Fra i pilastri comuni delle tre religioni abramitiche

Abramo scaccia Agar dalla propria casa -

Bible Pictures with brief descriptions by Charles Foster, published in 1897, Philadelphia, PA

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Se ci prendiamo la briga di sintetizzare al massimo le tre grandi religioni abramitiche (ebraismo, cristianesimo, islamismo), vediamo come, in realtà, esse abbiano in comune molti più punti di quanto normalmente uno creda: a parte il fatto che il Dio di Gesù, per come ci è stato insegnato, è sempre il Dio di Abramo, ossia lo stesso Assoluto cui si riferiscono anche la religione ebraica e islamica; a parte la certezza (o meglio la pretesa) di essere ognuna l’unica via di salvezza indicata dallo stesso Dio con conseguente certezza di superiorità rispetto alle altre, tutte e tre queste grandi religioni hanno in comune almeno quattro grandi pilastri spirituali: il pellegrinaggio, l’elemosina, il digiuno e la preghiera.

Oggi, tranne che della preghiera che merita un articolo a parte, parleremo di questi altri tre pilastri.

Ai tempi di Gesù, oltre al pellegrinaggio rituale a Gerusalemme per le feste di precetto, gli altri cardini unificanti della religione ebraica erano appunto: la preghiera, l’elemosina, il digiuno (Tb 12, 8)  (Maggi A.). Essi erano voluti da Dio in persona attraverso la sua Legge divina. Ecco perché, all’epoca, vero credente era considerato solo colui che obbediva a Dio osservando le sue leggi, date da Dio nel Sinai al suo servo Mosè, custodite ed interpretate dal magistero infallibile dell’istituzione religiosa (formato allora da sacerdoti e scribi). L’osservanza della Legge era sufficiente per ottenere la salvezza.

Non molto diversa è la definizione di vero credente data dall’art. 3 del vecchio Catechismo di papa Pio X: vero cristiano è colui che è battezzato, che crede e professa la dottrina cristiana e obbedisce ai legittimi Pastori della Chiesa.

Anche i pilastri su cui si fonda la religione islamica (Samir Khalil Samir, Cento domande sull’Islam) non sono molto diversi. Credente, per l’islam, è la persona che segue la volontà divina, e osserva: 1) la professione di fede in Dio e nel suo profeta Maometto che ha ricevuto direttamente da Dio le sue leggi trasfuse nel Corano; 2) la preghiera rituale cinque volte al giorno; 3) l’offerta dell’elemosina rituale; 4) il digiuno durante il mese di Ramadan; 5) il pellegrinaggio a La Mecca da compiere almeno una volta nella vita per chi ne ha la possibilità. Qui non c’è l’obbedienza ai legittimi pastori per il semplice fatto che l’islam (sunnita, quello più diffuso) non ha una struttura gerarchica del clero come l’abbiamo noi.

L’Islam, in pillole, è tutto qui: alla portata e alla semplice comprensione di tutti. Si fa per dire naturalmente che è tutto qui: basta pensare alla profondità del sufismo e alla sua via interiore verso Dio. Ma l’uomo comune, che si accontenta sempre di poco, si sente sicuro e pensa di essere un perfetto musulmano che salverà la sua anima in paradiso se solo osserva queste cinque-regolette formali-cinque.

Le cose non stanno diversamente nel mondo cattolico, avendo anche noi copiato a man bassa dagli ebrei: preghiera, elemosina, digiuno (Mt 6, 2.5.16;  Didache IV, 6; VIII, 1), e molti che si dichiarano credenti sono convinti che seguendo queste formalità, e partecipando ai sacramenti, avranno un’automatica salvezza eterna.

