Non esiste un concetto preciso di salvezza che sia vincolante per la fede cristiana; non esiste cioè una definizione magisteriale, né tanto meno un dogma. E meno male, perché parafrasando quel che disse Che Guevara a proposito dell’impossibilità del pensiero critico in Unione Sovietica, potremmo dire che i dogmi della Chiesa sono dei mattoni che hanno l’inconveniente di non lasciarci pensare, dato che la Chiesa lo ha già fatto per noi, e noi possiamo e dobbiamo solo digerire quanto altri uomini hanno pre-masticato. Sulla salvezza, quindi, è lecito esprimere il proprio pensiero senza infrangere alcun divieto dogmatico.
Ora, per quanto si affermi che Dio resta tutt’oggi misterioso ed enigmatico, la prima cosa da dire è che la domanda su cosa sia la salvezza è chiara, mentre la risposta fornitaci dalla religione lo è molto meno. Inoltre questa domanda ci rinvia a un’altra più a monte: da dove la prima comunità cristiana, superando il trauma della morte brutale del suo maestro, ricavò la convinzione che, nonostante tutto, la croce fosse salvifica? In realtà per quasi duemila anni noi abbiamo privilegiato la formula paolina secondo la quale Gesù morì per la nostra salvezza, a causa dei nostri peccati (1Cor 15, 3); eppure, già leggendo gli Atti, appare abbastanza chiaro che, per Pietro, Gesù era morto perché così avevano voluto gli uomini di potere che egli contrastava (At 2, 22). Altre strade erano dunque possibili fin dall’inizio.
Perché allora ha prevalso l’interpretazione di Paolo? Semplice: all’epoca era inimmaginabile far accettare l’idea che il vero Dio fosse stato condannato alla crocifissione come un sovversivo, tant’è vero che si trovava in mezzo ad altri due terroristi (cfr. l’articolo La crocifissione al n. 499 di questo giornale, https://sites.google.com/site/liturgiadelquotidiano/numero-499---7-aprile-2019-1/numero-499---7-aprile-2019). Quindi Paolo ha dovuto spiegare l’inaccettabile: come mai questa nuova religione adorava un Dio crocifisso. E come ha risolto il problema? Ha fatto ricorso a tutta la teologia della sofferenza e dell’espiazione ben conosciuta dal giudaismo, perché per Paolo Dio resta il Dio dei propri padri, il quale ha deciso che suo Figlio venisse ucciso per la redenzione e la salvezza dei credenti. Che la teologia di Paolo sia dovuta partire dal Dio del Vecchio Testamento, visto che non aveva conosciuto il Gesù terreno e neanche i vangeli, sembra scontato. Paolo ha anche sostenuto che stava trasmettendo l’insegnamento che lui stesso aveva ricevuto (1Cor 15, 3) non dagli uomini (Gal 1, 11), ma direttamente da Dio, che gli aveva poi affidato l’incarico di annunciare la Parola di Cristo ai non ebrei (Gal 2, 7). Gli va dato atto di aver avuto un’intuizione geniale: è riuscito infatti a dare una griglia sistematica al cristianesimo, subito, sul suo nascere, quando di solito questo si riesce a fare solo in retrospettiva, a distanza di molto tempo, dopo aver a lungo masticato e ben digerito la materia (Gentile P.). Dunque, dal suo schema mentale concepito in maniera organica è partita la sua risposta sul perché Dio abbia dovuto farsi uomo: l’uomo ha peccato e Gesù è dovuto morire per i nostri peccati (1Cor 15, 3). Ecco allora il problema del peccato e della redenzione, il problema del sacrificio, il problema della espiazione e, in seguito, anche quello della soddisfazione. In tal modo la storia di Gesù è risultata credibile per molta gente che ha aderito a quello che si presentava come un progetto divino.
Va detto che per gli ebrei l’osservanza della legge era già salvifica. Per Paolo, invece, la legge non ha condotto l’uomo alla salvezza e non era in grado di farlo. Tutti gli uomini, pagani ed ebrei, sono peccatori (Rm 3, 9 e 20), e solo il Cristo crocifisso salva, senza la legge che non è in grado di condurre a Cristo, mentre il peccato può farci capire che abbiamo bisogno di aiuto (Gnilka J.).
