Divorziati ed eucaristia

Carsismo - foto tratta da commons.wikimedia.org

Il cardinale australiano Pell ha detto: «qualcuno potrebbe desiderare che Gesù fosse stato un po’ più morbido sul divorzio, ma non è stato, ed io resto fedele a lui» (Maniaci C., Il Sinodo che ci raccontano e quello reale, “Libero”, 10.12.2014, 12). ‘Peccato’ che Gesù non abbia mai parlato di divorzio, ma solo di ripudio unitalerale e discrezionale da parte del maschio (Mt 19 3; Mc  10, 2; Lc 16, 18). Passare dal ripudio al divorzio è chiaramente un’interpretazione del magistero, per cui sembra che il cardinale resti fedele all’interpretazione del magistero più che a quanto detto da Gesù.

Visto poi che nel Vangelo Gesù insegna ad accogliere senza alcun pregiudizio lo straniero (Mt 25, 35: “ero forestiero e mi avete accolto”), strano che su questo punto letteralmente chiarissimo e sul quale Gesù non è stato affatto morbido, molti - anche fra i presbiteri -, non restino fedeli a Gesù, tant’è che criticano Papa Francesco che resta fedele a lui. Sarebbe interessante sapere come si è espresso sul punto il cardinale Pell, visto che l’Australia normalmente incarcera gli immigranti irregolari[1] [1].

Anche il cardinale Caffarra, un’autorità sui temi morali già dal pontificato di Giovanni Paolo II, opponendosi alla proposta del collega cardinale Kasper, aveva sottolineato che nemmeno i pontefici possono sciogliere il vincolo del primo matrimonio, quindi la Chiesa non può riconoscere un secondo matrimonio, né di diritto, né di fatto, come prospettava Kasper con l'ammissione all’eucarestia dei divorziati risposati.

Se questa verità non può nemmeno essere messa in discussione fra i credenti, non è possibile nemmeno mutare la disciplina relativa all'accesso all'eucaristia (Socci A., Il Sinodo sulla famiglia non potrà dare la comunione ai divorziati risposati, in http://www.bastabugie.it/it/ n.370 del 10.10.2014). Ma come mai allora, gli ortodossi ammettono il secondo matrimonio, utilizzando lo stesso nostro Vangelo? È sempre una questione di interpretazione.

La spiegazione a sostegno dell’insegnamento tradizionalista cattolico (cfr. ad es. monsignor Melina Livio, preside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per gli studi sul matrimonio e sulla famiglia, a “Famiglia Cristiana” n.28/2011, 40), secondo cui Gesù è al tempo stesso misericordia, ma anche verità, e «soltanto se misericordia e verità vengono colti e insieme nella loro profonda radice unificata in Gesù Cristo può essere indicato un cammino di salvezza», non mi sembra molto convincente. Innanzitutto, avete capito cosa voleva dire? Io, non proprio. Intuisco però che questo monsignore ha colto la verità, e quindi sa di possederla.