Non è forse vero che la signora che dice di credere che esiste un solo Dio, che obbedisce al suo vescovo, che crede a tutti i dogmi (l’importante è che vengano creduti; secondario è ciò che si crede), che va a messa tutte le domeniche e le feste comandate (magari approfittando dell’occasione per sfoggiare la sua bella pelliccia di visone), che partecipa con frequenza alla comunione dopo essersi regolarmente confessata, che mangia di magro il venerdì, che fa l’elemosina al poveraccio infreddolito seduto sui gradini della chiesa, che insomma è scrupolosissima in tutto ciò che attiene alla pratica sacramentale, è spesso convinta di essere una perfetta osservante cattolica e di meritare perciò solo il paradiso con questa sua inappuntabile condotta? Non sarà andata in pellegrinaggio a La Mecca, ma magari è andata una volta in Piazza San Pietro a vedere il papa, o forse ha percorso anche qualche tratto del cammino di Santiago o della Via Francigena.

Questa signora pia e religiosa resterebbe probabilmente stupita se le facessimo notare che il formalismo rituale – abbastanza facile da seguire - è sostanzialmente identico in tutte le religioni, ma ha assai poco a che vedere col reale insegnamento di Gesù, e che questo suo carnet di credente, pieno di timbri di convalida, sarà del tutto inutile al momento del giudizio, se non si è proiettato l’amore verso il fratello più povero, più debole. Del resto Gesù ha espressamente detto che non basta proprio il formalismo rituale. Non basta dire: “Signore, Signore”; bisogna porre in opera il disegno del Padre (Mt 7, 21; Lc 13, 25).

E qual è il disegno del Padre, portato avanti da Gesù nella sua vita terrena? Lo spiega bene e sinteticamente il prof. Castillo: il progetto di Gesù è stato principalmente quello di farla finita con una società diseguale, e per raggiungere l’obiettivo ha mostrato che la cosa più efficace era tagliare alla radice l’abissale distinzione fra «eletti» e «volgare gente comune», che si è sempre fatta in tutte le civiltà. Ecco l’impegno di Gesù per mettere «gli ultimi» al posto dei «primi» (Mt 20, 16), e viceversa. Quello che Gesù vuole è che ci si sforzi tutti per mettere al posto principale gli ultimi ed i poveri, perché il disegno di Dio è fare una “casa comune” per tutti. Se riusciamo a fare  questo, faremo un passo decisivo per il raggiungimento di una società più giusta, nella quale tutti siamo fratelli, e tutti diventiamo così anche più umani.  Il cristianesimo, cioè, è un modo di vivere; non è osservare dei precetti, ma è vivere come è vissuto Gesù Cristo. Se manca una compartecipazione che esce dal cuore, tutto il resto, soprattutto il rituale, non conta niente. Pensiamo al caso del fratello maggiore nella parabola del figliol prodigo, che ha sempre obbedito a tutte le regole, ma non sa amare (vedi l’articolo Ma come facciamo a sapere di essere perdonati, al n. 468 di questo giornale, https://sites.google.com/site/agostosettembre2018rodafa/numero-468---2-settembre-2018/ma-come-facciamo-a-sapere-di-essere-perdonati). Dunque, la condizione necessaria per relazionarsi col Dio di Gesù e per avvicinarsi a Lui non è altro che la propria umanizzazione. Più si diventa umani, più ci si avvicina al Dio di Gesù.

E allora vediamo questi rituali che invece sono rimasti come pilastri nelle tre religioni.

1. Pellegrinaggio. Nel Nuovo Testamento Gesù non chiede di andare in nessun luogo in pellegrinaggio. Dunque, cambiare vita (metanoia), aprirsi ad una nuova vita, convertirsi, è l’unico pellegrinaggio che l’uomo ha il dovere di compiere nella sua vita. Un viaggio continuo che avviene dentro a sé stesso.

