Il vescovo

Sepolcro del Vescovo Ulrich von Blücher (1254), Cattedrale di Ratzeburg 

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Per fondare la propria autorità (che poi non è altro che il modo in cui s’interpreta il proprio potere) la Chiesa cattolica afferma che, Dio essendo origine di ogni cosa, è l’autorità assoluta e ogni potestà viene da Lui; la Parola di Dio è stata affidata da Cristo agli apostoli; gli apostoli poi, affinché la Parola si conservasse sempre integra e viva nella chiesa, lasciarono come successori i vescovi, ad essi affidando il loro proprio posto di maestri (nn. 77, 1087 Catechismo).

Dunque la Chiesa è apostolica perché confessa la fede degli apostoli e cerca di viverla (papa Benedetto XVI). Le liste episcopali testimoniano infine le ininterrotte successioni vescovili a garanzia di un integro ed inalterato Depositum fidei, per cui la Chiesa cattolica è l’unica vera Chiesa e in quanto tale pretende il riconoscimento della propria preminente dignità (autorità).

A dire il vero fu Ireneo (130-202) il primo a sviluppare la teoria della successione apostolica e a sostenere che la retta dottrina degli apostoli arriva a noi solo attraverso la successione ininterrotta dei vescovi (Adv Her III, 3, 3 e IV, 33, 8), i quali avevano ricevuto il carisma della verità direttamente dallo Spirito Santo (Adv Her IV, 26, 2). Tertulliano (155-230), nel De prescriptione Hereticorum, rimarcò l’apostolicità della Chiesa, sfidando i non allineati eretici a dimostrare che anche i loro vescovi potevano risalire con una catena ininterrotta fino a qualche apostolo. L’idea di questa concatenazione successoria (Gesù-apostoli-vescovi), accettata per gradi durante il II e III secolo (Estrada J.A.), finì per svilupparsi iperbolicamente fino al punto che i vescovi vennero esaltati ed elevati a una dignità quasi «divina» (cfr. quanto detto dalla Didascalia apostolorum nell’articolo I concili imperiali al n. 448 di questo giornale, https://sites.google.com/site/numeriarchiviati2/numeri-dal-26-al-68/1999992---aprile-2018/numero-448---15-aprile-2018/i-concili-imperiali), cosa oggi ormai inaccettabile, ma che comunque non risale a Gesù, il quale non aveva mai detto nulla in proposito: siamo invece davanti a un’elaborazione dottrinale tardiva. Può anche ricordarsi che fu solo verso la fine del I secolo che Clemente (quarto vescovo di Roma, ancora privo del titolo di papa) cominciò a sostenere che gli apostoli nominarono i vescovi in modo che succedessero al loro ministero (Clemente Lettera ai Corinti 44, 2). Contribuirono poi a questo sviluppo vari grandi nomi: sant’Ignazio (35-107 d.C.) sostenne che senza diaconi, presbiteri e vescovi non c’è Chiesa (Ignatius, Epistola ai Tralliani, III, 1); in particolare, senza il vescovo, al quale spetta il massimo onore, non c'è eucaristia (Ignatius, Lettera ai cristiani di Smirne, VIII, 1- IX, 1). Siccome la Chiesa vive dell’eucarestia, questa idea di supremazia del vescovo finì col diventare la parola d’ordine di tutta la Chiesa, per cui ancora oggi chi non è vescovo (o prete delegato dal vescovo) non può presiedere l’eucarestia (Il Catechismo del vescovo di Trieste Crepaldi, “Vita Nuova”, n.4654/2013, 10). Cipriano (210-258) rimarcò l’idea che la Chiesa doveva essere fondata sui vescovi (Le lettere, 33, 1).

Oggi il principio della successione apostolica è ripreso dal Can. 212 – §1 del Codice di diritto canonico: “I fedeli, consapevoli della propria responsabilità, sono tenuti ad osservare con cristiana obbedienza ciò che i sacri Pastori, in quanto rappresentano Cristo, dichiarano come maestri della fede o dispongono come capi della Chiesa.”

