Ascendi Hierosolymam videre Cepham, ovvero del papa amico

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Siamo sinceri, si preferirebbe che il Papa mai avesse pronunciato queste testuali parole, riportate da Civiltà Cattolica: «Il ministero inteso non come servizio, ma come «promozione» all’altare, è frutto di una mentalità clericale. Mi viene in mente un esempio estremo. Diacono significa «servo». Ma, in alcuni casi, il clericalismo tocca paradossalmente proprio i «servi», i diaconi. Quando dimenticano di essere i custodi del servizio, allora emerge il desiderio di clericalizzarsi e di essere «promossi» all’altare.

Il clericalismo ha come diretta conseguenza la rigidità. Non avete mai visto giovani sacerdoti tutti rigidi in tonaca nera e cappello a forma del pianeta Saturno in testa? Ecco, dietro a tutto il rigido clericalismo ci sono seri problemi. Ho dovuto intervenire di recente in tre diocesi per problemi che poi si esprimevano in queste forme di rigidità che nascondevano squilibri e problemi morali.

Una delle dimensioni del clericalismo è la fissazione morale esclusiva sul sesto comandamento. Una volta un gesuita, un grande gesuita, mi disse di stare attento nel dare l’assoluzione, perché i peccati più gravi sono quelli che hanno una maggiore «angelicità»: orgoglio, arroganza, dominio… E i meno gravi sono quelli che hanno minore angelicità, quali la gola e la lussuria. Ci si concentra sul sesso e poi non si dà peso all’ingiustizia sociale, alla calunnia, ai pettegolezzi, alle menzogne. La Chiesa oggi ha bisogno di una profonda conversione su questo punto.» (cfr. https://www.laciviltacattolica.it/articolo/la-sovranita-del-popolo-di-dio/).

Le reazioni sconfortate – bisognerebbe specificare meglio “alcune”, ma generalizziamo provocatoriamente (la provocazione è tecnica ermeneutica molto di moda, assai applaudita) –  conducono all’ansia di dirottare subito discussione e analisi su altro, su altri: i laici clericalizzati (ma se sono clericalizzati, vuol dire che proprio l’interpretazione della condizione clericale, non laicale, ha fatto loro deviare la visione ecclesiale); la scristianizzazione della società; la fulgida testimonianza contro i pagani dell’abito clericale in tutte le sue legittime varianti – ed il saturno è del tutto legittimo -; la necessità di non relativizzare i peccati sessuali; il terror panico che ora ciò possa avvenire a seguito della riflessione papale. Reazioni sostanzialmente non dissimili da quelle, a tratti addirittura scandalizzate, concretizzatesi davanti alle conclusioni di Amoris laetitia, secondo cui una coppia, non unita in matrimonio sacramentale, anzi addirittura proveniente da matrimoni sacramentali contratti con altri e altre, può legittimamente – secondo la legittimità della morale cattolica - non vivere soltanto come fratello e sorella, bensì avere una pienezza sessuale di relazioni.

L’anticlericalismo papale – proprio nella versione, sia permesso dir così, “antisaturniana” o “ansitaturnista” – getta nelle sconforto, allo stesso tempo, i devoti sempre plaudenti, che ritengono necessaria l’abolizione di ogni pensiero critico intorno al pontificato di Francesco e gli anticlericali antipapali, che ritengono lo stile pontificale dell’attuale Vescovo di Roma assolutamente inefficace quanto ad effettiva capacità riformatrice ed innovatrice riducendolo ad una pura faccenda d’immagine di cui nessuno s’accorge se non appunto l’anticlericalismo antipapale.

Fermiamo un attimo la corsa verso la concitazione emotiva.

Riflette il teologo don Luigi Schiavo (in Cristianesimi originari. Lettura interculturale delle origini cristiane, San Paolo 2019, pp. 188-189): «(…) imperializzazione del cristianesimo o cristianizzazione dell’Impero romano? Nonostante il cambiamento, le strutture che governavano l’immaginario collettivo rimasero le stesse, perché l’imperatore divinizzato fu semplicemente sostituito dal Gesù divinizzato. Non è stato un piccolo cambio, poiché ha portato alla fine delle persecuzioni e al riconoscimento ufficiale della chiesa, che poco a poco ha preso il posto della religione ufficiale. Tuttavia, la struttura classificatoria e di potere è rimasta la medesima ed è stata assimilata dal nuovo gruppo religioso come garanzia di un potere che continuò ad essere patriarcale, assoluto e totalizzante. Nel corso dei secoli, la chiesa ha, poco a poco, sostituito l’Impero, fino a divenire essa stessa Impero, sia politicamente che ideologicamente, proponendosi come unica e universale via di salvezza per l’umanità. Gli imperatori cattolici sostituirono gli imperatori romani, identificandosi con le immagini del Cristo Pantocratore, signore del cielo e della terra; e lo stesso capo della chiesa, il papa, unico erede del potere imperiale di Roma, riunirà nella sua persona il potere religioso e il potere politico, in una pericolosa giunzione tra assolutismo e dogmatismo. Il potere dell’immaginario romano non decostruito sta ora al servizio della legittimazione del potere della chiesa: in realtà, è sempre lo stesso potere. Il potere autoreferenziale ratifica e rivalida se stesso, facendo appello al divino per la sua legittimazione (…). Un cambio di concezione, se così si può definire, avviene solo con il concilio Vaticano II, dove la chiesa prende coscienza di quanto pericoloso sia il connubio tra poteri e intraprende, non senza difficoltà, un cammino di emancipazione.»