Dunque, in questo, il cristianesimo sembra lontano dalle altre due religioni, ma è meno lontano di quanto comunemente si pensi. Non siamo infatti lontani dal messaggio del maestro sufi Al-Hallaj (858-922 d.C.), il quale dichiarava che quello che conta non è tanto andare a girare attorno alla Ka’ba de La Mecca, ma attorno alla Ka’ba del proprio cuore, così sottolineando l'importanza delle intenzioni del cuore e degli atti compiuti con amore in un rapporto di unione con Dio piuttosto che l'obbedienza sterile, vuota e solo apparente ai dogmi di fede e ai rituali. Dunque, la metanoia, la conversione è – secondo i vangeli,-  un grande viaggio verso sé stessi. E perché invece la conversione non può essere semplicemente un viaggio di ascesa verso Dio, attraverso il culto, attraverso la preghiera? Per il semplice fatto che, come risulta dall’inizio del Vangelo di Matteo (Mt 1, 23), Dio è già sceso, è qui con noi, per cui non si deve andare alla sua ricerca lassù in alto. Non solo: Gesù stesso ci ha fatto capire che non esige l'ascesi: “dacci oggi il nostro pane”, qui sulla terra; non dice una parola di condanna per il sesso; non chiede né il pellegrinaggio, né l’elemosina, né il digiuno.

2. Nella Bibbia si caldeggia l’elemosina, la quale viene vista come penitenza perché purifica da ogni peccato (Tb 12,9); oppure si dice più plasticamente che come l’acqua estingue le fiamme, l’elemosina estingue il peccato (Sir 3,29s): il peccatore avverte di essere lontano da Dio e quindi incapace di ricorrere a Lui, ma avvicinandosi ai poveri si avvicina a Dio e questo spiana la strada all’incontro con Dio (Lorenzetti L., L’elemosina espia le colpe? “Famiglia cristiana”,  n. 4/2011, 11). O, in maniera ancora più descrittiva, si legge che Daniele, dopo aver predetto la pazzia di Nabucodonosor, gli consiglia di cancellare i suoi peccati con l'elemosina (Dan 4, 24). Va ricordato che in allora le malattie (fisiche e mentali) erano considerate una punizione divina per i peccati. Ad esempio, il lebbroso rappresenta l’uomo che la religione considera peccatore, perché la lebbra è una punizione divina (Nm 12, 9): il che significa che l’ammalato viene escluso da Dio, ed essendo impuro non può neanche pensare di avvicinarsi a Dio.

Anche per l’islam, l’elemosina è il terzo dei cinque pilastri su cui si fonda questa religione (Corano, sura II, 43: “versate l’elemosina”). In arabo il termine elemosina è conosciuto come la zakat, che letteralmente significa "purificazione", perché la zakat serve appunto per purificare il cuore dall'avidità individuale.

Ma se leggiamo i vangeli Gesù non invita mai a fare l’elemosina: troppo facile e troppo poco impegnativo. Gesù invita alla condivisione. L’elemosina si fa tra un benefattore e un beneficato, la condivisione si fa fra fratelli. Nel primo caso si mantiene una distanza di livello fra chi dà e chi riceve; nel secondo ci si trova su un piano di uguaglianza. E Gesù ci indica che il valore di una persona va soppesato non in base all’atteggiamento religioso, non in base all’inflessibile e intransigente fedeltà alle dottrine più ortodosse, non in base alla frequente partecipazione ai riti, ma in base alla generosità: se una persona è generosa e condivide vale; se non condivide, potrà essere la più pia, la più devota di questo mondo, ma resta un’inutile persona religiosa (Maggi A.).