Ma anche se la successione apostolica diventò presto per la Chiesa cattolica un punto cardine, nel senso che nessuno era autorizzato a parlare in nome proprio, va ribadito che Paolo è diventato pilastro del cristianesimo assumendo di essere stato indottrinato direttamente da Cristo (Gal 1, 11-12), senza che nessuno dei dodici apostoli avesse nulla da ridire. Lo stesso Paolo, infatti, scelse autonomamente da sé i presbiteri o episcopi da mettere a capo delle chiese che aveva fondato. E, a ben guardare, nemmeno i successori dell’apostolo Mattia, scelto dagli altri apostoli ma non da Gesù, potevano dirsi partecipi della catena successoria. E così pure Giacomo, il fratello di Gesù. Evidente che se non tutti rientrano nella successione apostolica, che non è stata seguita rigorosamente neanche dalla Chiesa cattolica, c’è qualche problema da risolvere:

a) Il primo problema è che non solo la Chiesa cattolica, ma anche le Chiese Ortodosse vantano un’altrettanta ininterrotta successione apostolica, come del resto riconosce la stessa Chiesa romana (n. 1399 Catechismo). Ma allora, se per garantire la “fedele trasmissione della fede” (del Depositum fidei) basta la successione apostolica (nn. 815, 833, 1209, 1576 Catechismo), la retta dottrina si trova anche nelle Chiese orientali, per cui come può la Chiesa cattolica vantarsi di essere l’unica vera Chiesa?

b) Essendo scontato che Paolo abbia presieduto all’eucarestia nelle comunità da lui fondate, ovviamente si pone un’altra domanda: chi gli ha dato l’autorità? da chi ha ricevuto l’autorizzazione? Certamente da nessuno dei 12 apostoli. Quindi traballa non poco la tesi tradizionalmente accettata secondo cui solo il religioso consacrato in base alla successione apostolica (apostolo = vescovi = preti da loro delegati) è legittimato alla celebrazione eucaristica, perché in base alla successione apostolica la Chiesa cattolica avrebbe dovuto sostenere che Paolo non poteva presiedere l’eucaristia.

c) È noto che questa questione successoria è invece la ragione principale per cui, secondo la visione cattolica, le chiese protestanti non sono propriamente chiese, ma semplici comunità ecclesiali: i ministri protestanti non sono infatti ordinati da un vescovo inserito nella successione apostolica, quindi la loro liturgia eucaristica non sarebbe valida. I protestanti replicano che i loro ministri non saranno successori storici degli apostoli, ma sono successori nel messaggio apostolico (“Se perseverate nella mia parola, siete veramente miei discepoli”: Gv 6, 63). Ma soprattutto osservano che non basta la successione storica, perché – ben più arduo – è succedere nella vita apostolica, che è parte integrante della successione apostolica. In altre parole, una successione apostolica non accompagnata da una vita apostolica non è vera successione apostolica. E questa mi sembra un’affermazione pienamente condivisibile.

Sta di fatto che nessuno dei quattro vangeli prevede una qualche struttura ecclesiastica, e tanto meno una catena successoria; anzi, è strano vedere come ci sia questo disinteresse verso ogni struttura, quando l’ortodossia afferma che già Gesù aveva costituito una sua Chiesa. Ancor più strano perché Gesù ben sapeva che anche i suoi diretti discepoli non sarebbero durati in eterno. È certo, comunque, che Gesù non creò né vescovi, né preti, né dicasteri, né gerarchie ecclesiastiche. Lui stesso era un laico, e laici erano tutti gli apostoli. Gesù ha semplicemente incaricato i suoi di annunciarlo (sottolineo: i discepoli tutti, non solo gli apostoli - Mt 28, 19).

Va poi notato come neanche la parola clero esiste nei vangeli, e tanto per cambiare si tratta di una parola greca (kleros) che significa sorte, eredità, e solo in seguito parte scelta dei fedeli, presto intesa nella storia come gruppo di privilegiati, esentati da carichi fiscali e obblighi vari (Brown P.). Infatti, a partire da Costantino, il clero fu posto di colpo su un gradino più elevato, perché era privilegiato rispetto al resto del popolo, quando invece Gesù non volle né privilegi, né privilegiati nella sua comunità e fra i suoi seguaci. La lavanda dei piedi (Gv 13, 12-15) è lì a dimostrare che i suoi discepoli dovevano andare in giro per il mondo ad annunciare il vangelo (Mt 28, 19) non come privilegiati, ma come servi al servizio degli altri (Castillo J.M.). Un gradino eventualmente più basso, certamente non più elevato.