Va però aggiunto che, mentre in Occidente ci salva la morte espiatoria con cui Gesù ha assunto tutte le nostre colpe, in Oriente era stata privilegiata l’incarnazione: avendo Dio assunto la nostra natura umana siamo salvati. O, come detto più recentemente da Papa Francesco nel discorso ai vescovi del 12.9.2019, Dio ci ama, si è fatto più vicino di quanto potessimo immaginare, prendendo la nostra carne per salvarci. Con ciò, il papa si è richiamato al documento sulla salvezza della Congregazione per la dottrina della Fede, la Lettera Placuit Deo (in https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2018/03/01/0160/00317.html), fine § 11) la cui domanda centrale è: da che cosa e come ci salva il cristianesimo? Premesso che tutti aspiriamo alla salvezza, e che non possiamo salvarci né attraverso il pelagianismo (con la sua pretesa che l’uomo riesca a salvarsi da sé, con le sue sole forze, senza riconoscersi dipendente da Dio), né attraverso lo gnosticismo (che segue un’ascesa spirituale individuale trascurando la carne da cui vorrebbe liberarsi, negando con ciò l’importanza dell’incarnazione - cfr. n. 486 di questa rivista, https://sites.google.com/site/liturgiadelquotidiano/numero-486---6-gennaio-2019/gnosticismo), la Congregazione spiega che «Cristo è Salvatore in quanto ha assunto la nostra umanità integrale e ha vissuto una vita umana piena, in comunione con il Padre e con i fratelli. La salvezza consiste allora nell’incorporarci a questa sua vita, ricevendo il suo Spirito (cfr. 1 Gv 4,13). Chiaro che con questa spiegazione anche il cattolicesimo si sta avvicinando alle idee degli ortodossi.
Ma proviamo ad approfondire il discorso restando nell’ambito dell’iniziale spiegazione cattolica: come può la morte di Gesù apportare salvezza a noi, uomini di oggi? Da cosa ci può salvare un uomo che, nell’Impero romano del primo secolo, morì inchiodato su una croce come un pericoloso sovversivo in base alle leggi vigenti a quel tempo? Come esposto nell’articolo La Crocifissione, sopra citato, chi moriva appeso al legno era, per la religione, maledetto da Dio, per cui in questa morte non poteva certamente vedersi nulla di sacro (a differenza di quanto hanno cercato di dimostrare nel corso dei secoli tante raffigurazioni della crocifissione): in effetti Gesù morì giustiziato lontano dal Tempio e dal suo altare sacro, fuori dello spazio consacrato, dove di sicuro non si celebravano culti cerimoniali, dove non c’era motivo che ci fossero sacerdoti, né incensi, né dignità sacre. Non può perciò assolutamente parlarsi di rituale sacrificio religioso, come ancora oggi si sostiene nella nostra messa, ma solo di profana uccisione (Castillo J.M.). O forse, come ha detto il vescovo Palmieri (Romena 14.7.2019), mentre sacro significa separato, riservato a pochi, con Gesù avviene esattamente l’opposto: è Dio che si fa vicinissimo raggiunge i maledetti, si fa maledetto anche lui, è appeso sulla croce per essere vicino agli ultimi, che sono tanti.
Teniamo poi presente che la tradizione ripeteva che il Messia non sarebbe mai morto; se Gesù era il Messia, com’era potuto morire in quel modo atroce, senza aver realizzato il suo progetto di liberazione integrale? Perché, ricordiamolo, la speranza messianica era la liberazione integrale e definitiva.