Quanti di noi fanno ancora l’elemosina per strada e sono così convinti di seguire il vangelo? Certo, quando si vede una bambina per strada che chiede l’elemosina si deve fare uno sforzo per resistere all’impulso di dare; ma è opportuno ricordare quanto dice in proposito il musulmano Yunus Muhammad, premio Nobel per la pace (ma forse avrebbe meritato di più il premio per l’economia, avendo inventato la banca dei poveri), il quale conferma che, nella maggior parte dei casi, l’elemosina non solo non è utile, ma è dannosa (cfr. il libro Il banchiere dei poveri), perché  «dà, solo al donatore, l’impressione di aver fatto qualcosa. È un gesto che serve a tacitare la coscienza, ma non risolve realmente il problema, anzi ci esime dall’affrontarlo nella sostanza. Facendo l’elemosina ci togliamo il pensiero, ma per quanto? L’elargizione di denaro non costituisce una soluzione, né a breve, né a lungo termine. Il mendicante passerà a un’altra auto, e poi a un’altra ancora, affidandosi per sopravvivere a un meccanismo senza via d’uscita. Per affrontare onestamente il problema dovremmo impegnarci ad avviare un processo: se il donatore aprisse la portiera dell’auto e chiedesse al mendicante qual è il suo problema, come si chiama, quanti anni ha, che cosa sa fare, se ha bisogno di assistenza medica e così via, quello sarebbe un modo per cominciare ad aiutare davvero. Ma allungare una moneta significa implicitamente invitare il mendicante a sparire, è un modo per sbarazzarsi comodamente del problema, lavandoci la coscienza. Dal punto di vista del destinatario, la carità può avere effetti devastanti. Chi raccoglie denaro mendicando non è motivato a migliorarsi; il malato non vorrà farsi curare temendo di perdere la propria fonte di guadagno. In ogni caso, mendicare priva l’uomo della sua dignità. Togliendogli l’incentivo a provvedere alle proprie necessità con il lavoro, lo rende passivo e incline a mentalità parassitaria: perché faticare, quando basta tendere la mano per guadagnarsi la vita?»

Occorreva un musulmano per chiarirci tutto questo? In realtà l’aveva già detto Gesù, eppure i più non l’hanno ancora oggi capito, anche se qualche autore cristiano aveva espresso assai chiaramente il concetto già secoli fa: ad esempio il vescovo Ambrogio aveva affermato che la proprietà comune è stata data a tutti, anche se poi solo pochi la usano per il proprio interesse individuale. La terra è di tutti, non dei ricchi. E recentemente è stato ricordato (Carello R.) che pagare è distruggere il ponte che ci lega alla responsabilità. Basta pensare a come il cliente che va con una prostituta, magari anche minorenne, si libera la coscienza pensando che avendo pagato non sta poi facendo nulla di male.

Teniamo presente che l’identico meccanismo perverso che opera sul piano individuale interviene più in grande anche nel campo degli aiuti internazionali. La dipendenza dal soccorso internazionale favorisce quei governi che meno si danno da fare, aspettando passivamente gli aiuti internazionali; invece di applicarsi a ricercare soluzioni locali, si creano così le condizioni per l’instaurarsi di una economia distorta e di un clima politico che favorisce i governi abili a compiacere il ricco mondo dei donatori, con relativo proliferare di postulanti e funzionari corrotti.

Sarà forse perché ci portiamo ancora dietro, dopo venti secoli, il legalismo veterotestamentario, ma molti di noi sono ancora oggi convinti che ci si salva mettendo l’accento sul rito, sul comandamento, sull’aspetto legale, sull’amore inteso in senso verticale verso Dio (Arias J.): quindi credono che, avendo fatto l’elemosina per amor di Dio, cioè per meritare il suo amore, sono ormai a posto.

Invece dovremmo tenere ben presente che i vangeli non raccomandano mai di fare l’elemosina affinché gli altri possano mangiare. L’insistenza dei vangeli, quando ad es. parlano di alimentazione, si focalizza sulla convivialità, sul condividere la mensa. C’è una differenza abissale fra dar da mangiare a qualcuno allungandogli una moneta, perché mangi dove e come può, o far accomodare qualcuno alla propria tavola per condividere con lui la stessa energia di vita che sostiene tutti noi. Soprattutto quando la persona che invitiamo a casa nostra non è un personaggio, un parente o un amico, bensì uno qualsiasi o, il che risulterebbe più strano, qualcuno che ci sembra sgradevole o perfino ripugnante. Far sedere alla mia tavola un barbone, un vagabondo sconosciuto o una persona che è considerata disprezzabile (come uno straniero), tutte queste sono forme di condotta così infrequenti, che chi le pone in essere sembra un audace, un ingenuo o forse uno stravagante (Castillo J.M.). Eppure è questo ciò che chiede il Vangelo, il che ci fa immediatamente capire quanto siamo ancora distanti dall’aver capito e accolto il suo messaggio.