E allora come è nata questa gerarchia ecclesiastica, visto che Gesù non l’ha istituita? Nei suoi indefessi viaggi, Paolo fondò varie comunità cristiane, mantenendo anche un contatto epistolare con esse. La Chiesa cristiana, dunque, non nacque affatto unitaria: inizialmente tutte le comunità (e questo vuol dire la parola ecclesia: assemblea, chiesa) erano autonome, ma nacque presto il bisogno di lasciare nelle comunità dei collaboratori stanziali, au­torizzati al servizio dallo stesso apostolo che proseguiva per altra città (ad esempio, Timoteo venne inviato da Paolo ai Tessalonicesi in qua­lità di plenipotenziario – 1Ts 3, 2). Paolo chiama questi collaboratori indifferentemente presbiteri (da cui preti) o episcopi (da cui vescovi) (1Tm 3, 1-7; 1Tm 5, 17; Fil 1, 1; Tt 1, 5-9; cfr. anche At 20, 17-28). Poiché Paolo si spostava dopo aver creato una comunità, sempre con la frenesia di crearne altre, fu lui ad inventare questa figura di “custodi” o anziani che custodissero l’annuncio pasquale che lui stesso aveva dato. Nella Didachè non troviamo il termine “presbitero”, ma solo quello di episcopo, che appunto per Paolo era la stessa cosa: si trattava di quella persona integerrima che aveva la funzione di essere il “custode in loco” dell’annuncio di fede.

A questo punto, però, occorre richiamare l’attenzione sul fatto che le ecclesie di Paolo sono nate senza conoscere i vangeli, scritti 20-30 anni dopo che Paolo aveva ormai organizzato e fatto funzionare queste sue prime comunità. Per di più il fariseo Paolo, autonominatosi apostolo, aveva conosciuto solo il Cristo risorto, l’essere divino, trascendente, fuori della storia terrena, mentre non aveva conosciuto, né aveva mai dimostrato alcun interesse per il Gesù terreno, carnale, umano  (come lo stesso Paolo ci racconta  nelle sue lettere: 1Cor 1, 1; 2Cor 1, 1 e 5, 16; Gal 1, 1). Inoltre, assodato che inizialmente i cristiani non avevano templi per cui erano visti con sospetto, essi si adunavano in case private e, nella società greco-romana, il capo della casa era sempre l’uomo, il pater familias. Siccome dovevano adunarsi in gruppi di persone, doveva trattarsi per forza di case grandi, e quindi di case di ricchi: i poveri non avevano case sufficientemente spaziose per accogliere i confratelli. Pertanto, visto che il “padre” nel giudaismo e in tutte le culture antiche era l’emblema dell’autorità (come il pater familias latino), è normale che la teologia paolina, non avendo conosciuto il Gesù umano, si sia fondata molto di più sul potere che sul servizio. Calcando la mano sulla morte e resurrezione, da sole capaci per Paolo di rimetterci nella giusta relazione con Dio (Rm 5, 8-10), tutto l’insegnamento di Gesù nel corso della sua vita terrena finì col passare in secondo piano (pensiamo ad es., al padre, quasi madre, che accoglie il figliol prodigo nella parabola raccontata dal Gesù terreno). Prevalse nelle prime comunità questa relazione di sottomissione al pater familias, cioè l’obbedienza ai dirigenti ecclesiastici come ben si vede in 1Cor 16, 15-18, dove Paolo dà espressamente l’ordine: “Sottomettetevi a Stefanas!” (1Cor 16, 15), il padrone e dirigente della casa dove si riuniva l’assemblea (la chiesa). È la legittimazione della sottomissione che, alla fin fine, era sottomissione allo stesso Paolo. Mai Gesù ha pronunciato frasi del genere. Questo insegnamento di Paolo si rafforzerà nelle lettere successive (Col 3, 18; 4, 1 ed Ef 5, 2; 6, 9), in cui vengono imposti ai cristiani i cd. “codici familiari” (Verdoot A., Gesù e Paolo, in “Il nuovo Gesù storico” a cura di Stegemann W. E al., ed Paideia, Brescia, 2006, 301). Vale a dire, si applicano ai leader della Chiesa il potere ed il dominio del “marito-padre-padrone” il quale regnava sulla famiglie e nelle case dove si riuniva ciascuna “chiesa”. Le chiese primitive sono nate dunque con una precisa gerarchia dove solo Paolo dirigeva, proibiva, organizzava le varie comunità da lui fondate; poi, partendo, lasciava in loco dei dirigenti a lui sottoposti. Questa, alla fin fine, è l’impostazione che ha prevalso anche nella Chiesa cattolica, dove il potere ha lentamente assorbito tutto, e dove la struttura del potere ha finito per sostituire la povertà e lo spirito di servizio del vangelo.

Anche gli apostoli erano nomadi, ed è ben possibile che anch’essi avessero immesso, in loro rappresentanza, sovrintendenti locali a capo delle singole comunità. Poiché Paolo non andava dove avevano già predicato gli apostoli (Rm 15, 20) non ci dovettero essere conflitti fra Paolo e gli apostoli nominati da Gesù. Ma con la morte dell’ultimo apostolo si estinse la gerarchia uni­ver­sale e i so­vrintendenti locali diventarono automaticamente dei veri ve­scovi, ognuno sempre al pari di un apostolo, come suo successore, ma ovviamente con la limitazione di una giurisdizione locale: nessun vescovo aveva giurisdizione su tutta la terra. Questa struttura iniziale è stata mantenuta dalle Chiese orientali, che tuttora non riconoscono alcuna autorità al di sopra del vescovo. A cambiare è stata invece la Chiesa romana, col papa diventato a un certo punto vescovo dei vescovi.

