Cosa sono giuridicamente le parrocchie e le Caritas parrocchiali

Locali della Caritas libanese e di Zurigo - foto tratte da commons.wikimedia.org

Visto che sono tantissimi i volontari che operano nel campo della beneficienza, inserendosi con entusiasmo in organizzazioni di vario tipo (dove quelle religiose fanno da noi la parte da leone), vorrei oggi offrire un’infarinatura giuridica a quei volontari che collaborano nelle parrocchie ed operano nelle Caritas diocesane o parrocchiali, posto che non è chiara a tutti la natura giuridica di questi organismi, sì che sorgono dubbi sulla rappresentanza e sulla responsabilità civile.

Cominciamo col dire che le fedi religiose operanti in Italia possono essere riconosciute attraverso speciali intese con lo Stato, e prendono allora il nome di confessioni religiose; se non sono riconosciute, prendono il nome di culti, e sono regolate dalla vecchissima legge 24.6.1929, n.1159 (Disposizioni sull’esercizio dei culti ammessi nello Stato).

In Italia, stante la preminenza del cattolicesimo, esiste per la Chiesa cattolica un trattamento privilegiato, posto che solo la Chiesa cattolica è riconosciuta come ordinamento sovrano (art.7.1. Costituzione). Il trattamento privilegiato è contenuto nelle leggi 25.3.1985, n. 121, 20.5.1985, n. 206, e 20.5.1985, n. 222, di ricezione degli Accordi di revisione del Concordato lateranense del 1929, sottoscritti nel 1984, anche se va ricordato che secondo il nuovo Concordato la religione cattolica non è più religione di Stato. Difatti così si legge nel paragrafo 1 del Protocollo Addizionale: “Si considera non più in vigore il principio originariamente richiamato dai Patti Lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano”[1].

A conferma di questo nuovo principio, va osservato che lo Stato italiano ha concluso intese anche con altre fedi religiose. Per ricordare le più note:

a) Chiesa valdese: intesa del 21.2.1984, approvata con legge 11.8.1984, n. 449;

b) Unione delle comunità ebraiche italiane: intesa del 27.2.1987, approvata con legge 8.3.1989, n. 101;

c) Unione cristiana evangelica battista d’Italia: intesa del 29.3.1993, approvata con legge 12.4.1995, n. 116;

d) Chiese evangeliche luterane in Italia: intesa del 20.4.1993, approvata con legge 29.11.1995, n. 520;

e) Unione buddista italiana: intesa del 20.3.2000, approvata appena con legge 31.12.2012, n. 245;

f) Unione induista italiana – Sanatama Dharma Sanghia: intesa del 4.4.2007, approvata con legge 31.12.2012, n. 246.

g) Sacra archidiocesi d’Italia ed Esarcato per l’Europa meridionale (dei cristiani ortodossi): intesa del 4.4.2007, approvata con legge 30.7.2012, n.126.

Senza la legge di approvazione, i relativi accordi non sono vincolanti, appunto perché non hanno forza di legge, per cui le fedi restano giuridicamente sotto la disciplina della legge del 1929 sui culti.

Ad esempio, non risulta ancora una legge di approvazione per:

(a) la Congregazione cristiana dei testimoni di Geova, pur essendovi stata un’intesa nell’ormai lontano 20.3.2000, sostituita con una nuova intesa del 2007;

(b) l’Islam, ormai fortemente presente in Italia, con cui però non è stato stilato ancora nemmeno un accordo, anche perché, non trattandosi di religione strutturata gerarchicamente come la nostra, è difficile individuare un referente.

(c) la Chiesa di  Scientology, con cui non esiste alcun accordo mentre essa è riconosciuta negli Stati Uniti.

Infine la Corte costituzionale, con sentenza 52/2016, ha messo fine alla pretesa dell’UAAR (Unione degli atei e degli agnostici razionalisti) di arrivare a un’intesa con lo Stato (in suo favore c’erano le sentenze 6083/2011 del Cons. di Stato e 16305/2013 della Cassazione a sez. riunite) affermando che il rifiuto a trattare da parte del governo era legittimo trattandosi di atto discrezionale non sindacabile del potere esecutivo.