3. Per la Chiesa, che aveva istituito il digiuno (n. 487 Catechismo di Pio X; art. 1249-1251 del codice canonico) e l’astinenza dalla carne di venerdì, l’inosservanza al precetto costituiva già peccato mortale; e ai precetti della Chiesa si deve obbedire perché facilitano l’osservanza dei comandamenti (470 del Catechismo di Pio X) sì che basta trasgredire gravemente uno solo dei precetti per finire all’inferno (art.472). Il che vuol dire – come ha più volte ironicamente ricordato il biblista Alberto Maggi - che se ti soffocavi di venerdì mentre stavi mangiando un bel paninazzo col prosciutto, finivi all’inferno per tutta l’eternità, mentre se lo stesso succedeva il giorno prima o il giorno dopo conservavi intatta la possibilità di finire in paradiso. Ma è logicamente sostenibile che Dio ci mandi all’inferno per tutta l’eternità per un po’ di prosciutto mangiato nel giorno sbagliato della settimana?

“Sì! Perché Dio è perfetta giustizia, e se ti ha punito per l’eternità perché hai mangiato un po’ di prosciutto di venerdì, vuol dire che lo hai offeso, e l’offesa è infinita perché Dio è infinito”, tuonerà il credente integralista. Al che viene subito da replicare: “se invece mangiavi ostriche, caviale e champagne spendendo dieci volte tanto, per Lui andava benissimo e ti ammetteva in paradiso”. Ma non vi suona almeno un pochino strano e illogico questo inferno eterno per un po’ di prosciutto, visto che Dio ci ama immensamente? Gesù ci dice che di fronte a un’offesa dobbiamo perdonare non sette volte, ma settanta volte sette (Mt 18, 22), e poi ci presentano un Dio che per una miserabile fettina di prosciutto o di mortadella s’imbufalisce, se la lega al dito e non ti perdona più, per tutta l’eternità. Ma cosa diremmo dell’amore di una mamma, che avendo colto suo figlio con le mani nella marmellata, dopo avergli proibito di prenderla da solo, lo caccia di casa e non lo vuole vedere mai più? Come si può sensatamente affermare che i dannati per l’eternità restano sempre sottoposti ad una giusta pena e hanno avuto ciò che hanno voluto, perché coscientemente avevano fatto una scelta contro Dio? (così Cavalcoli G., L’inferno esiste). Anche il figlio che ha cercato di mangiare di nascosto la marmellata ha fatto una scelta contro la mamma, ma per questo una mamma normale lo caccerà per sempre di casa? Sarebbe una madre indegna. E, come si è ormai detto più volte, non si può credere a Dio se ci sentiamo migliori di lui.

È evidente che quello che ci è stato presentato dalla dottrina ufficiale è un Dio che preferisce vedere su questa terra uomini sofferenti piuttosto che uomini felici, solo perché il primo uomo l’aveva offeso; siamo davanti a un’immagine di un Dio vendicativo e sadico, il quale preferisce che ciascuno di noi porti la sua croce ‘gementi e piangenti in questa valle di lacrime’  (si recitava così, nel Salve Regina, preghiera oggi per fortuna desueta); poi, se qualcuno se lo sarà meritato… forse .... Ma se la Buona Novella è che Dio è amore offerto gratuitamente a tutti, è lampante che la buona novella diffusa in tutto il mondo dalla Chiesa, legata ai meriti e alla sofferenza, appare inconciliabile con questo amore gratuito. E che razza di amore verso Dio sarebbe quello del sedicente credente, quando è accompagnato dal secondo fine del merito? Ben diceva il teologo Bultmann che un amore, che guardi alla propria prestazione, non è vero amore.