Come ben spiega il teologo spagnolo José Arregi, i primi cristiani furono allora costretti a guardare più a fondo nella vita di Gesù e giunsero alla conclusione che se Gesù sta in Dio, necessariamente continua a vivere, perché Dio è vita. I primi cristiani – non avendo ancora a disposizione i vangeli che sarebbero scritti grosso modo fra il 70 e il 100 d.C. - cominciarono rileggere più a fondo la Bibbia per cercare appoggio scritturale a ciò che intuivano, e trovarono tre figure per superare il trauma ed esprimere la loro fede, cioè tre figure capaci di dimostrare che non c’era incompatibilità fra siffatta morte e una presenza di Dio:
a) Il salmo 22 (il giusto sofferente) dimostra che l’innocente può soffrire, ma Dio resta al suo fianco. Perciò Dio poteva essere rimasto a fianco di Gesù, anche se era morto in croce.
b) Gli ebrei erano convinti che alla fine sarebbe arrivato un profeta e Dio l’avrebbe esaltato (glorificato) prima e dopo la sua morte. Gesù ben può essere stato questo profeta degli ultimi tempi, e con l’ascensione, ponendolo alla sua destra in cielo, Dio lo ha glorificato. Si pensava anche che, a breve, il mondo sarebbe finito e Gesù sarebbe ritornato, per cui si sarebbe realizzato il messianesimo che sembrava, al momento, in stand by. Ricordiamo che la parusia (il ritorno di Gesù sulla terra) era attesa a breve, nell’arco della stessa generazione ancora in vita in quel momento, ma ben presto ci si è accorti che le cose non erano proprio così: la imminente parusia della 1a lettera di Paolo ai Tessalonicesi, ad esempio, non è più tale già nella 2a lettera.
c) Il servo di Dio (Is 53, 11ss.), ferito, morente, fallito. La gente pensava fosse stato castigato, invece portava su di sé le nostre colpe. Anche Gesù sembrava castigato, ma con la sua morte ha portato su di sé le nostre colpe. Agganciandosi a questi filoni di pensiero, Paolo dice che Gesù ha espiato per noi, essendo la vittima propiziatoria dei nostri peccati. Da qui consegue che la sua morte era volontà di Dio. In altre parole, Gesù è il Figlio di Dio venuto al mondo perché così ha voluto il Padre, il quale ci ha mandato suo Figlio affinché mediante il dolore e il fallimento della sua passione e morte salvasse noi uomini, condannati alla perdizione eterna a causa dei nostri peccati (Rm 8, 3).
Questa spiegazione è stata fatta propria dalla Chiesa per secoli e secoli, forse proprio perché Paolo è stato il primo ad offrire una spiegazione organica e accettabile per l’epoca, e la sua teoria è stata poi rafforzata da sant’Agostino. Ma quanto spiegato da Paolo è oggi ancora accettabile? Possiamo ancora seguire questa sua ricostruzione? Cosa può oggi dirci la dottrina della salvezza universale di Cristo quando l’esperienza che aveva portato a quelle formulazioni passate oggi non viene più accettata dalle persone? In effetti, oggi, un Dio che sacrifica il proprio figlio innocente per riparare alle offese che gli uomini gli hanno fatto peccando, fa pensare a un Dio estremamente vendicativo, ma non certamente a un Dio misericordioso e amorevole. Oggi, è assurdo pensare che Dio diventi clemente versando il sangue di un innocente. La sofferenza vicaria che cancella le colpe ha dato per secoli un senso alla passione e morte di Gesù, altrimenti assurda; ma oggi l’idea secondo cui Dio ha bisogno della sofferenza e della morte per perdonare e salvare, è semplicemente ripugnante. Ha fatto correttamente notare il prof. Castillo che, se (secondo l’insegnamento della teologia cristiana) il peccato è ciò che ci separa da Dio e la liberazione dal peccato è ciò che ci avvicina a Dio, allora si arriva alla conclusione totalmente impressionante e spaventosa, secondo cui la condizione indispensabile per stare vicini a Dio è passare attraverso la sofferenza. Insomma, esiste un’associazione necessaria, un legame assoluto fra Dio e il dolore, e viene stabilita una relazione quasi necessaria fra purificazione e sangue. È vero: gli ebrei, col sangue (centro e fonte della vita), purificavano l’altare (Lv 8, 15; 16, 19), i sacerdoti (Lv 8, 24.30), i leviti (Nm 8, 15), il popolo peccatore (Dt 21, 8). Da ciò forse anche la formula paolina sconvolgente secondo cui: «senza spargimento di sangue non c’è perdono» (Eb 9,22). Ma come si inquadra tutto questo con l’odierno strombazzato amore di Dio?
