Trieste, l’Amazzonia e gli egosauri dei canoni

Vaticano/Virgilio Giotti/Trieste

- foto del direttore

Raggiungere Trieste è una faccenda un po’ complicata, ne conveniamo. Eppure c’è chi a Trieste ci viene – magari anche molto volentieri – e chi invece non ne vuole proprio sapere, quand’anche invitato a spese altrui, niente da fare, mai.

Il nordest soffre di un’emarginazione non tanto geografica quanto affettiva e, nei momenti di intensificazione di una cronaca che diventa tragedia nazionale, questa rarefazione, non si capisce bene se davvero intenzionale oppure no, dei rapporti di reciproco legame porta ad un “horror vacui”, ad un pianto in solitudine che non fa bene a nessuno, né alla città dimenticata né a chi – volontariamente oppure no, appunto – dimentica.

Non è un piagnisteo; è il cercare un senso a quanto accade nella frequentazione amicale e non riuscire a trovarlo perché ci si accorge che in discussione è proprio il senso dell’amicizia, del relazionarsi secondo linguaggi diversi da quelli del semplice rispetto e della buona creanza. Fallimento cocente e abbastanza clamoroso. Cocci da rimettere insieme ma chissà come e chissà quando.

A Trieste abita l’alterità, in tutte le sue declinazioni.

Gli eventi paurosi di queste ore – l’uccisione di due agenti della Polizia di Stato all’interno della Questura cittadina – hanno reso palpabile però anche una alterità interna allo stesso tessuto urbano e, in qualche modo, interna ad ognuno ed ognuna di noi.

Qui ha operato Franco Basaglia, dando inizio alla sua rivoluzione culturale e strutturale.

Qui la riflessione di Pier Aldo Rovatti, insieme a Gianni Vattimo, portò all’elaborazione di quel “pensiero debole” su cui la teologia – l’ambito che ci sta particolarmente a cuore – quasi mai si è interrogata.

Giovedì prossimo inizia, alle ore 15:30 – presso la Sala della Chiesa Evangelica Metodista di Trieste, in Scala dei Giganti n. 1 – il nostro Convegno, lungamente atteso e preparato, intitolato “Fare memoria: l’amore, la legge”, in occasione dei nostri 10 anni e del nostro numero 500 uscito a aprile.

La relazione introduttiva del Convegno sarà non a caso tenuta dal Prof. Raoul Pupo, insigne storico triestino, sul tema “Storie e memorie di una città di frontiera”. Seguiranno le relazioni di Letizia Tomassone, Adriana Valerio, Giovanni Minnucci, Pierluigi Consorti.

Venerdì, dopo l’introduzione di Paolo Benedetti presso la sala della Parrocchia di Valmaura, visiteremo assieme la Risiera di San Sabba e la Foiba di Basovizza. Al pomeriggio interverrà al Convegno Andrea Grillo, liturgista a noi assai vicino. E con lui Stefano Talamini, Carlo Pertusati e Domenico Petraroli.

Sabato, al mattino – con inizio alle ore 9:30 –, ci sarà la sessione dedicata all’attualità ecclesiale, con l’intervento del Presidente della Caritas Italiana, mons. Carlo Roberto Maria Redaelli, Arcivescovo di Gorizia, e dei vaticanisti Gianni Di Santo, Emanuela Provera, Marco Politi e Valerio Gigante, presidente della cooperativa Adista.

Al pomeriggio di sabato – con inizio alle ore 15 – terranno le loro relazioni Pietro Piro, sociologo bolognese, Mariachiara Tirinzoni e Stefano Agnelli. Alle ore 18, poi, l’Assemblea dell’Associazione “Casa Alta”.

Così a Trieste. Ma poi c’è Roma.

Da oggi in Vaticano si è aperto il Sinodo dei Vescovi sull’Amazzonia. La complessità geografica, culturale, addirittura etica e certamente sociopolitica di quel subcontinente si apparenta pure, e profondamente, alle nostre complessità personali (persino psichiche).

Questo pomeriggio, al Castello di San Giusto, Pier Aldo Rovatti, in dialogo con lo psichiatra Mario Colucci, nell’ambito del Festival “Barcolana - Un mare di racconti”, ha discusso del suo ultimo libro, Gli egosauri, per i tipi di Elèuthera.