Allora va detto a chiare lettere, a prescindere da cosa pensano tanti integralisti, che non si finisce all’inferno per un po’ di prosciutto mangiato di venerdì. Va anche ricordato che mai Gesù ha detto di fare un digiuno religioso perché questo piace tanto a Dio. Il digiuno, come forma di penitenza, nei vangeli non c’è, nel senso che Gesù non ha mai invitato al digiuno per far vedere a Dio quanto siamo capaci di soffrire per Lui: quindi, dobbiamo dedurre che queste non sono pratiche imposte da Dio, ma sono pratiche pagane, in seguito fatte proprie anche dalla Chiesa. Stiamo ovviamente parlando del digiuno come rinuncia al cibo, non come rinuncia a nutrirsi idealmente di ingiustizie, potere e ricchezze, perché già nella Bibbia (Is 58, 6-7) Dio in persona aveva detto: “Per digiuno intendo un’altra cosa: rompere le catene dell’ingiustizia, rimuovere ogni peso che opprime gli uomini, rendere la libertà agli oppressi …dividere il pane con chi ha fame, aprire la casa ai poveri senza tetto, dare un vestito a chi non ne ha, non abbandonare il proprio simile”. Questo, già nella Bibbia, era il digiuno gradito a Dio.

Il digiuno alimentare è invece nato come superstizione nel mondo antico perché si credeva che, quando una persona moriva, i demoni che avevano causato la morte fossero ancora nell’aria, pronti a uccidere anche i familiari; allora i familiari del morto, ricorrevano a due sistemi: 1) si cambiavano d’abito per non essere riconosciuti, e questa è la radice del nostro vestirsi a lutto. Travestirsi era cioè un modo per non farsi notare come parenti. 2) Ma soprattutto si digiunava perché i demoni, che avevano causato la morte dell’individuo, potevano aver infettato altri cibi, oltre a quelli mangiati dal morto. Quindi il digiuno e il lutto nascono come una superstizione nel mondo pagano, e sono poi arrivati fino al nostro mondo cristiano.

Certo, se scorriamo una edizione pre-concilio dei vangeli, troviamo effettivamente frasi come:

-  Marco 9, 28; Matteo 17, 20: Gesù rispose: “questo genere di spiriti non si può scacciare in nessun modo se non con la preghiera e il digiuno”, e questo digiuno è sicuramente una forma di penitenza, perché:

- Mt 3,2; Marco 1, 4; Luca 3, 3: san Giovanni Battista predica un battesimo di penitenza;

- Mt 18, 3; Mc 1,15; Lc 13, 5: Gesù dice: “se voi non farete penitenza, non entrerete nel regno dei cieli”.

Su queste traduzioni si sono costruite le dottrine che conosciamo tutti. Però guardiamo ora all’ultima edizione della CEI del 2008 (la versione CEI è la Bibbia ufficiale della Chiesa cattolica), o qualsiasi altra recente traduzione: quatti quatti, in Mc 9, 29 e in Mt 17, 20, i compilatori hanno completamente eliminato l’inciso “e il digiuno” (ed è sparito anche il termine penitenza, ma di questo parleremo un’altra volta). Dunque, il digiuno è sparito! Come mai? Semplicemente perché ci si è accorti che nel testo greco più antico pervenutoci il termine ieiùnio, riportato nella traduzione latina e arrivato fino a noi, non è mai esistito ed è ormai riconosciuto che si è trattato di un’aggiunta di qualche copista troppo zelante. Nel frattempo, però, copia dopo copia per ben 1500 anni, il digiuno aveva assunto enorme importanza nella spiritualità cristiana  perché si credeva che proprio Gesù l’avesse ordinato di fare, mentre Gesù quando aveva mandato in missione i suoi discepoli aveva detto: “Mangiate quello che vi viene messo davanti” (Lc 10, 8). San Francesco questo l’aveva perfettamente afferrato, per cui anche dopo che frate Elia aveva cominciato a scrivere le regole francescane inserendo l’astinenza, quando con frate Leone venne invitato a pranzo da un signore e venne offerto loro della carne in un giorno di astinenza, Francesco disse a Leone che non voleva mangiare: «Che cosa dobbiamo osservare, la parola di Gesù o la parola di frate Elia?» «La parola di Gesù!»  rispose frate Leone. «E qual è la parola di Gesù?» riprese Francesco. «Mangiate quello che vi viene messo davanti», disse frate Leone. «E allora abbiamo la carne e mangiamo serenamente la carne» concluse Francesco.