Come ormai una buona parte di teologi (Castillo J.M., Arregi J., Maggi A.,) ha fatto notare, oggi occorre pensare a una trasposizione. Se oggi uno ci parla in cinese non lo capiamo, occorre tradurre. Forse anche il linguaggio della Chiesa del passato deve oggi essere tradotto altrimenti sembra cinese, e diventa un ostacolo al credere, perché un Dio violento e vendicativo che crea dolore e sofferenza non è più abbinabil né a una Buona Novella, né a un grande Amore.
Nietzsche era stato tra i primi a sostenere pubblicamente (nel suo libro L’Anticristo) che Paolo aveva completamente tradito il messaggio di Gesù. A suo giudizio, questo “pervertimento” degli autentici valori trasmessi dal Cristo si era concretizzato quando gli apostoli, scossi e attoniti di fronte alla morte inattesa e obbrobriosa del loro maestro, erano stati assaliti dal dubbio per cui avevano cercato di dare una risposta al vero enigma: “chi era costui? che significava tutto questo?”. Il sospetto che quella morte tremenda potesse costituire una confutazione della causa promossa da Gesù, accompagnato dal lancinante punto interrogativo del perché le cose fossero andate proprio in quel modo, avrebbe portato gli apostoli ad accantonare l’esempio di vita di Gesù (che oggi sta ritornando prepotentemente in auge nel cristianesimo) e a rispondere all’enigma della sua morte in termini di lotta. Gesù venne allora visto nella sua opera di rivolta nei confronti dell’ordine costituito e dei potenti, piuttosto che nella sua sconfinata mancanza di resistenza all’oppressione e al male. I discepoli di Gesù non essendo stati in grado di perdonare la sua morte assurda, finirono col far prevalere “proprio il sentimento meno evangelico, la vendetta”. Occorrevano quindi una “riparazione”, un giudizio”, una “ritorsione”. E venne allora a pennello la sistemazione teologica organica fornita da Paolo il quale, chiedendosi perché Dio avesse permesso tutto questo, rispose che essendo stato offeso aveva tutto il diritto di vendicarsi, e per questo aveva offerto suo figlio in sacrifico, come vittima. Da qui divenne di importanza determinante anche la dottrina della resurrezione e del giudizio universale, dell’immortalità della persona, concetti per Nietzsche completamente estranei alla predicazione di Gesù.
È indubbio che parlare oggi di salvezza ad un mondo che non pensa di averne bisogno, che non sente bisogno di salvezza, che accetta più facilmente il pensiero di Nietzsche è difficile, soprattutto quando si continuare a ripetere il pensiero di Paolo. In un mondo altalenante fra un irragionevole ottimismo e un catastrofico pessimismo (Curtaz P.), si è infatti ben lontani da quella cultura del passato espressa da Paolo. Del resto nessuno si veste come si vestivano i nostri antenati. Nessuno oggi in Italia accetterebbe l’idea di una gerarchia basata sulla superiorità del signore feudale, seguita da quella dei suoi vassalli, mettendo in basso, all’ultimo posto, i servi della gleba (magari costretti ad offrire la propria moglie al signorotto locale stante il suo diritto a trattenere presso di sé la donna sposata per la prima notte: jus primae noctis). E allora, sembra abbastanza evidente che oggi, pensando e progettando una vita diversa da quella di allora, non possiamo continuare a usare le stesse parole e gli stessi schemi mentali (anche religiosi) pensati in un lontano passato. Anche se quelle parole e quegli schemi sono andati bene per secoli, generazione dopo generazione, quelle spiegazioni oggi non lo sono più. E se le coordinate con cui ci rapportiamo alla vita sono cambiate, perché non dovrebbero esser lo stesso anche con quelle usate dalla Chiesa nei secoli passati? Per fare un facile esempio: si è visto nell’articolo L’Assunzione, al n. 517 di questo giornale (https://sites.google.com/site/ilgiornaledirodafa500/numero-517---11-agosto-2019/l-assunzione), come essendo cambiata la cosmologia è caduta anche l’idea che accettava come normale l’idea dell’ascesa in cielo. In passato si accettava anche che la vita sulla terra fosse una costante sofferenza in una valle