Follia della politica, follia del matrimonio

Particolare della icona della Trinità di Rublev, 1410 

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La cronaca di questi giorni attesta l’assottigliamento dello spazio della vita comunitaria in ragione del divoramento di identità pubbliche compiuto dalle istanze del cosiddetto “privato”. La cittadinanza è divenuta nozione solo anagrafica, da stato civile, mentre le sue implicazioni di partecipazione condivisa – quasi viscerali un tempo – sembrano come sparite, e non si sa se solo momentaneamente silenziate, ammutolite, o perdute per sempre.

Dalla mattina alla sera viene celebrato ogni giorno un rito continuo, anche piuttosto monotono: l’invocazione e la pratica perché trionfi il “noi” quale “io” dilatato. Questo “noi” sarebbe manifestazione d’ogni risolutiva ragionevolezza, panacea di ogni malattia personale e collettiva, un gigantesco “io” nel cui abbraccio trovare rifugio e riparo dall’assedio di terrorizzanti moltitudini di “non-io”, di “altri”, la cui solo ammissione che esistano getta nella più cupa disperazione affettiva. Io amo me.

Qualcuno ha sussurrato – forse anche in maniera non troppo sibilante in realtà – che la “psichizzazione” imperante non è aliena da simile ipertrofia di un io che si moltiplica ma non si mette mai in discussione. E così anche l’amore diventa prima di tutto una faccenda di testa, psichica o psicologica quando non psichiatrica. E tuttavia c’è una bella differenza tra egotismo e soggettività: il primo non si smuove dalla contemplazione del sé, il secondo parte da una necessità di critica cui nulla può sottrarsi, meno che mai la singola esistenza di un singolo individuo. La critica vede persone là dove l’io cresciuto a dismisura vede individui.

Scrive Pier Aldo Rovatti, nel suo saggio su filosofia e follia appena (ri)pubblicato – dal titolo Le nostre oscillazioni, Edizioni alpha beta Verlag 2019 -: «Nel pensiero unico oggi dominante ogni traccia di “follia” è stata cancellata a vantaggio della normale sequenza dei sì e dei no, paradossalmente scanditi come due affermazioni di verità senza alcuna porta girevole tra l’una e l’altra. Una sequenza statica, bloccata in se stessa, senza gioco, rigida e di conseguenza autoritaria. Dove è finita la “follia” di Foucault, e quella di Derrida? Dove sono finiti i paradossi che ci aveva insegnato Bateson? Che fine hanno fatto i dubbi realmente costruttivi che attraversano tutta la fenomenologia, dall’atteggiamento che la introduce (la “sospensione” di giudizio) all’enigma dell’interosoggettività? Nei vent’anni trascorsi dall’inizio del millennio la cultura filosofica ha affondato ogni incrocio tra “follia” e pensiero con poderosi colpi di spugna e conseguenti amnesie. Riprendersi da questa cancellazione, o solo interromperla, è un compito oggi molto difficile anche solo da immaginare.» (pp. 8-9).

Oggi è la Festa della Repubblica. La nostra Costituzione sembra davvero – oggi, in questo preciso contesto politico – frutto di una “follia” che quasi nessuno forse sarebbe più disposto non solo a correre ma nemmeno ad ammettere come ipotizzabile: un arco di forze che partendo dalle più diverse matrici ideali, anzi francamente ideologiche, partorisce un testo condiviso in cui riconoscere i valori fondanti del vivere assieme di una comunità. Sembra follia perché quasi nessuno ritiene che si possa più dare alcuna conciliabilità possibile – dopo il 1989 -, ad esempio, tra comunisti e cattolici, o tra liberali e comunisti: sembra follia, ed invece è storia, che tra i partigiani vi fossero anche monarchici convinti, nonostante l’esito referendario di quel 2 giugno 1946.

L’attuale “ragionevolezza” della vita politica non tollera soggettività, bensì psichismi istituzionali, sui quali per dono provvidenziale vigila al momento la figura del Presidente della Repubblica, la più alta Magistratura del nostro Ordinamento.

In questo panorama, assai desolato e assai desolante, si compie un altro trionfo, celebratissimo pur esso ed anzi catechizzato in ogni dove: l’apoteosi della coppia. Tutto si decide rispetto a tale doppio io, sia in politica, sia a casa, sia tra gli amici, sia nel tempo libero. Si legge pochissimo – i libri restano in libreria – proprio perché la lettura è esperienza soggettiva, personale, non di coppia e nemmeno peraltro individualistica.