Del resto, quando i farisei hanno fatto notare a Gesù che perfino i discepoli di Giovanni Battista digiunano (Lc 5, 33), - ed è questo l’unica volta in cui sorge discussione sul punto -  egli ha risposto che gli invitati a nozze non possono digiunare finché lo sposo è con loro: altrimenti che festa gioiosa sarebbe? Verranno da soli i giorni del lutto e allora si digiunerà, ma perché ci si stringerà lo stomaco, e non perché Dio apprezza il digiuno. Dunque, il digiuno è un’espressione di lutto ed è incompatibile con la gioia che deve (o meglio: dovrebbe, perché troppo spesso i cristiani appaiono tristi e depressi) aleggiare nella comunità cristiana. Lo stesso san Paolo (Col 2, 16) aveva scritto: «nessuno dunque vi condanni in fatto di cibo o di bevanda»  (mangiare o non mangiare), e ancora più categoricamente: «il regno di Dio non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito santo» (Rm 14, 17).

Quando tutte le persone pie digiunavano, cosa faceva Gesù? Da buon eretico Gesù si faceva una bella mangiata con i peccatori, con i miscredenti: vuol dire che non teneva in gran conto questa pratica di elevazione spirituale imposta dalla legge spacciata come divina. Siccome Dio si vede in quello che faceva Gesù, vuol dire che a Dio, che uno mangi o non mangi non interessa proprio; gli interessa solo come uno si comporta con le altre persone, perché solo onorando l’uomo si onora anche Dio.

“Ah no!” dirà il pio osservante: in Mt 6, 16 Gesù ammette espressamente il digiuno, e gli stessi Vangeli dicono che Gesù ha digiunato per 40 giorni nel deserto (Mt 4, 2; Lc 4, 2). È vero, ma le cose non stanno così.

Bisogna chiedersi qual è il significato del digiuno religioso, perché è di quello che stiamo parlando. Il digiuno è chiaramente un’espressione di morte, perché se uno non mangia muore. Nel digiuno religioso si digiuna volontariamente non per far mangiare qualcun altro quando il cibo non è sufficiente per tutti (questo sarebbe un digiuno di condivisione a favore di un altro), ma ci si mette volontariamente e potendone fare a meno in una situazione di negatività, di tristezza, di morte, per attirare su di sé lo sguardo benevolo di Dio (più terra terra, l’onorevole Pannella lo faceva per attirare su di sé l’attenzione benevola dei suoi colleghi politici, che altrimenti non lo prendevano in considerazione), e soprattutto il suo perdono (Maggi A.). Il digiuno faceva quindi parte delle pratiche espiatorie per ottenere il perdono di Dio: per scalare il cielo si pensava che una purificazione avvicinava a Dio. Il digiuno religioso, poi, al pari dell’odierno Ramadam musulmano, comportava l’astinenza dal cibo dall’alba al tramonto. Ebbene, Gesù non ha mai praticato il digiuno religioso. Nell’episodio del deserto, si dice che Gesù stette senza mangiare e senza bere quaranta giorni e quaranta notti, quindi non fu il digiuno religioso, perché era ininterrotto. Cosa vuol dire? Scrivendo per gli ebrei, Matteo aveva un notevole scoglio da superare: la figura mitica di Mosè (Ratzinger J-Benedetto XVI, Gesù di Nazareth). Mosè è il grande legislatore e allora Matteo deve proporre alla sua comunità un Gesù che non è inferiore a Mosè; e se Mosè sul Sinai è stato 40 giorni interi senza mangiare e senza bere per ottenere la legge del Signore (Es 34, 28), ecco che l’evangelista (evidentemente il suo è un escamotage letterario), ci presenta questo Gesù nel deserto che a sua volta per 40 giorni non mangia e non beve, né di giorno né di notte. Quindi è la dimostrazione che lui non è da meno di Mosè. Nei vangeli non c'è un solo termine che sia messo a sproposito, ognuno ha un suo significato. Perché l'evangelista non si limita a dire che digiunò quaranta giorni, ma aggiunge quaranta notti? Proprio perché il digiuno religioso, quello imposto dalla legge, inizia all'alba e termina al tramonto. Per far vedere che Gesù non fa il digiuno religioso, l'evangelista ci aggiunge quaranta notti. Quindi siamo davanti una prova di forza che mette Gesù allo stesso livello del grande profeta Mosè (Maggi A.).

