Era il coltello del montanaro per tagliare il formaggio, il salame, o per affettare il pane raffermo nel "ciapel de legn" (scodella di legno) con dentro latte e caffè del pentolino, o se si era fortunati nel latte si metteva il cacao per colazione del mattino.

Ma la "mèla" serviva anche come passa tempo per sagomare un pezzo di legno, o per farsi un bastone. Nel bosco si trovava sempre una bella pianta giovane da tagliare, di nocciolo o di sorbo (chiamato "maligen") belli dritti e di diametro non eccessivamente grossi.

Per avere un bastone si tagliava la parte eccedente troppo sottile ed eventualmente anche quella eccessivamente grossa e si teneva all'incirca un pezzo della lunghezza che più che meno di un metro.

Sempre con la roncola si tagliavano gli eventuali rametti, si smussava bene il taglio delle estremità e poi a seconda dei gusti si poteva o lasciarlo con la corteccia o lo si scorticava, oppure si incideva la corteccia in modo che togliendo quella in eccesso rimanesse in rilievo la parte di corteccia che riproduceva il proprio nome.

In genere quello che si scorticava era quello di sorbo che riservava la sorpresa di avere delle venature longitudinali di colore rossastro, quasi a formare un ricamo.

C'era anche chi rifiniva con scritte o disegni il bastone utilizzando sempre un ferro rovente.

A proposito di  "mèla" mi ricordo un aneddoto di quando sui monti un giorno una coppia, marito e moglie, che arrivavano dal piano passarono dov'ero e pensando di farmi cosa gradita, dopo aver parlato del più e del meno, mi chiesero se volevo una mela. 

Al momento, abituato soltanto a polenta e latte e poco altro non pensavo minimamente a nessun frutto e anche la loro mela pensavo fosse solo un lieve differente modo di chiamare la mia "mèla" e risposi no grazie ce l'ho già.

La "mèla" serviva anche per sagomare i numeri, sempre di legno, da mettere sulle forme di formaggio appena deposto nelle "fascere" (dialetto fasaroi), così da comprimere il numero mediante lasse sovrapposta alla forma con il peso di un bel sasso pesante.

Sempre con la "mèla" si incideva il proprio nome o date sulle porte delle baite dei maggenghi, ecco degli esempi.

Si tagliavano pure dei pezzetti di legno tondi lunghi 5 o 6 centimetri e grossi come un pollice e ad una estremità , con la roncola, si praticava una tacca quasi a voler simulare le corna di una mucca e sul posteriore due tacchette per lato per immaginare con molta fantasia le mammelle. 

Quelli erano spesso gli unici giocattoli che potevamo sfoggiare là, su quei monti dove bastava poco per divertirsi nei momenti di libertà. 

Dico momenti perché in effetti si era sempre un po' impegnati o per custodire le mucche, o per andare con la gerla a raccogliere foglie nel bosco da usare come giaciglio nella stalla per le mucche, o andare nel bosco a cercare rami secchi per la legna da ardere nel camino, o ancora a far girare ritmicamente la manovella della zangola ("penac") per fare il burro, o a 9 / 10 anni pure mungere qualche mucca tenendo la "segia" (recipiente in legno) tra le gambe seduti sul "scagn" (sgabello di legno ad una gamba).

La sera, oltre la misera luce del fuoco del camino, o la lanterna a petrolio (già un passo verso il tecnologico) o ancora la "lum" proprio quella ancora con lo stoppino di cotone immerso nell'olio della piccola bacinella di ferro a forma di barchetta con il gancio per poterla appendere.

Era proprio il caso di dire "cena alla luce di candela", "ciapel" in mano con un po' di minestra di riso magari con dentro il latte e qualche erba di stagione tipo il "paru" (spinaci selvatici forse meglio chiamato orapi) o non ultimo ("cornagi") o foglie di ortica.

Una vita poco oltre quella vissuta nei secoli scorsi dai nostri avi, molto ancora vicina alle semplici cose della natura e comunque bastavano per essere liberi contenti e spensierati. 

Da quando il mio interesse passò dalla roncola al transistor, e feci la cronistoria del primo giorno di masticazione dell'alpe "Sasso Chiaro" con il trasmettitore radio che avevo appena costruito, ho fatto in tempo a vedere e forse pure a contribuire a cambiare radicalmente scombussolando questo mondo incantato per passare a quello tecnologico, sicuramente affascinante ma con tutte le conseguenze che si è portato dietro. 

La custodia delle mucche venne riservata ai recinti elettrici, la luce della lanterna ben presto divenne elettrica, il rumore delicato e frusciante della falce, mossa dalla mano abile del contadino, che taglia l'erba del prato presto lasciò il posto a quello assordante della motofalciatrice, alcune mulattiere divennero strade e anche il mulo con il suo basto per il trasporto delle merci lasciò il posto a trattori e fuoristrada e per i sentieri era più facile incontrare una moto da trial che un capriolo o un camoscio.

Bei ricordi dei tempi andati.