Assai più sbrigativamente la dottrina tradizionale più conforme all’ortodossia parla di “impedimento oggettivo” (quotidiano Avvenire 7.6.2010), in quanto il divorziato risposato che va a letto col nuovo partner persevera nel peccato, e chi è in peccato non può accostarsi a Dio, perché Dio odia i peccatori (Sir 12, 6). Di più, Dio ha detto: “Punirò in voi tutte le vostre iniquità” (Am 3, 2), “Vi ho anche rifiutato la pioggia quando mancavano ancora tre mesi alla mietitura, ho fatto piovere sopra a una città e non ho fatto piovere sull’altra” (Am 4,7). Ma se effettivamente il profeta Amos aveva presentato un Dio che rifiuta la pioggia al popolo infedele e peccatore, Gesù mostra al contrario un Padre che non si lascia condizionare nel suo amore dal comportamento degli uomini, e continua a comunicarlo a tutti, esattamente come l’azione della pioggia e del sole feconda e produce vita per tutti. Dio, come il sole e la pioggia, non distingue fra buoni e cattivi, fra i ‘suoi’ e gli ‘altri’. Non occorre essere buoni per ricevere l’amore di Dio; sarà al più l’amore che si riceve a renderci buoni. Infatti Matteo (Mt. 5,45) ci presenta, attraverso Gesù, un Dio misericordioso, che fa sorgere il sole sopra i malvagi e sopra i buoni, che fa piovere allo stesso modo sui giusti e sugli ingiusti. E Luca (Lc 6, 35) conferma che Iddio, Padre di tutti gli uomini, è buono verso gli ingrati e i malvagi. Ma come, allora non odia i peccatori, come i divorziati? Secondo Gesù, no. Si è già detto nell’articolo Legare e sciogliere del mese scorso (https://sites.google.com/site/ilgiornaledirodafa500/numero-523---22-settembre-2019/legare-e-sciogliere) che Gesù s’interessa poco dei peccati. Il peccato interessa alla Chiesa, perché  il problema del peccato, del male, si affronta dall’alto e viene gestito mediante l’autorità. A Gesù interessa invece la sofferenza delle persone. E il problema della sofferenza si tratta alla pari e viene gestito mediante la misericordia (Castillo J.M., Vittime del peccato, ed. Fazi, Roma, 2012, 139 e 130).

Il magistero della Chiesa, dunque, segue la Bibbia, non il Vangelo. Ecco perché il divorziato risposato è un emarginato per la Chiesa cattolica, perché il peccatore non può essere amato da Dio.

L’eucarestia, in particolare, dovrebbe essere l’atto di convivialità che sta sopra i tradimenti, gli abbandoni e gli atti di codardia. Non si tratta quindi di escludere dall’eucarestia i codardi o i traditori: Gesù infatti non li ha esclusi. Giuda ha intinto il pane nello stesso piatto in cui lo ha intinto Gesù (Gv 13, 26). E pur prevedendo Gesù di essere rinnegato e abbandonato da Pietro, ha mantenuto confidenze di amicizia e fiducia (Gv 13, 23-26). Al contrario di Gesù, che non ha mai imposto alcuna esclusione, da noi, la messa è attualmente organizzata in modo tale a escludere coloro che non coincidono con le norme ecclesiastiche. Proprio il non aver escluso nessuno, spiega perché Gesù ha rispettato tutti allo stesso modo, fino al punto che, nel suo gruppo ristretto e dopo anni di convivenza, a nessuno dei presenti poteva passare per la testa che qualcuno di essi avrebbe tradito il Maestro (Gv 13, 22); se Gesù avesse trattato Giuda in maniera diversa dagli altri (come la Chiesa tratta i divorziati), tutti avrebbero capito che era lui il traditore. E perché questo rispetto e trattamento delicato e tollerante verso tutti? Per una ragione molto semplice: la convivialità umana, la condivisione della stessa mensa (la comunione) non è possibile dove ci sono esclusioni, declassamenti, minacce, approvazioni o altri comportamenti analoghi. Questo è il proprium costitutivo dell’esperienza della convivialità umana che è essenziale nell’eucarestia (Castillo J.M.).

Ai tempi di Gesù, l’emarginazione religiosa non riguardava solo la lontananza dal resto della comunità (il lebbroso doveva tenersi lontano dai centri abitati e quando scorgeva una persona doveva gridare: “Impuro! Impuro!” - Lv 13, 45-46), ma significava soprattutto non potersi rivolgere a Dio, perché, essendo Dio il puro per eccellenza, il Puro non ascoltava gl’impuri. Allora? L’unico che poteva aiutare il lebbroso sarebbe stato Dio, ma il lebbroso non poteva rivolgersi a Dio, perché Dio non ascoltava gli impuri peccatori. In effetti, la lebbra non era all’epoca considerata una malattia infettiva, ma una punizione di Dio per i peccati dell’uomo. Nell’Antico Testamento, quando Maria, l’ambiziosa sorella di Mosè, pretende il posto di Mosè, Dio la castiga con la lebbra (Nm 12,9-10). Ne consegue chiaramente che la lebbra era una punizione per i peccati dell’uomo, e da qui sappiamo che Dio odia i peccatori (Sir 12, 6).