Va poi aggiunto un dato sconosciuto ai più: nel cristianesimo iniziale, più importanti dei vescovi erano i profeti, inquadrati nella stessa categoria degli apostoli (Didachè, XI, 3ss.). I profeti occupavano il secondo posto nella Chiesa primitiva, subito dopo gli apostoli. Sicuramente anche fra le donne c’erano profetesse (At 21,8s.: dove le figlie di Filippo hanno il ruolo di profetesse della comunità cristiana; cfr. 1Cor 11, 5). Questi ministri posizionati al di sopra dei presbiteri o degli episcopi avevano, fra l’altro, la facoltà di ordinare delle "tavole", cioè dei pasti comunitari saltuariamente offerti dalla Chiesa (Did XI, 9); inoltre, a differenza degli apostoli, potevano fermarsi piuttosto a lungo nelle comunità che visitavano.

Questo rende evidente che l’insegnamento non era riservato ai soli apostoli (e quindi, dopo di loro, al solo magistero che discende direttamente da essi), ma a tutti, secondo il dono dello Spirito santo (Congar Y.).

Nel giro di poco, però, probabilmente a causa dei troppi abusi (2Pt 2, 1; 1Gv 4,1; Ap 2, 20), la profezia perse d’importanza e questi ministeri si esaurirono (New Catholic Encyclopedia, voce Prophetism, ed. McGraw-Hill Book C., New York e al., (USA), 1967, vol.XI, 872).

In contemporanea si fortificò l’idea della supremazia vescovile sostenuta da sant’Ignazio, il quale assai razionalmente aveva osservato che i profeti non erano degni di fiducia proclamandosi tali, ma tutto dipendeva da come vivevano; quindi la comunità doveva fidarsi di loro all’inizio senza conoscerli, e quando finalmente li aveva controllati (1Cor 14, 29-33) e conosciuti, confermare o meno la fiducia in base a come essi vivevano realmente la fede. Ovviamente tutto diventava più facile se si sceglieva al proprio interno l’anziano, il presbitero, l’episcopo che si conosceva da sempre, come si era fatto da subito per i diaconi (servitori di mensa, anch’essi scelti dalla comunità - At 6, 3-6), e a quel punto non occorreva discutere, come per il profeta esterno, se il prescelto era affidabile o meno. Affermando che l’unica autorità era quella del vescovo locale, che si conosceva come persona fidata perché già viveva da tempo nella comunità ed era stato eletto dalla comunità in base alle caratteristiche indicate da san Paolo (ad es.: “Bisogna dunque che il vescovo sia irreprensibile, fra l’altro marito di una sola donna...” - 1Tm 3,2; scommetto che questo non lo sapevate!), ecco che il vescovo diventava tranquillamente l’unico che potesse garantire l’eucarestia. Ma va ribadito che era sempre la comunità a nominare il proprio vescovo: la comunità conosceva il vescovo, il vescovo conosceva la comunità. Si pensi alla nomina del famosissimo vescovo di Milano Ambrogio, che era semplicemente un governatore romano stimatissimo, neanche battezzato; saputo che lo volevano fare vescovo cercò in tutti i modi di sottrarsi, appellandosi anche inutilmente all’imperatore perché lo dispensasse dall’incarico; invece quando aveva cercato di allontanarsi alla chetichella, fu inseguito, bloccato, battezzato in fretta e furia, e nominato vescovo a furor di popolo: altri tempi!

Se poi anche la Didachè invitava la comunità a eleggere vescovi e diaconi degni del Signore, capaci di rendere lo stesso servizio dei profeti, vuol dire che, all’inizio, i vescovi e i diaconi avevano difficoltà a farsi rispettare al pari dei profeti; inoltre appare evidente che ogni responsabilità restava in mano alla comunità, la quale eleggeva i propri vescovi e i propri diaconi (Didachè 15, 1), sì che non esisteva l’odierna contrapposizione fra chierici e laici (Haag H.). Men che meno c’era, come oggi, un’autorità centrale e distante che designava i vescovi per poi mandarli nelle varie sedi del mondo.