di lacrime; oggi si vuole la felicità già in questa vita, senza aspettare il paradiso. Oggi si segue Freud, il quale ha sganciato la sessualità dalla necessità di riproduzione della specie; chiaro allora che le regole morali insegnate per secoli dalla Chiesa oggi non fanno più presa. Di più: oggi si vede come causa di scontro e violenza proprio la pretesa della Chiesa assestata sul livello della verità e oggettività assolute, mentre per secoli era normale pensare che il cristianesimo fosse non solo superiore a tutte le altre religioni del mondo, ma anche l’unica vera religione, mentre le altre venivano sminuite e disprezzate. Ma se Gesù accettò, senza problemi, tutte le persone di altre religioni con le quali s’incontrò, senza imporre loro di cambiare Credo (almeno stando ai vangeli), questo vuol dire che Gesù era convinto che in qualunque religione si trova la salvezza. Vale a dire: sono molte le religioni vere come detto nell’articolo al n. 514 di questo giornale (https://sites.google.com/site/ilgiornaledirodafa500/numero-514---21-luglio-2019/se-gesu-e-l-unico-mediatore-il-dialogo-e-impossibile). O come più recentemente ha detto il maestro spirituale indiano Sri Chinmoy “La vera religione ha una qualità universale. Essa non trova difetti nelle altre religioni. [... ] Il perdono, la compassione, la tolleranza, la fratellanza e il sentimento di unità sono i segni di una vera religione.” E questo è proprio quello che ha insegnato Gesù con la sua vita.
Oggi la cultura dà ampio spazio al soggetto singolo, alla sfera emotiva, alla relazione, perché nell’era della tecnica la realtà non è più vista come un insieme di cose fisse e immutabili; ma se manca la stabilità e tutto diventa relativo, tutto deve essere concepito nell’ottica della relazione. Si rifiuta, allora, la pretesa della Chiesa di diffondere la sua vecchia verità assoluta ma immutabile. Per questo, anche la parola stabile della verità assoluta ha perso charme, e visto che il cristianesimo non porta felicità in terra, gli uomini hanno imparato a vivere non contro Dio, ma senza Dio (Matteo A.); meglio sarebbe dire: senza Chiesa, accantonando i suoi modelli morali, basati sull’etica del sacrificio e della sofferenza. E la Chiesa cosa ha fatto per reagire? Facendo fatica a stare al passo con questi mutamenti epocali (che fra l’altro fanno sorgere nuove domande), nel migliore dei casi ha cercato di trattare le altre religioni con più educazione, ma non ha ancora colto il profondo cambiamento socio-culturale attorno a sé, visto che la società non è uno schema ideologico definito per sempre come continua a pensare gran parte del magistero. Forse per questo fa ancora l’errore di rispondere alle sfide di oggi con le strategie di ieri. Ma già Gesù aveva detto che simile condotta è temeraria ed espone al fallimento, alla frustrazione e alla derisione (Lc 14, 28-30): occorre allora mettersi prima a tavolino e riflettere sulle nuove domande che c’interpellano che implicano opportunità e rischi, e sulle esigenze concrete che oggi comporta la sequela di Gesù. Ecco perché è un grave errore anche voler soffocare il dialogo e impedire il dibattito all’interno della Chiesa (Pagola J.A.).
In effetti, credo sia una realtà davanti agli occhi di tutti che tante coordinate teologiche del passato, seppur utilizzate per due millenni, oggi non si accettano più:
(a) perché parlare di Dio in chiave espiatoria ricorda la schiavitù. Questo poteva andar bene al tempo dei servi della gleba, quando tuta la società – Chiesa compresa, - accettava quella situazione come normale. Come ha detto non ricordo quale filosofo, occorre prima arrivar a prendere coscienza della propria condizione di servitù, e solo dopo si può creare una spinta verso l’attuazione della libertà e delle uguaglianze. In Europa ci abbiamo messo secoli per raggiungere questi valori che oggi condividiamo, e proprio in base a questi valori oggi non possiamo più accettare quel Dio del passato, tanto più quando contraddittoriamente ci viene poi detto che il Dio dei vangeli è il Dio della libertà, non della schiavitù.