Ma se leggiamo i vangeli, quando Gesù manda i discepoli in giro per compiere opere buone, l'invito che mi sembra più interessante è quello di «Purificare i lebbrosi» (Mt 10, 8). Gesù non dice di guarire i lebbrosi. Purificare significa far loro capire che, per Dio, non sono impuri. È la religione che fa credere a queste creature, già in seria difficoltà per conto loro, di essere lontane da Dio (cfr. anche quanto già detto sul fatto che non occorre essere puri per avvicinarsi a Dio negli articoli Simon Pietro - https://sites.google.com/site/ultimotrimestre2018rodafa/numero-478---11-novembre-2018/simon-pietro -; Gesù non chiede di amare Dio - https://sites.google.com/site/ultimotrimestre2018rodafa/numero-483---16-dicembre-2018-1/numero-483---16-dicembre-2018 -; I peccati secondo Gesù - https://sites.google.com/site/liturgiadelquotidiano/numero-485---30-dicembre-2018/i-peccati-secondo-gesu - ai nn. 478, 483, 485 di questo giornale). Quando Gesù vede un lebbroso, anziché fuggire inorridito dal peccatore, si commuove, e perfino lo tocca se solo questi, violando la legge divina, gli si avvicina. Se Gesù fosse stato veramente una persona religiosa, un vero difensore dell’ortodossia come quelli che escludono i divorziati dalla mensa, avrebbe dovuto gridare: “Allontanati da me brutto zozzone! Come osi toccare il santo di Dio? Non ti basta il castigo che il Signore ti ha dato per i tuoi peccati, e continui ancora a trasgredire la legge?” Così griderebbe ancora oggi il vero credente al divorziato che vuole accostarsi alla mensa. Il bello è che così pensa anche di essere fedele a Gesù, che è Dio, mentre sta facendo l’opposto di quello che faceva Gesù.

Infatti il Dio che Gesù manifesta è sempre un Dio amore, e non c’è neanche una minima traccia di violenta imposizione; quando un peccatore trasgredisce la legge che la gente crede divina, si commuove. Poi anche lo tocca (Mc 1, 41). Ma non sa che così si contamina a sua volta? (Maggi A.). E per di più, se proprio lo voleva guarire, che bisogno aveva di toccarlo? Il profeta Eliseo, nell’unico caso biblico in cui un uomo aveva guarito un lebbroso (2 Re 5, 14) si era ben guardato dal toccarlo: lui sì che sapeva rispettare la Legge divina.

Ora, nella vita normale di oggi, gli ammalati si curano, non si castigano. La religione c’insegna il contrario, perché si basa ancora sulla divisione tra puro e impuro, tra chi merita e chi non merita, fra peccatore e non peccatore. Pietro ha capito quest'errore ben dopo la resurrezione: dopo aver vissuto una drammatica esperienza arriva alla conclusione che Dio gli ha mostrato che nessun uomo può essere considerato impuro (At 10, 28). Dunque, Dio non esclude nessuno, il che sottintende che non è vero che Dio odia i peccatori.

“Ma sai, io sono divorziato, mi sono risposato e vado a letto con la mia seconda moglie, e per questo la Chiesa mi dice che sono in peccato e non posso fare la comunione” (cioè avvicinarmi al Signore).

Se essere lebbroso era la tragedia per tante persone in allora, è ancora oggi la tragedia per tante persone, impure non per la lebbra, ma per qualche situazione giudicata peccaminosa dal magistero (per l’appunto, come il divorzio, ma lo stesso si potrebbe dire dell’omosessualità, considerata a sua volta come peccato): una strada senza via d’uscita. Se queste persone seguono l’insegnamento ufficiale si sentono in peccato, perché così è stato loro insegnato dal magistero. Dio potrebbe perdonare questo peccato, ma proprio perché persistono nel peccato dimostrano di non essersi pentite e non possono rivolgersi a Dio.