Si è visto nell’articolo I concili imperiali (sopra citato, vedi in particolare con riferimento alla Didascalia apostolorum), come da Costantino in poi i vescovi abbiano acquistato sempre più potere. Inevitabilmente, in tal modo, la religione si è strutturata in maniera che la categoria del «sacro» fosse vissuta dai credenti come costitutiva dell’esperienza religiosa. E questo indirizzo si armonizzava meglio con la fede in un Dio eccelso e potente che con la sequela di un Gesù umile e debole. Del resto, è innata negli uomini la pretesa di essere importanti, di essere famosi, di avere sempre ragione, per cui ben si possono capire i vescovi, che sono sempre persone umane. Questa stessa umanissima pretesa – narrano i vangeli – l’avevano manifestata ancor prima gli apostoli quando seguivano il Gesù terreno, per cui è più antica della stessa Chiesa: abbondano infatti i brani su chi doveva essere il più grande fra di loro (Mc 9, 34; Mt 18, 1; Lc 9, 46; 22, 24), su chi doveva occupare i primi posti, cosa che logicamente provocava l’indignazione degli altri (Mc 10, 41; Mt 20, 24), segno evidente che anche questi altri nutrivano desideri di potere e di comando. Però è da rimarcare che l’esaltazione del potere vescovile non si è potuta dedurre dalla vita che visse Gesù, né dai suoi insegnamenti ai discepoli e agli apostoli. Vale a dire, l’esaltazione del potere ecclesiastico e la dignità episcopale non trovano giustificazione nel Vangelo di Cristo, dove il punto di partenza è esattamente l’opposto: il rifiuto e la resistenza a tutti i tipi di dignità, privilegi e poteri, per quanto sacri si considerino o per quanto necessari si presentino per l’evangelizzazione. Come ha ben spiegato il prof. Castillo, per come s’intende e si vive ancora oggi il sacro, ci si trova davanti a una categoria che crea separazione, differenza e distanza, in quanto il sacro si considera dotato di per sé di una dignità e di una condizione superiore che non si trova nel profano, cioè in quello che è comune alla massa dei mortali. Per l’uomo religioso lo spazio non è affatto omogeneo: il sacro è il reale per eccellenza, e quello spazio gli appartiene, per cui deve essere anteposto al profano. Per questo la laicità (propria invece di Gesù e dei suoi apostoli), come sistema organizzativo di società e di convivenza fra i cittadini, è stata rifiutata dalla Chiesa.

Dunque sono le religioni e i loro leader a stabilire differenze, separazioni, incarichi con spartizioni di poteri e ranghi. Ma partendo da questi presupposti le religioni danno origine anche a scontri e conflitti. Il movimento che originò Gesù non aveva e non tollerava nessuna di queste differenze e disuguaglianze. Il prof. Castillo richiama giustamente l’attenzione sul fatto che tutti coloro che si ritengono insigniti di potere, dignità o, più in genere, le categorie che si presentano e si manifestano mediante trattamenti, vestimenti, titoli, in definitiva riproducono esattamente ciò che Gesù aveva proibito quando disse con fermezza: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi posti nei banchetti [1]… pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna molto severa» (Mc 12, 38-49). Di più: i vangeli associano ai sommi sacerdoti la sofferenza e la morte di Gesù (cfr. Mt 20, 18; 21, 23; 21, 45; 26, 3; 26, 14). Anzi, quando i vangeli menzionano i sommi sacerdoti, è per sottolineare in essi non tanto la loro condizione religiosa, bensì la loro autorità (Vanhoye A.), mettendo in rilievo che Gesù non condivise mai la tavola e la vita né con l’autorità religiosa, né col potere politico. Insomma, Gesù non sarebbe mai andato a pranzo con un vescovo. La sua condizione di «ebreo marginale» (Meier J.P.) aveva reso completamente incompatibile la vita fra lui e i personaggi pubblici che, dall’alto della religione o della politica, dominavano il popolo laico e, non poche volte, lo opprimevano. Questo significa che il Dio rivelato da Gesù non si può associare a forme o rappresentazioni di potere e autorità, per quanto si tratti di autorità sacra o di poteri religiosi. L’importante per Gesù era condividere la tavola e la vita con gli ultimi, stando all’ultimo posto (Lc 14, 8-10; cfr. 22, 24-27). Per Gesù gli ultimi sono i primi, vale a dire, i più importanti. Pertanto, solo a partire da questo approccio liberamente assunto nella vita e nella società, è possibile essere seguaci di Gesù, e quindi cristiani. Allora, la strada per essere veri cristiani è davvero lunga e faticosa, perché troppi vescovi (come ben si vede dalle attuali opposizioni e resistenze a Papa Francesco, che – guarda caso - non provengono dai tradizionali nemici esterni della Chiesa, ma da settori importanti del clero) non sopportano di non poter più passare la vita come persone sacre e consacrate, vedendo cancellata la loro pretesa di meritare un rispetto che essi stessi non riconoscono agli altri. La condizione laica, infatti, pone tutti sullo stesso piano di doveri, in uguaglianza di diritti e privilegi. Per questo tanti vescovi privilegiati da secoli, abituati alle alte dignità, ai titoli, ai posti d’onore, e soprattutto abituati a comandare e a farsi obbedire, non vogliono oggi neanche sentir parlare di società laica, e dicono che questo è «relativismo», e «perdita di valori». Invece è Vangelo (Castillo J.M.).