In effetti, dai vangeli, Gesù non emerge mai come un asceta. Anzi (Mt 11, 18-19; Lc 7, 33-34) l’ascetismo di Giovanni Battista (non mangia e non beve) viene contrapposto alla normale carnalità di Gesù (mangia e beve). Leggendo i vangeli sono tanti i pranzi ai quali Gesù ha partecipato, il che ha fatto sorgere su di lui la diceria che era un ghiotto mangione ed un ubriacone, amico di pubblicani e di prostitute. Quindi Gesù è uno che godeva della buona compagnia, della buona tavola e del buon vino. I digiunatori religiosi, sempre tristi, sono coloro che vogliono meritare l’amore di Dio offrendo a Lui la propria fatica. Tutte cose che Gesù ha dichiarato inutili, anche se i farisei, e perfino i seguaci di Giovanni Battista ci credevano fermamente. Quanto al passo 6, 16 di Matteo, si è già detto che questo evangelista scrive per i giudei. In Matteo, dunque, Gesù sembra rispettare queste tre pratiche, pilastri della religione giudaica, perché l’evangelista prevede un avvicinamento graduale al messaggio evangelico; ma già qui vengono fissati opportuni paletti per staccare queste tre pratiche dalla religione di allora: la preghiera non va esibita. Vuoi pregare? Ritirati in una stanza della tua casa, lì Dio già ti vede e non occorre strombazzare in pubblico la tua fede: l’opposto, dunque, di quanto facevano i farisei che si mettevano all’angolo delle piazze, o di quanto fanno ancora oggi i musulmani che s’inginocchiano in pubblico verso La Mecca. L’opposto di quanto faceva ancora Pietro dopo la resurrezione di Gesù, perché non avendo ancora capito quasi nulla del nuovo messaggio pregava sulla terrazza di casa, in modo che tutti potessero vederlo (At 10, 9). “Ma così si dimostra che non ci si vergogna di Gesù, per cui Lui non si vergognerà di noi” dirà il pio ortodosso. Evidentemente, se Gesù ci ha detto di pregare nel privato della propria stanza, non vergognarsi di Lui forse significa qualcosa di diverso; forse richiede un comportamento di misericordia quotidiano verso gli altri, mentre non gli interessano i segni esteriori e meramente formali di riconoscimento (i rituali che tanto piacciono ai pii osservanti, come il segnarsi col segno della croce davanti a tutti, portare addosso simboli visibili della propria religione, ecc.).

L’elemosina? Anche questa va eventualmente fatta in segreto, perché  - come detto,- il cristiano deve condividere, non fare l’elemosina.

Lo stesso vale per il digiuno: se proprio ritieni di doverlo fare, fallo; ma fallo in modo che nessuno se ne accorga perché non servono tutti quei segni luttuosi propri del digiuno (cospargersi il capo di cenere, fare la faccia triste) per attirare la benedizione da parte di Dio. Gesù anzi aggiunge che se proprio vuoi digiunare devi dare un’impressione di gioia e non di lutto, per cui quel giorno provvedi a profumarti. Ma se il digiuno religioso non è manifestazione di lutto, di sofferenza autoinflitta e di offerta a Dio, perde ogni suo significato. Non a caso, nello stesso Vangelo di Matteo, Gesù insegna non a digiunare, ma a dividere il pane con gli affamati (Mt 25, 35, richiamando il digiuno apprezzato da Dio anche nella Bibbia: Is 58, 7).

Dario Culot