E se invece cominciassero a pensare che quest’idea è sbagliata? Dio non esclude nessuno dal suo amore: questo significa purificare i lebbrosi. Ci sono persone che non hanno il coraggio di avvicinarsi al Signore perché hanno paura di commettere sacrilegio. Bisogna incoraggiarle a provare. Non è vero che Dio ama i buoni osservanti le sue leggi e odia i cattivi che non le osservano. Non occorre essere puri per avvicinarsi al Signore, ma basta avvicinarsi ed è Lui che ti purifica. Infatti, ogni qualvolta Gesù partecipa a un pranzo, e tutti i pasti nei vangeli hanno sempre un’allusione all’ultima cena, manca sempre l’elemento della previa purificazione (il lavaggio rituale) essenziale per la religione, e questo scatenerà addirittura l’inquisizione da parte del magistero di Gerusalemme che con una commissione di scribi si precipita da Gesù, proprio perché egli trasgredisce ostentatamente la Legge divina (Mt 15, 2). Ecco perché si può dire che, con Gesù, la partecipazione alla cena purifica l’uomo, e non occorre che l’uomo si purifichi per partecipare alla mensa del Signore, visto che è lui a mettersi il grembiule e a lavare i piedi dei discepoli (Maggi A.).

Il messaggio, già sconvolgente per le persone pie e religiose di allora, resta sconvolgente anche per le persone pie e religiose di oggi, che continuano a snocciolare quella litania del “non son degno!” e “come faccio prima a purificarmi per essere degno?”

“Ma sei sicuro che posso avvicinarmi? E poi cosa mi succede?”

“Provaci!”

“Ma sei pazzo?” s’intrometterà il credente integralista. “San Paolo ha detto che chiunque mangia il pane o beve il calice in modo indegno sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore; mangia e beve la sua condanna” (1Cor 11, 27-29), e questo ammonimento è stato interpretato dai più nel senso che chi è indegno, impuro peccatore, non può avvicinarsi alla mensa del Signore. Prima deve confessarsi, purificarsi. Ecco di nuovo il Dio che fa paura, tanto caro ai gladiatori dell’ortodossia. E in effetti il dubbioso peccatore si chiederà subito: “Non sarà mai che mangio e bevo qualcosa che anziché darmi vita, mi porterà alla morte?” Quante volte, anche noi, abbiamo sentito aleggiare questa larvata minaccia?

“Osi fare la comunione senza prima confessarti? Stai attento perché ti condanni da solo e finirai all’inferno. Ricordi cosa ha detto Paolo e cosa dice il n. 1385 del Catechismo?”

Invece, se solo la si smettesse di estrapolare questa frase e la si leggesse nel contesto, si capirebbe subito come Paolo non minaccia affatto le persone impure dall’avvicinarsi a Gesù, ma – al contrario,-  minaccia le persone formalmente pie. Infatti Paolo rimprovera i Corinzi di non mangiare la vera cena del Signore quando si radunano, perché manca la comunità, manca la condivisione, e ciascuno mangia per conto suo; e così uno ha fame quando l’altro è già sazio ed ubriaco; perché allora non stanno a casa loro per mangiare e per bere in questo modo? «O volete gettare il disprezzo sull’assemblea di Dio e umiliare chi non ha niente? Che devo dire, lodarvi? In questo non vi lodo!» (1Cor 11, 22). Ecco lo scandalo che Paolo denuncia: ma che razza di comunione è questa, se alcuni ricchi mangiano a sazietà e si ubriacano mentre altri, che sono poveri, stanno a guardare? Dov’è la condivisione che deve essere alla base della cena eucaristica? La comunione non diventa indegna a causa dei difetti morali personali, o perché non si è seguita scrupolosamente la regola liturgica, ma perché non si condivide il pasto con gli altri (Gauthier R.; Castillo J.M.). Ecco perché chiunque mangia il pane del Signore in modo indegno sarà colpevole presso il corpo e il sangue del Signore, perché a quel punto, a differenza di Gesù che si è fatto pane per tutti, il colpevole mangia il pane, ma rifiuta di farsi pane per gli altri.