Un ulteriore punto critico è quello sottolineato dallo psicoanalista Carl Gustav Jung, il quale ha correttamente puntualizzato che noi non vediamo le cose per come sono, ma per come siamo. Il “da dove” si vedono le cose determina e condiziona il come si vedono le cose: è indubbio, cioè, che chi occupa un posto alto nella società non vede le cose allo stesso modo di chi occupa il gradino più basso della società. Ora, i vescovi insegnano «con autorità», detenendo tutto il potere religioso. Però, come sappiamo bene, coloro che detengono tale «autorità» ed esercitano il potere religioso sono sempre persone che non stanno in basso bensì in alto, che non sono soliti sedersi agli ultimi posti bensì nei primi, che si considerano come gli eletti e, di conseguenza, non possono vedere allo stesso modo dei «piccoli», degli «ultimi», degli «esclusi», di cui parla il vangelo. E allora, quello che succede è che gli scribi ufficiali di oggi, come gli scribi ufficiali dei tempi di Gesù, leggono, interpretano e spiegano anche il vangelo usando la chiave che combacia con i propri interessi, con i propri privilegi e con la loro alta e insigne posizione. Nulla di nuovo sotto il sole. Se già nei primi secoli (cfr. l’articolo I concili imperiali sopra richiamato) gli imperatori approvarono i decreti conclusivi dei concili, è chiaro che questi decreti non potevano andare contro i loro interessi e i loro privilegi.

I cristiani di oggi sembrano aver dimenticato questo principio junghiano, perché è successo che il potere religioso ha affermato (ed è riuscito a imporre l’idea, come fosse scritta nei vangeli, ma non lo è), che lui è il solo autorizzato a spiegarci cosa i vangeli vogliono dirci, perché solo il magistero è il legittimo custode della Bibbia (n. 885 del Catechismo di Papa Pio X) e interprete autentico delle Scritture (n. 886 del Catechismo di Papa Pio X e n.1008 Catechismo vigente). Il pio credente è perciò convinto che il vescovo sia non solo il custode unico dei contenuti da trasmettere, ma sia anche l’autorità designata da Dio in persona per esplicitare adeguatamente la sua volontà e i suoi insegnamenti: la Chiesa è il vescovo, e chi non è col vescovo è fuori della Chiesa (così già dai tempi di sant’Ignazio - Lettera agli Efesini, 1.6-VI: “Si deve guardare al vescovo come si guarda al Signore stesso”; lettera ai Filadelfiesi 1.1.1.4. 3: “tutti coloro che appartengono a Dio e a Gesù sono col vescovo”). I vangeli, però, affermano qualcosa di diverso. Ricordate, per restare in tema, cosa intendeva dire Gesù quando lodava il Padre per aver nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti, rivelandole solo ai piccoli (Mt 11, 25; Lc 10, 21), cioè ai signori nessuno che non possono prendere la parola da nessuna parte? Cosa hanno questi insignificanti esseri umani per essere, proprio loro, quelli che possono conoscere e comprendere il Dio di Gesù meglio del sapiente vescovo?  È ovvio che la differenza fra i «sapienti» e gli «ignoranti» consiste nel fatto che i saggi possiedono alcune conoscenze che mancano agli incolti. E i vangeli, che non ci dicono mai di obbedire al magistero, ci dicono invece che il Dio di Gesù non si fa conoscere da coloro che credono di conoscerlo (i teologi, il clero che ha studiato), bensì, al contrario, si fa conoscere da coloro che nessuno direbbe possano sapere qualcosa e, ancor meno, possano essere quelli che conoscono Dio ed essere esperti delle cose di Dio.