Chi sono gli egosauri? Sono coloro il cui ego gonfiato e grasso impedisce, anzi abbatte, ogni interrogazione critica, su se stessi prima ancora che sugli altri. Rifletteva Rovatti su come sia tipico dell’egosauro il ritornello “Chi vivrà vedrà” – parente stretto di un disperato “carpe diem” -, sottintendendo che siccome io non ci sarò più, non mi importa di quel che sarà perché non lo vedrò. Ad ogni visione la sua realtà e basta.

Il procedimento binario del sì e no informa anche le prassi educative – dialogavano sempre Colucci e Rovatti -, perché si educa in nome del “tu devi” ma senza spiegare perché devi, nemmeno sarei più in grado di dire perché devi.

Mario Colucci concludeva che «essere padroni a casa propria è una illusione dell’ego».  Personalmente godevo alle sue parole.

E quella strategia di smontaggio dell’etica assoluta, del “tu devi” – che proponeva Rovatti – incontra sì il limite della nostra indisponibilità a cedere pezzi di padronanza, di nostra “volontà di potenza”, a mettere cioè in discussione la necessità, predicata ovunque, di “essere padroni di noi stessi”, ma si arresta anche davanti all’indisponibilità delle memorie altre che si sono smarrite o che si sono volute seppellire.

La scommessa del nostro convegno triestino sta tutta qui.

La rigidità cerimoniale della liturgia eucaristica odierna di apertura del Sinodo nella Basilica di San Pietro – assai diversa dalla liturgia di apertura del primo Sinodo africano di 25 anni fa (http://www.settimananews.it/chiesa/africa-25-anni-primo-sinodo/) - sembrava quanto di più lontano dall’intrico, anche solo superficialmente arboreo, delle culture amazzoniche. 

Mi chiedo che cosa avrà pensato un indio amazzonico collegato oline con il sito vaticano che trasmetteva la diretta streaming.

A sentire pregare in latino e cantare in gregoriano avrà ritenuto vicina o lontana una Chiesa che afferma di volersi occupare proprio e totalmente di lui, di quell’indio?

Si è scelta addirittura la Preghiera Eucaristica I, o Canone Romano, che con il suo incipit “Te igitur, clementissime Pater” pone la questione, infuocata, di cercare padri e non patriarchi, ma problematizzando così, inevitabilmente, la stessa nozione di paternità e la sua collocazione culturale a latitudini ben distanti.

E si è – davvero con mio personale sbalordimento – cantato persino in italiano. Gli indios dell’Amazzonia cantano in italiano?

Gli egosauri non ascoltano perché è pratica oltremodo faticosa, osservava Rovatti.

E questa mattina il Papa ammoniva i Vescovi Padri Sinodali: «Per essere fedeli a questa nostra chiamata, alla nostra missione, San Paolo ci ricorda che il dono va ravvivato. Il verbo che utilizza è affascinante: ravvivare letteralmente, nell’originale, è “dare vita a un fuoco” [anazopurein]. Il dono che abbiamo ricevuto è un fuoco, è amore bruciante a Dio e ai fratelli. Il fuoco non si alimenta da solo, muore se non è tenuto in vita, si spegne se la cenere lo copre. Se tutto rimane com’è, se a scandire i nostri giorni è il “si è sempre fatto così”, il dono svanisce, soffocato dalle ceneri dei timori e dalla preoccupazione di difendere lo status quo. Ma «in nessun modo la Chiesa può limitarsi a una pastorale di “mantenimento”, per coloro che già conoscono il Vangelo di Cristo. Lo slancio missionario è un segno chiaro della maturità di una comunità ecclesiale» (Benedetto XVI, Esort. ap. postsin. Verbum Domini, 95). Perché la Chiesa sempre è in cammino, sempre in uscita, mai chiusa in sé stessa. Gesù non è venuto a portare la brezza della sera, ma il fuoco sulla terra.» (cfr. https://w2.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2019/documents/papa-francesco_20191006_omelia-sinodo-amazzonia.html).

Venire a Trieste è problematico. Significa decentrarsi.

Forse non si possono concepire “fughe a Trieste”, perché qui l’alterità fa da specchio al proprio sé e non offre, invece, compensazione affettiva alcuna; tutti gli incontri avvengono sotto il sole d’Oriente, anche quelli che magari si vorrebbero lontano da occhi inopportuni.

Qui la Bora rende nudi, nude.

Con la propria sincerità, togliendo a forza dai volti ogni maschera, che può far morire come una pistola nelle mani dell’arrestato che reagisce.

A presto, allora, con chiunque vorrà incontrarci.

L’amore interroga la legge, la legge spesso viola l’amore, ma pure lo protegge.

Che sia una buona settimana.

 

Stefano Sodaro