Dunque Paolo ribadisce quanto si è affermato sopra: la condivisione della stessa mensa non è possibile dove ci sono esclusioni o declassamenti. Quando nel gruppo si convive in modo che si manifestano differenze e disuguaglianze nel mangiare e nel trattamento reciproco, in tal caso l’eucarestia si fa semplicemente impossibile. Questo è il senso della severa reprimenda che Paolo fa alla comunità di Corinto. Ciò che Paolo rinfaccia a quei cristiani non è che difettano nell’osservanza di un determinato rituale, tipo il non essersi confessati prima di comunicarsi o l’essersi comunicati mentre erano ancora macchiati dal peccato, o l’aver toccato cibo prima di prendere l’ostia. Su questo nulla dice il testo. Ciò che Paolo afferma con vigore è che le disuguaglianze nella comunità, che si traducono in differenze, confronti e disprezzo, rendono impossibile l’eucarestia. Vale a dire, dove difetta la fraterna convivialità (fatto sociale), difetta ugualmente l’eucarestia (fatto teologico) (Castillo J.M.).

Questa per Paolo è l’unica condizione dell’eucaristia, e questa condizione è sicuramente valida anche oggi. E a proposito di oggi, quante sono ancora le persone che vediamo partecipare solerti e compunte all’eucarestia per i propri bisogni spirituali, ma poi vediamo che appena fuori della Chiesa se ne infischiano degli altri? Se c’è questo egoismo spirituale l’eucaristia sarà la loro condanna, anche se la fanno tutti i giorni, anche se la fanno essendo 'pure' avendo appena ottenuto l'assoluzione dopo essersi confessate. Questo dice Paolo, il quale dunque sta ammonendo le persone pie e religiose che si accostano alla comunione, non i peccatori che hanno paura di accostarsi. Ripeto che Paolo non sta affatto sostenendo che l’impuro non può avvicinarsi alla mensa del Signore; sostiene che l’eucarestia può diventare fonte di condanna, cioè di morte, quando uno pensa a nutrire sé stesso senza nutrire gli altri. Nella vita del credente ci vuole questo equilibrio, dobbiamo essere nutriti, ma per poi nutrire gli altri. Chi nutre soltanto sé stesso alimenta la parte biologica, ma non la parte vitale di sé stesso, che dovrebbe essere indistruttibile (Maggi A.).

Allora è chiaro: “mangiare e bere la propria condanna” non è una denuncia che riguarda la morale o le regole religiose, come dimostra palesemente Gesù quando contatta le persone impure di ogni genere (lebbrosi, la prostituta, l’emorroissa); si tratta di una denuncia che riguarda la mancata condivisione di quello che si ha e di quello che si è. Anzi, quello che agli occhi della religione veniva considerato un sacrilegio da punire, come ancora oggi la pensa il credente duro e puro, agli occhi di Gesù è un gesto di fede. “Va’ in pace, la tua fede ti ha salvato” (Lc 7, 50). Ma come può andare in pace ed essere gradita a Dio la prostituta che gli si è strusciata contro e che continua a fare la prostituta? (cfr. l’articolo Extra Ecclesiam nulla salus. O anche no, al n. 475 di questo giornale, https://sites.google.com/site/ultimotrimestre2018rodafa/numero-475---21-ottobre-2018/extra-ecclesiam-nulla-salus-o-anche-no). Non c’è anche qui un ‘impedimento oggettivo’ per questa donna che continua a vivere nel peccato?