Ora, se Gesù è all’origine della Chiesa, la Chiesa dovrebbe essere fedele alla sua origine, vale a dire, essere fedele a Gesù, alla sua vita e ai suoi insegnamenti così come si trovano nei vangeli. Orbene, se qualcosa risulta chiaro è che Gesù, prima di ogni altra cosa, rispettò tutti, fosse quale fosse la loro religione, le credenze di ognuno, le loro condotte o i loro costumi. Se nessuno fra gli apostoli aveva capito che il traditore era Giuda (Lc 22, 23; Gv 13, 24), vuol dire che Gesù continuava a trattarlo con lo stesso rispetto riservato agli altri, senza additarlo come nemico. Pertanto, se la Chiesa vuol essere fedele a Gesù, non basta che parli astrattamente dell’amore universale o predichi la carità verso i poveri, ma deve mettere in pratica innanzitutto il rispetto nella sua organizzazione interna. Il che significa che, prima di pretendere certi comportamenti dai laici sottoposti, deve la stessa Chiesa mettere in pratica i diritti delle persone, deve difendere tali diritti e deve promuoverli per quel che dipende da lei. Il che presuppone ed esige una trasformazione assai profonda nel suo sistema organizzativo. Perché, fra le altre cose, questo vuol dire che i vescovi non dovrebbero mai esercitare il potere in modo che, nella pratica, questo si traduca in disuguaglianze fra i cristiani: ad esempio, la classica disuguaglianza fra chi comanda e chi deve obbedire, ma anche la disuguaglianza di diritti fra uomini e donne nella Chiesa. Soprattutto la Chiesa dovrebbe accettare l’idea che il vescovo può suggerire, ma non può imporre, neanche ai suoi preti. Coloro che, per ansia o preoccupazioni di ortodossia, o sentendosi investiti di autorità dividono, separano, escludono, emarginano o condannano, sono i peggiori nemici del vangelo, e anche della Chiesa. E si deve riconoscere che questo tipo di «nemici» del vangelo di solito abbonda non solo fra la gente più religiosa e pia, ma soprattutto fra uomini con incarichi di prestigio e di potere nella Chiesa (Castillo J.M.). Tutto al contrario del vangelo di Gesù che unisce, supera le distanze e le diversità, ed è sempre comprensivo e tollerante.

Lo stesso concilio Vaticano II, presto insabbiato  [2], ha solennemente affermato che il popolo, non più il clero, costituisce il centro, mentre la gerarchia (vescovi in testa) deve limitarsi ad essere al servizio del popolo di Dio (Costituzione dogmatica sulla Chiesa – Lumen Gentium  § 13,  del 21.11.1964, come si è visto nell’articolo Chiesa-istituzione o Chiesa-popolo al n.462 di questo giornale, e nell’articolo Ma Gesù ha fondato questa Chiesa? di due domeniche fa). È allora corretto oggi pretendere che i vescovi, quali capi istituzionali dell’ecclesia, i quali hanno preteso per secoli di essere gli agenti divinamente scelti e ordinati da Dio o i vicari di Cristo incarnato, debbano far parte di una gerarchia di servizio, non più di una gerarchia di potere. Servizio anche nei confronti dei propri preti. Ma fino a quando i preti non impareranno per conto loro ad abbandonare tanto la speranza nella forza rinnovatrice delle autorità alle quali sono sottoposti, quanto la paura di essere in balia degli ordini dei loro vescovi e superiori, la Chiesa cattolica non riuscirà a liberarsi psicologicamente della sua fissazione per l’autorità (Drewermann E.). Forse quando la comunità cattolica smetterà di rivolgersi al proprio vescovo inchinandosi, baciandogli l’anello, chiamandolo “Eccellenza,”[3] (“Sua Grazia” se vescovo indiano) forse lo avrà anche aiutato a convertirsi. È psicologicamente impossibile non sentirsi superiore agli altri e non lasciarsi servire dagli altri quando per anni tutti ti chiamano eccellenza, eminenza, tutti s’inchinano e s’inginocchiano per baciarti la mano, tutti ti cedono il passo e ti danno sempre ragione (Arias J.). Chiamiamo il nostro vescovo “Signor vescovo” e basta, come quando ci si rivolge con rispetto a qualsiasi persona fra la gente. Se chiamiamo il nostro presidente “Signor presidente,” se lo stesso presidente degli Stati Uniti è chiamato “Mister president” solo persone esageratamente compiaciute di sé potrebbero vedere un’umiliante diminuzione di rango nel sentirsi chiamare “Signor vescovo”.

Qualcuno mi suggerirà all’orecchio che faccio male a scrivere dei vescovi in questo modo così poco ossequiente. Ma, a questo proposito, sarà sufficiente ricordare come i vangeli non ebbero alcuna remora nel ripetere più volte che gli apostoli erano uomini di poca fede, cioè abbastanza poco credenti (Mt 8, 26; 14, 31; 16, 8; 17, 20; Mc 4, 40; 16 11. 13. 14; Lc 8, 25; 24, 11. 41; Gv 20, 25-31). Ora, se i vangeli non ebbero difficoltà alcuna nell’esporre pubblicamente i limiti, le mancanze di coraggio, le contraddizioni dei primi apostoli della Chiesa, forse che i vescovi (che si dichiarano loro successori) dovrebbero essere più intoccabili dei primi apostoli scelti dallo stesso Gesù? (Castillo J.M.). Quanta dottrina ci hanno poi costruito sopra i loro autoproclamatisi successori, convinti di aver capito tutto! (Pavan B.).