Lo studioso Silvio Ferrari (in “La collaborazione tra Stati e confessioni religiose nell’Unione Europea”, in Vita e Pensiero, n. 5 del 2000, p. 438), ha messo in luce come gli Stati europei siano disposti a collaborare con i gruppi religiosi. Tale attitudine, tuttavia, non è indiscriminata: la disponibilità alla cooperazione è “più ampia laddove si riscontra una sintonia tra i valori che reggono la società religiosa e quelli che sono posti a fondamento della società civile, meno ampia dove questa sintonia non esiste”.

Tutte le confessioni e anche tutti i culti possono creare enti senza chiedere il riconoscimento come persona giuridica[2]. Si potranno pertanto incontrare enti dipendenti o collegati a religioni che operano nel nostro ordinamento come persone giuridiche (ente riconosciuto), ma anche enti che operano come associazioni non riconosciute (enti di fatto). Va però precisato che non basta qualificarsi come ente avente fine religioso, ma tale fine va dedotto alla stregua della reale natura dell’ente e dell’attività in concreto svolta (Corte cost. 19.11.1992, n.467, in riferimento all’associazione non riconosciuta Dianetics, che non aveva pagato l’Iva ritenendo di essere un’associazione religiosa).

Quando si parla di ente ecclesiastico, si pensa automaticamente agli enti riconosciuti appartenenti alla confessione religiosa cattolica, ma hanno tale qualifica anche gli enti delle altre confessioni religiose con cui lo Stato italiano ha concluso delle intese (si pensi, ad es., alla Tavola Valdese). Col termine ente ecclesiastico si indicano quindi quelle organizzazioni che, utilizzando normalmente la forma giuridica dell’associazione o della fondazione [3], perseguono finalità di carattere religioso, essendo dipendenti da una confessione religiosa riconosciuta dallo Stato.

Gli enti della Chiesa cattolica si trovano comunque in situazione privilegiata perché, avendo riconosciuto alla Santa Sede una piena sovranità (art. 7 della Cost.), è conseguentemente riconosciuta alla stessa anche un’assoluta libertà di organizzazione e di controllo dei propri enti ecclesiastici, che sono assoggettati solo al diritto canonico (artt. 2 e 7 L. 25.3.1985 n. 121). Gli enti ecclesiastici sono quindi creati dalla Chiesa nel suo proprio ordinamento, senza interferenza alcuna da parte dello Stato italiano.  Posto che lo Stato non può mai costituire un ente ecclesiastico proprio perché da istituzione laica lascia ad altri l’iniziativa religiosa, l’aspetto più rilevante, oltre alle varie esenzioni fiscali, è l’impossibilità per lo Stato stesso di intervenire all’interno dell’ente, non potendo imporre i propri principi civilistici generali (ad es., si pensi al principio maggioritario nelle decisioni, mentre solitamente gli enti ecclesiastici usano un principio gerarchico), né potendo intervenire con sostituzioni, controlli, commissariamenti o amministrazioni giudiziarie.

Permane perciò sempre una notevole differenza fra enti ecclesiastici appartenenti alla Chiesa cattolica e quelli di altre confessioni. Infatti, le altre confessioni religiose che hanno concluso un’intesa con lo Stato italiano possono costituire enti, ma le regole che permettono il loro funzionamento sono rilevanti nel nostro ordinamento italiano solo come espressioni dell’autonomia statutaria, al pari di tutte le persone giuridiche private, per cui sono completamente assoggettati alla legge civile. Per questi enti, cioè, vale integralmente il diritto comune dello Stato italiano, salvo esenzioni che siano espressamente previste nelle intese.

Nel caso di enti di culto, infine, la vigilanza dello Stato è ancora più penetrante (art. 2, 3° co., L. 1159/29), potendo intromettersi nel loro funzionamento con ispezioni le quali possono concludersi perfino con lo scioglimento dell’organo amministrativo dell’ente visitato e/o con l’annullamento degli atti dell’ente stesso, se ritenuti in violazione di legge o di regolamento dello Stato (artt.14-15 r.d. 28.2.1930, n. 284 – Regol. di attuazione della L. n. 1159/29).