Allora, purificare i lebbrosi significa esattamente il contrario di quanto predicato dai gladiatori della morale cattolica, secondo i quali: “già dalla vita presente la Scrittura ci esorta a star lontano dagli empi e dai nemici di Dio, per cui possiamo avvicinare i peccatori a patto che non rechino danno alla nostra anima, che si mostrino pentiti dei loro peccati, e che con essi possiamo accordarci nel conseguimento di qualche obiettivo giusto e onesto” (Cavalcoli G.). Insomma, visto che la legge secolare non permette più ai puri e buoni di estirpare come zizzania i cattivi peccatori, come si faceva ai bei tempi dell’Inquisizione, bisognerebbe per lo meno tenerli a debita distanza ed escluderli dalla mensa eucaristica. Escludendo dalla mensa eucaristica i divorziati risposati ed i conviventi, molti pensano di essere perfino giusti, perché la Bibbia diceva di dare al pio e non aiutare il peccatore; anzi, è bene negargli perfino il pane (Sir 12, 5). ‘Peccato’ che per Gesù si debba fare esattamente il contrario: si devono avvicinare quelle persone che si sentono escluse, per la loro condotta morale, per la loro vita sessuale, o per tanti altri motivi, ma non per ammonirli; occorre, con il nostro amore, far capire a quelle persone che si sono auto-escluse da Dio perché si ritengono già condannate, che non è vero che sono escluse, perché Gesù (immagine visibile di Dio invisibile, e quindi Dio) – a differenza di quanto pensa il cardinale Pell -  non discrimina nessuno. E chi discrimina non è fedele a Gesù, facendo proprio il contrario di quello che ha fatto Gesù. Non esiste una persona una che possa sentirsi esclusa dall’amore di Dio (Maggi A.). Questa è la Buona Novella (altrimenti che buona novella sarebbe?) che trova conferma nel fatto che Gesù andava a cercare i peccatori e mangiava con loro non dopo che si erano convertiti, ma quando erano ancora peccatori. Il Vangelo è sempre una buona notizia. Ma per chi? In primo luogo proprio per tutte quelle persone che la religione ha discriminato, per quelle persone per le quali la religione ha detto: “voi, con il vostro comportamento peccaminoso, siete esclusi da Dio, dovete fermarvi sulla porta della chiesa e non potete entrare!”. Invece proprio dove s’impone l’esclusione, la discriminazione, non c’è (e non ci può essere) eucaristia.

Se un monito allora si deve fare, deve essere rivolto a quei vescovi e a quei preti che si arrogano il diritto di decidere a chi dare il pane eucaristico e a chi no. Cosa fece Gesù nella condivisione dei pani (Mc 8, 6) che è immagine dell’eucaristia? «Spezzò i pani, li diede ai discepoli e i discepoli alle folle» (Mt 14, 19). Soffermiamoci su questo passaggio: Gesù prende i pani, li spezza, li dà ai discepoli affinché li distribuissero, e i discepoli devono distribuirli alle folle senza alcuna condizione non essendo essi i padroni di questo pane, ma i collaboratori di Gesù nella distribuzione di questo pane. Gesù non pone alcuna condizione alla distribuzione (Maggi A.). Non dice di darlo solo a chi si è già purificato, a chi si confessato. Ora, tutte le Chiese riconoscono che nella Cena è Gesù risorto e vivente che convoca la comunità, presiede la mensa, benedice il pane e il vino e li distribuisce ai discepoli. La Chiesa amministra il sacramento tramite un suo ministro, che però ha una funzione unicamente di servizio come quella degli apostoli, non ne è in alcun modo l’artefice, non può aggiungergli né togliergli nulla, e soprattutto non esercita in rapporto a esso alcun potere. Il ministro, di qualunque Chiesa è, pertanto, un servo, e un servo non può decidere al posto del suo signore (Mt 10, 24), né prendere il suo posto (Ricca P.). Il padrone del pane eucaristico non è allora l’autorità ecclesiastica, il magistero infallibile, il cardinale Caffarra, ma è il Signore e Lui dice di distribuirlo a tutti: anche agli impuri peccatori. Ricordiamo che, fino alla fine, Gesù lo offrì perfino a Giuda Iscariota: solo che questi, prese il pane ma non lo mangiò, e preferì uscire nella notte, cioè tornare nelle tenebre; sembrava un discepolo, ma non lo era, e tutto l’amore di Gesù è stato inutile di fronte al rifiuto di accettarlo. Guai, allora, a quel discepolo che nell’atto di distribuire il pane cominci a chiedersi se chi gli sta davanti merita o non merita questo pane, e gli chieda conto della sua condotta. Il compito dei collaboratori è soltanto quello di distribuire il pane, senza giudicare l’idoneità delle persone che si presentano a riceverlo (Maggi A.).