La commistione tra potere religioso e potere non religioso non afferisce solo alla dimensione pubblica, politica, ma anche – lo sosteniamo tuttavia senza esperienza scientifica nel campo, solo in base all’esperienza effettivamente vissuta – a quella psichica. Ad esempio, gli amanti esercitano quasi sempre un potere reciproco, o un potere soverchiante di uno dei due, anche senza accorgersene, e dunque, anche in un tale laicissimo ed intimissimo contesto, il pericolo clericale è in costante agguato, laddove l’amore convoca istanze non solo naturali ma di evidente ulteriorità. Eppure la coltivazione di questa “ulteriorità amorosa” in spazi separati, propri, che preservino la contaminazione dei due poteri, religioso e non religioso, non riesce a relativizzare se stessa; avverte che il mondo è ben altro dalla propria dualità di coppia, ma il richiamo del potere, appunto, è troppo forte, troppo attraente, come una calamita; esercitare potere sull’altro, sull’altra, appare troppo interessante per la nostra psiche, anche se il mondo – l’alterità tutta – attende e preme fuori.

Ecco, le parole “antisaturniste” del Papa destrutturano esattamente questa congiunzione dei due poteri. La destrutturano pure al solo accedere, quando è possibile, alla sua figura biancovestita sorridente e del tutto avulsa rispetto al barocchismo protocollare di Curia.

Che significa?

Giovedì 19 settembre ho sentito il Papa prendere le mie mani tra le sue, nella Sala Clementina, in occasione dell’udienza concessa ai partecipanti al Convegno romano della Society for the Law of the Eastern Churches. È necessario che le parole scambiate, tra me e lui, restino custodite in cuore e in mente, ma quel gesto ben fisico è gesto di prossimità non clericale, di accoglienza, di amicizia, di intesa per nulla complice (i due poteri) bensì vigile, autorevole perché capace di discernimento e però rispettosa, nel profondo, di ogni storia, di ogni percorso, di ogni provenienza, di ogni linguaggio, di ogni sensibilità.

Francesco dà enorme fastidio. Si è sottovalutata a lungo – non senza qualche responsabilità - la furia oppositiva dei settori più tradizionalisti di Chiesa, da decenni prodigatisi nel cercare di seppellire il Vaticano II, ritenuto semplicemente l’ultimo dei 21 concili ecumenici.

Il Convegno “Fare memoria: l’amore, la legge”, che si svolgerà da giovedì 10 ottobre a sabato 12 a Trieste – con il programma che compare sulla copertina dell’odierno numero di questo nostro giornale –, intende, in tutta modestia beninteso, diseppellire quel Concilio guardando al prisma antropologico, non solo ecclesiale e non certo solo cattolico, che il fastidio verso Francesco fa baluginare di colori diversi.

Che dialettica mai può esistere tra l’amore e la legge? Quando si ama si inizia forse ad essere normativi?

E la memoria dell’amore che cos’è? Dove porta? Fa bene o fa male?

“La fissazione morale esclusiva sul sesto comandamento”, di cui parla il Vescovo di Roma, è appannaggio di un’intera cultura che ha reso il sesso scriminante del vero amore: se c’è, è amore e pertanto deve assolutamente esserci – quasi un obbligo coattivo -, in una specie di recinto sacro (il potere religioso) dove nessuno può entrare; se non c’è, è amore depotenziato, come se l’assenza del sesso decidesse di una specie di subordinazione gerarchica degli affetti. Siamo tutti fissati sul sesto comandamento, riconosciamolo. Il sesso come linguaggio, anche onirico, come gioco, come progetto che sta dentro altri progetti e non fuori, non appartiene alla nostra cultura fosse pure completamente laica.

Esiste un sesso, una sessualità, che non sta dentro i decaloghi perché anzi ne è il presupposto, la fonte. Il sesso come fonte normativa non giuridica, e neppure solo etica, come una dimensione del dover essere che struttura la mia stessa esistenza nella sua complessità e che abbisogna di destrutturazione per ridiventare povero, semplice, immediato ma non irresponsabile, rispettoso, lieve, dolce, tenero e non abusante.

Nel brano evangelico della liturgia romana di oggi, secondo Luca, Lazzaro “bramava di sfamarsi”: Lazzaro dunque non è un eroe virtuoso, vuole mangiare, non resiste più a patire la fame con spasmi, desideri, brame che lo portano alla morte. Invece di pane riceve leccate di cani. “Erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe.” Quali piaghe? Il testo non riporta che fosse malato, che avesse ferite fisiche. “Ulcera eius” dice la versione in latino. Quali ulcere? Sono le ferite di un desiderio struggente, insostenibile, pauroso e non soddisfatto.

Rodafà, nel passato, ha provato a sostenere che il vero amore è quello per chi ama qualcun altro che non sono io e che, tuttavia, accorgendosi di questa mia modalità assurda d’amore (“mia” per modo retorico di dire, beninteso) inizia ad amarmi e mi ama. Una reciprocità non clericale, nessun “do ut des”, bensì un giro ampio, il riconoscimento di un desiderio profondo, l’inserimento – come che sia, puro ma anche scandaloso – in una storia d’amore senza profanarla.

L’amicizia ha una propria memoria che la legge spesso ha desiderato cancellare. L’anticlericalismo papale la mette al centro, della storia della Chiesa ma anche della storia della nostra cultura, pubblica e privata.

Buona domenica.

 

Stefano Sodaro