Tutti gli enti ecclesiastici cattolici hanno un doppio riconoscimento: da parte dell’autorità religiosa prima, e da parte dello Stato italiano poi. Quando la Chiesa intende far operare il suo ente nell’ordinamento italiano ne chiede infatti il riconoscimento agli effetti civili (L. 20.5.1985, n. 222) e lo Stato italiano è tenuto ad accogliere nel proprio ordinamento questi enti ecclesiastici eretti dalla Chiesa, con le caratteristiche che gli stessi possiedono nell’ordinamento di provenienza. Il che comporta che non possono appunto applicarsi agli enti ecclesiastici cattolici le norme del codice civile in tema di costituzione, struttura, amministrazione ed estinzione delle persone giuridiche private (conferma in Gazz. Uff. n. 241/97). Per fare un esempio, l’individuazione del legale rappresentante della parrocchia (e della diocesi) è rimessa all’ordinamento canonico, ed è rispettivamente il parroco (ed il vescovo), senza che lo Stato possa eccepire alcunché.

Focalizzando ora l’attenzione sulla parrocchia, si può dire che essa è un ente ecclesiastico eretto con un decreto del vescovo diocesano, e riconosciuto agli effetti civili italiani con un separato decreto del Ministero degli Interni [4], che va pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Sarà poi iscritta nel registro delle persone giuridiche, tenuto dalla Prefetture, allegando un “attestato sostitutivo” al posto del mancante statuto.

Le parrocchie sono, dunque, enti ecclesiastici riconosciuti, ai sensi dell’art. 4 della L. 20.5.85, n. 222 [5], con effetto anche ai fini civilistici, a differenza delle chiese che hanno invece rilievo esclusivamente per il diritto canonico (Cassazione, Sez. L., 11.09.2003, n.13380). Quindi la parrocchia è un ente di diritto e non di fatto, dotato come tale di soggettività giuridica e di autonomia patrimoniale, perché riconosciuto. A questo punto, per operare nell’ordinamento italiano anche in attività non religiose, la parrocchia non ha necessità di configurarsi diversamente. Dunque, la parrocchia può comperare un immobile, la chiesa no.

Va poi ribadito che, stante il riconoscimento agli effetti civili degli enti appartenenti alla costituzione gerarchica della Chiesa (come le diocesi e le parrocchie), è preclusa agli organi dello Stato ogni valutazione discrezionale anche circa l’esistenza del fine di religione o di culto, in quanto questo è automaticamente riconosciuto ex lege [6], essendo connesso strutturalmente alla loro funzione. Ne consegue che qualora una parrocchia intenda svolgere un’attività diversa da quella di culto (ad es. di tipo assistenziale), lo Stato italiano non può impedirglielo rifiutando il riconoscimento.

Se una parrocchia assorbe un’altra che viene soppressa con provvedimento del vescovo, l’assorbita vede revocato il proprio riconoscimento (art. 19 L. 222/85), mentre l’assorbente deve ottenere un nuovo riconoscimento a causa della trasformazione. La pratica viene sbrigata direttamente fra vescovo e Ministero dell’Interno.

La Caritas Italiana si definisce (art.1 dello Statuto, in http://www.caritasitaliana.it/ - cliccare su “Statuto”) come l’organismo pastorale della Conferenza Episcopale Italiana, che è di diritto persona giuridica civile in quanto ente ecclesiastico (art. 13 L. 20.5.1985, n. 222); poi (art. 2 dello Statuto) viene specificato che anche questo organismo pastorale è una persona giuridica pubblica nell’ordinamento canonico, per cui anch’essa è automaticamente «riconosciuta come ente ecclesiastico» nell’ordinamento italiano. Come si può vedere alla nota 5, gli enti ecclesiastici che hanno la personalità giuridica nell'ordinamento dello Stato assumono la qualifica di “enti ecclesiastici civilmente riconosciuti”. Dunque, la Caritas Italiana è persona giuridica, diversa dalla CEI. L’art. 22 dello Statuto stabilisce che la Caritas Italiana collabora con le Caritas Diocesane, senza assumere alcuna responsabilità in ordine al loro operato. Non chiarisce però come vadano qualificate le Caritas diocesane.

In base agli statuti, alcune Caritas diocesane sono persone giuridiche distinte dalla diocesi (ad es. quella di Firenze), altre non lo sono e si avvalgono della personalità giuridica della diocesi, qualificandosi solo come organismi pastorali della diocesi (es. quella di Teramo). In questo secondo caso, costituendo la Caritas diocesana una semplice articolazione dell’ente ecclesiastico diocesi, priva di autonomia rispetto a detto ente, della cui struttura invece fa parte, la responsabilità civile di chi abbia agito come Caritas ricadrà sul legale rappresentante della diocesi (il vescovo). Perciò chi tratta con questa Caritas dovrà previamente controllare che la persona che la rappresenta sia stata effettivamente delegata dal vescovo.