Ma c’è un problema, in apparenza piuttosto curioso ed invece – se ci si pensa – rilevativo: il matrimonio contesta la coppia. Sembra una provocazione, un paradosso che non regga la prova della realtà ed invece (un poco presuntuosamente a dirlo, d’accordo) è proprio così: il matrimonio ha dimensioni politiche che la coppia, senza nessun’altra sua caratterizzazione, non conosce. Ed infatti è stata costante – e secondo il qui scrivente del tutto apprezzabile e condivisibile – la richiesta di riconoscimento giuridico anche alle unioni non matrimoniali in senso stretto, in senso diciamo “storicamente codificato”, proprio per estendere la  “matrimonializzazione” a spazi affettivi che la semplice condizione privatistica della coppia non consente e neppure tollera. Quando la coppia predilige il buio del nascondimento, il matrimonio cerca la luce del riconoscimento.

Il matrimonio, ben al contrario di quanto si potrebbe ritenere, è anarchico. Lo è perché il tasso di “follia” di chi si sposa è piuttosto elevato. Lo è perché l’anarchia – in senso proprio e letterale – è protesta di liberazione rispetto a chiusure idolatriche del proprio particolare.

Parliamo qui di un matrimonio che mini alle basi l’autosufficienza della coppia comunemente intesa. Un matrimonio che, per chi si riconosce nella comunità credente, ha a che fare direttamente con la follia di Dio, venendo così in rilievo l’evidenza sociopolitica numero uno, vale a dire per appunto l’immagine di Dio, presente anche laddove taciuta o negata. Potremmo dire che stiamo assistendo ad uno scontro potente tra immagini di Dio, quand’anche non nominato e del tutto laicizzato, e non tutte queste immagini sono compatibili e non tutte sono armonizzabili.

Il risultato del consenso politico che portò alla nostra Carta Costituzionale non è un percorso irrilevante dal punto di vista teologico, dal momento che innerva di comune passione per la vita civile – qualcosa che sembra oggi non follia ma malattia mentale – le singole esistenze di chi diede tutto se stesso perché l’Italia repubblicana nascesse. L’accordo dei costituenti ha, dal punto di vista della teologia spirituale, qualcosa di profondamente matrimoniale, qualcosa di pattizio sì ma talmente intimo, decisivo, coinvolgente che determina il nostro stesso posizionamento rispetto alle scelte quotidiane e rispetto al nostro stare al mondo.

La fede ridotta a religione porta a guardare il Cielo. Il pensiero critico che non escluda una costante apertura – che non escluda cioè la prospettiva teologica, o di fede – porta ad impegnarsi sulla Terra.

Prosegue Rovatti, alle pp. 10 e 11 del suo saggio: «Di fatto la “cultura della follia” risulta ormai evacuata da quella parte della psichiatria che l’aveva ospitata, perciò il termine “follia” è diventato un significante vuoto, privo di significato. Chi si ostinasse a parlarne verrebbe additato come un sopravvissuto nostalgico degli anni settanta del secolo scorso, Gli effetti di questa distruzione della cultura della follia sono molteplici: innanzi tutto, come Foucault aveva visto con grande lucidità, la follia è stata derubricata a malattia mentale e quest’ultima ormai viene considerata come una malattia del cervello, dunque oggetto del sapere medico, realtà fisicalistica da medicalizzare come tale. Si tratta di un apparente progresso, alimentato dall’indagine scientifica, che si coniuga con un evidente regresso, dato che in questo modo la follia viene svuotata di qualunque impatto sociale o simbolico, al punto che il nome stesso risulta oggi un contenitore culturalmente vuoto.»

Ecco, l’onnigamia è follia. Perché l’onnigamia è politica, perché la politica è gamìa.

Che significa concretamente? Significa che l’amore di se stessi non è l’innamoramento del proprio io, ma la spasmodica ricerca di un Tu che dia senso alla propria solitudine, solitudine da non eliminarsi mai.

Le cose si fanno complesse? Sì certo, ma la semplicità è complessa, perché è l’opposto del semplicismo, che invece abbraccia – mortalmente – la complicazione.

Ci fu solo un’appartenenza politica che non poté entrare in alcun modo in quel “matrimonio costituzionalistico” cui si è accennato: l’appartenenza al fascismo.

Noi stiamo con la Costituzione antifascista e riteniamo che l’antifascismo sia un valore proprio in quanto “anti”-sistema rispetto all’odio e alla violenza teorizzata di un io autoritario che diventi nazione.

Buona domenica, Buona Festa della Repubblica.

La politica è passione amorosa, senza confini.

 

Stefano Sodaro