Il problema è che l’ortodossia ha il terrore di perdere il valore del principio di autorità. Ma oggi si chiede autorevolezza e nessuno più accetta l’autorità sulla sola base dell’autorità formale che consiste nel pretendere d’essere autorità (Küng H.). Nessuno oggi può avallare le sue idee semplicemente appellandosi al ruolo che ricopre (Matteo A.). Autorevole è chi dice ciò che pensa e poi lo vive, è chi non si nasconde dietro il ruolo, non si appella all’autorità che deve essergli riconosciuta, chi non pensa di dover essere ascoltato e obbedito senza essere mai contraddetto (Curtaz P.).

Nel dire questo, non si tratta di affermare che nella Chiesa non ci devono essere presbiteri e vescovi. Il problema non sta nell’esistenza del potere, ma nell’esercizio di questo potere. Di fatto nella Chiesa si è inteso e giustificato il “ministero apostolico” come “sacerdozio” dotato di “potere” (concilio di Trento, sessione 23, 15.7.1563, cap. 1) e come “episcopato” dotato di “piena e suprema potestà” (concilio Vaticano II, Lumen Gentium §22). Gesù, invece, non volle che gli apostoli (ed i loro successori o collaboratori) esercitassero il potere come lo esercitano i capi politici. E allora non può non colpire il fatto che il testo evangelico nel quale Gesù proibisce tutto questo in maniera perentoria (Mc 10,43; Mt 20,26) non sia quasi mai citato nei documenti principali del magistero della Chiesa. Mi sembra condivisibile l’idea che dal fasto e dal potere, dall’opulenza e dalla grandiosità di quasi tutti i poteri ecclesiastici, da simili immagini, non si genera la fede (Castillo J.M.), né si trasmette la speranza della Buona Novella; anzi, oggi come oggi, si avverte più nitidamente in questa condotta un profondo vuoto evangelico. Se le chiese si spopolano, forse questo è uno dei motivi principali di questo disastro. Se papa Francesco è inviso agli estimatori della Chiesa del passato e piace tanto ai non credenti, forse è proprio per questo.

 

Dario Culot

[1] Al vescovo di Trieste che aveva bacchettato il vicesindaco per aver partecipato alla presentazione di un libro di un sacerdote in prima linea per la difesa dei diseredati, ma sgradito alla gerarchia, è stata recapitata una replica a muso duro di questo tenore (“Il Piccolo”, 30.7.2011, p.29): “Gentile eminenza, ritengo di andare dove meglio credo e non mi sognerei mai di criticare Lei per la sua partecipazione al sontuoso ricevimento sulla Costa Favolosa (ndr: trattasi di una nave da crociera). Quindi lei scelga per sé e io per me. Cordialità.”

[2] Il romanzo Vita e morte senza miracoli di Celestino VI della teologa Adriana Zarri sembra molto realistico sul punto: «I funzionari della curia erano forti, con in mano tutte le leve del potere, sapevano muoversi e destreggiarsi meglio di chiunque altro e tuttavia – rispetto ai confratelli che venivano da ogni parte del mondo – erano meno numerosi e si trovarono presto in minoranza. Masticarono amaro ma non si persero d’animo. Anche nel passato Concilio era accaduto lo stesso, e alla fine loro si erano detti: “I padri conciliari ora tornano a casa e qui restiamo noi.” Così fu. I padri se ne andarono e i curiali restarono e cominciarono a seppellire il concilio adagio, con un po’ di sabbia per volta, che quasi non paresse; seguitando a citarlo e seguitando a insabbiarlo».

[3] Ma v’immaginate se San Paolo, nella sua lettera inviata a Roma, si fosse presentato così ai romani: “Sono Sua eccellenza monsignor Paolo…” o se gli altri, avvicinandolo, avessero dovuto chiamarlo “Eccellenza?” In inglese ci si limita al “Very Reverend Father”. In nessuna parte dei vangeli si legge che Gesù abbia conferito titoli onorifici ai propri discepoli; anzi, se Dio in persona si è abbassato a compagno di strada dell’uomo di basso livello sociale, è quanto meno poco coerente che i vescovi si ergano sopra la gente, e pongano una distanza formale fra loro e la gente anche attraverso titoli altisonanti e vestimenti medioevali.