Quanto alle Caritas parrocchiali, comunemente le si pensa come un gruppo di volontari dediti all’assistenza dei poveri. Secondo l’idea originale della Chiesa non dovrebbe essere così. La Caritas viene intesa innanzitutto come organismo pastorale al servizio della crescita della Chiesa. Per un organismo ecclesiale la carità è vita intima, dimensione strutturante prima ancora che opere praticate e realizzazioni da far vedere nel mondo esterno. Il parroco e i fedeli che assumono un compito di animazione pastorale sanno che, prima di tutto, tra di loro e verso gli altri credenti hanno il debito di volersi bene. La Caritas parrocchiale agisce a nome della parrocchia e dovrebbe coinvolge la responsabilità della parrocchia intera sviluppando un servizio prevalentemente orientato a sensibilizzare, formare e animare la comunità parrocchiale perché non disattenda l’impegno della testimonianza comunitaria della carità [7]. La Caritas parrocchiale ha anzitutto il compito di aiutare l’intera comunità a mettere la carità al centro della testimonianza cristiana, così che la comunità ne faccia esperienza concreta e quotidiana. In questo compito la Caritas deve aiutare a superare la mentalità assistenziale per aprirsi alla carità evangelica in termini di prossimità e condivisione e deve animare [8] ed educare l’intera comunità parrocchiale quale punto di riferimento per un migliore e più consapevole servizio, senza sostituirsi ad eventuali gruppi di volontariato. Se in concreto poi questi alti e nobili ideali vengano realizzati in ogni Caritas parrocchiale, resta da vedere.

Dunque la Caritas parrocchiale è un organismo della parrocchia (dove solo quest’ultima è persona giuridica). Essendo la parrocchia, al pari della diocesi, un ente appartenente alla costituzione gerarchica della Chiesa, è precluso allo Stato ogni valutazione discrezionale circa l’esistenza del fine di religione o di culto, in quanto esso è riconosciuta ex lege perché connesso strutturalmente alla sua funzione (art. 2 L.222/85). Ne consegue che, anche quando la parrocchia agisce nel campo dell’assistenza o della beneficenza, (nonché dell’istruzione, dell’educazione ecc.) – cioè svolge quelle attività che l’art.16 della L. 222/85 considera diverse da quelle di religione o di culto, – queste attività non possono mai essere di ostacolo al suo riconoscimento. La parrocchia, ai sensi degli artt.15-16 della L. n. 222/85, come ente ecclesiastico civilmente riconosciuto, è infatti autorizzata a svolgere, oltre alle attività di religione, anche attività diverse da quelle di religione o di culto, quali appunto quelle di assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura e perfino attività commerciali o a scopo di lucro. Va aggiunto che per svolgere quest’attività pastorale (o di assistenza e beneficienza), diversa dall’attività di culto, la parrocchia non è obbligata neanche a dotarsi di una struttura e di strumenti separati rispetto a quelli che usa per le attività di culto, per cui finisce che le due attività non si distinguono, e la Caritas resta parte della parrocchia.

Normalmente, dunque, la Caritas parrocchiale non è un’associazione separata dalla parrocchia, in quanto non ha struttura e procedure associative, ed essendo solo un’articolazione dell’ente parrocchia, il responsabile è il parroco, legale rappresentante della parrocchia.

Nulla vieta, però, che un gruppo di fedeli si costituisca come associazione autonoma rispetto alla parrocchia, diventando un ente di fatto o anche di diritto, e anche in tal caso magari una Onlus. Ma operando così – a differenza della parrocchia che resta sostanzialmente sotto il controllo del diritto canonico - saremmo in presenza di un ente che ha per fine primario non già la religione, bensì l’assistenza (la quale può essere compiuta da qualsiasi soggetto, anche laico), e questa associazione, pur nata con motivazione religiosa (si ispira, ipotizziamo, ai principi del cattolicesimo) e quindi ideologicamente già orientata, subirebbe l’intromissione dello Stato al pari di ogni associazione civile. Saremmo dunque in presenza di un ente, riconosciuto o di fatto, regolato esclusivamente dal diritto civile.