(b) perché esacerba la colpa: tutti siamo colpevoli, anche i neonati. L’equazione colpa-castigo-espiazione poteva andar bene nel medioevo, quando si pagava in base al grado dell’offeso, e Dio era visto come il signore feudale che stava nel suo castello.
Ricordate sant’Anselmo e la sua teoria della soddisfazione? Se non la ricordate ne parleremo presto.
(c) La salvezza è stata necessariamente collegata alla sofferenza.
(d) Per come ci è stato insegnato, la salvezza è vista in prospettiva futura, dopo morti. Ma noi viviamo qui, su questa terra, e abbiamo bisogno di salvezza già qui, in questo mondo. Oggi si vuole tutto e subito, e poiché la dottrina sempre uguale insegnata dalla Chiesa sembra nemica della felicità dell’uomo, la si rifiuta.
Che la salvezza non sia solo quella escatologica (da logos = discorso, e éschaton = sulla realtà ultima, cioè lo stato finale e definitivo del singolo, dell’umanità e dell’universo) trova supporto nel fatto che, se leggiamo i sinottici, quando ci parlano di salvezza si riferiscono proprio a situazioni di sofferenza e di minaccia per questa vita terrena. Utilizzando il verbo salvare i vangeli si riferiscono, ad esempio, alla cura degli infermi come salvezza. Una salvezza che, a quanto indicano i testi, si attribuisce alla fede dell’essere umano: «la tua fede ti ha salvato» (Mc 10, 52; Lc 7, 50; 8, 48; 17, 19; 18, 42). Si tratta di una salvezza integrale, che sana il corpo e anche la dignità della persona, com’è il caso di Zaccheo: «Oggi è arrivata la salvezza in questa casa» (Lc 19, 9) (Castillo J.M.). Oggi, su questa terra, sta dicendo Gesù. Non si può allora più pensare alla sola salvezza nella prossima vita, quando il vangelo parla di salvezza già per oggi.
Va anche sottolineato che, in tutte queste situazioni, nei vangeli non si fa menzione di intervento divino, bensì si parla di decisioni umane, e quando i testi parlano di Gesù, si riferiscono a un uomo. E, in un modo o nell’altro, l’effetto della salvezza è che le persone si sentono subito meglio, nel proprio corpo e nel proprio spirito. Questo significa che il contributo del Salvatore consiste nel fatto che libera dalla paura e porta in questo mondo la Buona Notizia, una grande gioia per tutto il popolo (Lc 2, 10). Se spogliamo il racconto dei pastori di Betlemme dai suoi contenuti teologici posteriori, ciò che rimane è che un bebè appena nato, nell’emarginazione di una stalla e di una mangiatoia, vale a dire, nel minimamente umano, è sufficiente per apportare salvezza, liberando dalla paura e producendo la più grande gioia in questo mondo. E sempre stando ai vangeli, Gesù accoglieva e dava vita e salvezza a tutti, specialmente ai più disgraziati, ai peccatori e agli esclusi. Invece, con la dottrina insegnataci, il centro della vita dei cristiani si è spostato da Gesù, salvatore per come egli è vissuto, alla salvezza futura (Castillo J.M.): sarà Dio a salvarci nell’aldilà, in un lontano futuro, ma salverà soltanto coloro che gli si sottomettono qui sulla terra, e, comunque, solo coloro che hanno avuto la fortuna di nascere, venir educati, crescere e vivere in ambiente cattolico, sotto l’ala protettrice di santa romana Chiesa (“fuori della Chiesa non c’è salvezza”: cfr. l’articolo Extra Ecclesiam nulla salus. O anche no, al n. 475 di questo giornale, https://sites.google.com/site/ultimotrimestre2018rodafa/numero-475---21-ottobre-2018/extra-ecclesiam-nulla-salus-o-anche-no). Dunque da qui derivava anche quest’altra conseguenza fondamentale: per assicurare la salvezza la Chiesa ha insegnato che è assolutamente necessario accettare la sua retta dottrina, sottomettersi ai suoi pastori e osservare determinate norme e rituali. Tutte cose mai dette da Gesù. Anzi, si tratta di una degenerazione delle parole di Gesù, perché l’adesione originale a Gesù era stata solo motivo e spazio d’incontro fra esseri umani (cfr. l’articolo Gesù serve a unire o a dividere, al n. 458 di questo giornale, https://sites.google.com/site/numerigiugnoluglio2018/numero-458---24-giugno-2018/gesu-serve-a-unire-o-a-dividere), mai di separazione ed esclusione.