L’evangelista ci fa cioè comprendere che l’eucarestia di Gesù non è un premio che viene concesso alle persone meritevoli, che vanno in chiesa tutti i giorni, ma un regalo che non dipende dalle condizioni di chi lo riceve, ma dal cuore generoso del donatore. Che questa sia l’interpretazione più aderente ai vangeli, anche per il divorziato, cioè per il lebbroso odierno, lo si ricava sempre dal comportamento di Gesù: infatti dopo aver purificato il lebbroso anonimo, e quindi identificabile in ogni persona che oggi si sente esclusa dalla Chiesa, Gesù lo rimprovera (Mc 1, 43). Ma come? Secondo l’insegnamento del magistero infallibile Gesù avrebbe dovuto rimproverarlo prima, quando gli si era avvicinato indegnamente, ricordandogli che era un impuro peccatore ed esisteva un “impedimento oggettivo” per avvicinarsi al santo di Dio. Oggi, fra troppi cattolici, resiste ancora questo concetto proprio dei farisei secondo il quale l’avvicinarsi al Signore è il premio per i puri, sì che, se uno è in peccato, è impuro e non può avvicinarsi al Signore per “impedimento oggettivo”. Gesù invece rimprovera il lebbroso in seguito, quindi non per essersi avvicinato, ma per il fatto di aver creduto che Dio lo avesse cancellato, allontanato da lui. Quello che va allora sottolineato è che, se Gesù accoglie tutti, nessuno di noi può dire a un altro che lui non può essere accolto, non essendo degno di Dio. Se uno lo dicesse, si metterebbe lui fuori della comunione di Cristo (Ricca P.), anche se è un vescovo.

Anche Papa Francesco ha scritto che «L’Eucaristia, sebbene costituisca la pienezza della vita sacramentale, non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli. Queste convinzioni hanno anche conseguenze pastorali che siamo chiamati a considerare con prudenza e audacia. Di frequente ci comportiamo come controllori della grazia e non come facilitatori» (Evangelii Gaudium, del 24.11.2013, §4). Insomma, Gesù non si concede come onorificenza per i sani, ma si offre come forza vitale per gli ammalati (Maggi A.). Ma questa apertura, che è effettivamente una Buona Novella per i peccatori, non lo è per le persone pie e religiose perché, se effettivamente Dio non premia più i buoni e non castiga più i cattivi, non c’è più religione. Come Gesù aveva messo allora in allarme gli scribi, i farisei ed i sacerdoti, Papa Francesco mette oggi in allarme buona parte del magistero (ancora convinto di essere il proprietario del dell’eucarestia e di poter stilare una propria lista di invitati con esclusione di quelli che non sono graditi), nonché tutti coloro che si battono per i principi non negoziabili che loro sanno essere voluti da Dio stesso. Evidentemente conoscono Dio meglio di Gesù.

 

Dario Culot

[1] In base alla legge “No Way”, si viene rinchiusi nel campo di detenzione di Manus Island, in Papua Nuova Guinea. Cfr. il libro di  Behrouz Boochani, Nessun amico se non le montagne, ed. add, 2019.