Infine, e forse questo è il punto più importante, ci si è dimenticati del tutto della storia di Gesù. Nello stesso Credo non si dice nulla della sua storia, tranne che è nato e che è morto. Allora la vita di Gesù è irrilevante? Il fatto che sia vissuto in un certo modo, che abbia condiviso la tavola con tutte le categorie di persone, che abbia guarito tante persone resta del tutto indifferente e insignificante? Se però crediamo che le vere ragioni della morte di Gesù abbiano a che vedere col modo in cui egli ha vissuto la sua vita, fermarsi alla nascita-morte non è più accettabile. Oggi è accettabile dire che Gesù ha mostrato, con la sua vita, un percorso, ma non che ha pagato i debiti altrui perché i debiti vanno pagati da chi li ha contratti. Non ha potuto cancellare le colpe degli uomini perché non era nella sua possibilità convertirsi in loro vece (Ortensio da Spinetoli).
Di più: come ha giustamente osservato il teologo Lenaers Roger, non è stata la morte a dare la vita eterna a Gesù, ma la sua scelta in vita di comunicare la buona notizia che Dio è amore: l'amore per gli esseri umani gli ha dato compiutezza. Quindi non ogni chicco di grano si trasforma: dipende da quanto amore uno ha riservato agli altri. Altrimenti i nostri salvatori sarebbero i carnefici di Gesù, e ogni assassino fornirebbe all'assassinato un servigio incalcolabile.
Oggi, noi pretendiamo salvezza per oggi. Cosa significa? Dice sempre il teologo Arregi che abbiamo ormai sperimentato che è possibile vivere in un mondo diverso, che si può vivere nell’amore reciproco, che gli emarginati possono partecipare a pieno titolo insieme agli altri, che tutti gli uomini possono essere commensali della stessa tavola, che – come ricordava san Francesco d’Assisi,- dobbiamo vivere come veri fratelli, ma soprattutto che l’ultima parola non sarà Giustizia (il che ricorda un’arida sentenza di tribunale di condanna o assoluzione), ma Misericordia. Siamo salvi già qui se siamo capaci di vivere con questa fiducia, nella convinzione che nella sua radice il mondo è già così, fraterno e solidale. Gesù ci ha mostrato che è possibile mettere in pratica, nella nostra vita terrena, bontà, accoglienza, convivialità, amore. In questo senso la vita di Gesù è stata creatrice, è stata una manifestazione della creatività salvatrice della vita. È la vita intera di Gesù che ci porta salvezza, non la sola croce. Anche se poi la morte di Gesù ci conferma che è morto per essere rimasto coerente, solidale e in pace con tutti. Salvezza in questo mondo significa allora salute, vita piena (Gv 10,10: «sono venuto perché abbiano la vita in pienezza»), se solo siamo capaci di seguire il suo modo di vivere, che consisteva nell’incontrare e donarsi gli altri, non nell’accumulare ricchezze, non nell’obbedire a dogmi..
In che nuovi termini si può allora parlare oggi di salvezza, staccandoci dalle vetuste categorie di vittima, sacrificio, peccato, morto per noi a causa dei nostri peccati? Sempre il teologo Arregi suggerisce di usare tre termini:
1) Solidarietà, in sostituzione di sacrificio. La solidarietà mette terra ferma sotto i piedi di colui che sente sfaldarsi sotto di lui il terreno del suo futuro. Quella di Gesù fu esemplare, e va ricordato che anche la solidarietà di ogni singola persona apporta salvezza a un altro, immediatamente e non nella prossima vita.
2) Libertà, in sostituzione di redenzione, ricordando che proprio Gesù ci ha invitato a giudicare da noi stessi, senza ricorrere all’autorità di altri (Lc 12, 57). Ma va aggiunto che solo la nostra tolleranza completa la libertà, e la tolleranza in Europa è emersa piuttosto tardi, come salutare reazione alle numerose guerre di religione imposte da implacabili credenti fondamentalisti che si vedevano come gli unici veri cristiani, e che una volta preso possesso delle istituzioni negavano ogni spazio alla critica: quando finalmente la povera gente, stufa di ammazzarsi in nome dello stesso Dio, accettò di relativizzare le rispettive Verità, si cominciò a vivere meglio (Romano S., Radici cristiane dell’Europa, Erasmo e la Chiesa romana, “Corriere della sera”, 19.6.2013, 41).
3) Ci salva, infine, anche la pace di Gesù. Vivere in pace, convivere come fratelli, senza scontri e senza lotte, è salvezza immediata, perché salvezza è pienezza di armonia. E tutte queste cose si sono viste nella vita di Gesù, in cui si è rivelato (almeno parzialmente) il mistero di Dio.
Dunque si può dire che Gesù ci salva non perché ha offerto a Dio una riparazione del peccato al posto degli uomini, ma perché ha offerto, da parte di Dio, a tutti gli uomini (anche se tutti peccatori) la forza dello Spirito, che purifica e rinnova (Molari C., Quei tanti Gesù. Approcci recenti in cristologia e soteriologia, in internet, in più siti, basti digitare “CM approcci recenti”).
Si può dire anche di più: Gesù ci salva perfino dalla stessa religione, quando ci allontana dal potere e dall’onore, intese come forze che generano violenza e causa di sofferenza. Per circa 1700 anni, infatti, la Chiesa – in contraddizione con quanto insegnava Vangelo - si è perfettamente integrata col potere, con la ricchezza e con l’onore derivante dall’autorità, e la cosa più stupefacente per chi guarda dall’esterno è che si può ancora vivere d’accordo con la Chiesa e in disaccordo con il Vangelo, in maniera da far sembrare che entrambe le cose siano perfettamente compatibili, al punto farle sembrare come una cosa normale (Castillo J.M.). È sotto gli occhi di tutti che, dopo il concilio Vaticano II, questa idea di Chiesa si sta finalmente sgretolando; sta morendo, e Papa Francesco ci fa già intravvedere una resurrezione: il ritorno al Vangelo. Eppure ci sono ancora tanti alti prelati e tanti pii credenti che con un incredibile accanimento terapeutico cercano di mantenere in vita questa vecchia Chiesa radicata nel potere, nella ricchezza, nella dignità del clero e nell’onore, mentre altri cercano di accompagnarla serenamente alla sua morte naturale. Da qui il contrasto a volte anche aspro fra le due anime del cattolicesimo: quella conservatrice e quella progressista.
Tanti cattolici sembrano angosciati dalla continua emorragia di credenti, di vocazioni, da questo papa che sta rivoltando la Chiesa cattolica: ma perché temere? A sparire non sarà mai la Chiesa povera e libera, capace di riflettere l’amore sconfinato di Dio e di farsi carico delle persone, accompagnandole come il buon samaritano (Spadaro A., Intervista a Papa Francesco, “La Civiltà Cattolica” n. 3918/2013, 462), mentre nessuno si lamenterà se sparirà la Chiesa abbagliata da sogni di potenza e di gloria, la Chiesa maestra bacchettona di morale, la Chiesa che anziché cercare la pecorella smarrita fa di tutto per perdere gran parte delle altre 99, la Chiesa che per essere fedele all’ortodossia, o tranquilla nella sua ricchezza, è incapace di ascolto, è incapace di misericordia.
Dario Culot