Se al posto del gruppo di fedeli fosse la stessa autorità ecclesiastica a costituire un’associazione separata dalla parrocchia - cosa praticamente impossibile da ipotizzare posto che la Caritas ha come scopo quello di animare ed educare tutta la comunità, più che svolgere compiti di assistenza –, saremmo pur sempre in presenza di un ente ecclesiastico; ma qui, a differenza della parrocchia, il fine religioso non sarebbe automaticamente presunto. Infatti, l’art. 2 della L. 222/85, mentre prevede che il fine di religione sia presunto per gli enti (come la parrocchia) che fanno parte della costituzione gerarchica della Chiesa, per le altre persone giuridiche canoniche o che non abbiano personalità giuridica nell’ordinamento della Chiesa, il fine di religione o di culto deve essere accertato di volta in volta da parte dello Stato che poi effettua il riconoscimento, in conformità alle disposizioni dell’articolo 16. Lo Stato, cioè, verifica che il fine di religione o di culto sia veramente costitutivo ed essenziale dell’ente, anche se connesso a finalità di carattere caritativo previste dal diritto canonico. Quindi questo tipo di associazione, costituita o approvata dall’autorità ecclesiastica (art. 10 L. 222/85), potrebbe ottenere il riconoscimento o un rifiuto al riconoscimento; ma se riconosciuta, lo sarebbe alle condizioni previste dal codice civile e la vita dell’associazione resterebbe poi sempre regolata dalle leggi civili, salvo che per quella parte di attività religiosa sempre di competenza dell’autorità religiosa. Inoltre, in questo caso, le strutture ed i beni utilizzati per svolgere l’attività di assistenza ai bisognosi dovrebbero essere ben separati da quelli della parrocchia. Ecco perché è più semplice che il gruppo costituito all’interno di una parrocchia, che prende il nome di Caritas parrocchiale, operi sotto l’egida dell’ente parrocchia, senza costituire una diversa associazione. Lo stesso avviene se nell’oratorio si pratica attività sportiva dilettantistica. Chi agisce all’esterno, dunque, è il parroco, il quale coinvolge la responsabilità della parrocchia.

Infine è da ricordare che una Caritas parrocchiale non è il braccio operativo della Caritas diocesana. Ogni Caritas parrocchiale è autonoma rispetto alla Caritas diocesana. Se la Caritas parrocchiale è un settore della parrocchia, è autonoma nei limiti in cui il parroco è autonomo dal vescovo, sicuramente quindi per tutti gli atti di ordinaria amministrazione [9].

     

Dario Culot

[1] Ricordo che il cristianesimo venne recepito come unica religione dello Stato fin dal 380 d.C., con l’imperatore romano Teodosio (cfr. quanto detto nell’articolo La Legge naturale, al n. 482 di questo giornale, https://sites.google.com/site/ultimotrimestre2018rodafa/numero-482---9-dicembre-2018/la-legge-naturale) e il principio venne confermato dallo Statuto albertino del 1848 e dai Patti Lateranensi del 1929.

[2] Possiamo immaginare il mondo giuridico come un mondo a sé stante, composto da tante sfere. Ogni persona (e può trattarsi di persona fisica: il sig. Dario Culot; oppure di ente, cioè un insieme di persone associate che si presentano all’esterno come un’unica persona: la diocesi di Trieste) occupa una di queste sfere.

Gli enti privati si distinguono in persone giuridiche se hanno ottenuto il riconoscimento dello Stato o della Regione, o enti di fatto quando mancano di riconoscimento (ad es. associazioni non riconosciute, comitati, sindacati, ecc.).

Ogni persona fisica o ente, che occupa una sfera, è un soggetto di diritto nel mondo giuridico. Per incidere legalmente nell’altrui sfera giuridica occorre entrare in rapporto con altri soggetti. Per il mondo giuridico, il rapporto giuridico è la relazione fra due soggetti regolata dal diritto.

In presenza di riconoscimento, il terzo che entra in relazione con l’ente può effettuare un controllo preventivo sul registro pubblico statale dove sono indicati i limiti delle competenze e quindi le responsabilità degli amministratori. Nel caso di enti di fatto, non essendo possibile operare alcun controllo preventivo, delle obbligazioni dell’ente rispondono comunque personalmente anche le persone che hanno agito all’esterno spendendo il nome dell’ente.

[3] È forse il caso di ricordare che l’associazione si distingue dalla comunione perché in quest’ultima si ha una pluralità di soggetti (il diritto spetta in comune a più persone che mantengono la loro individualità: si pensi al condominio di un edificio), mentre l’associazione giuridicamente si presenta all’esterno come un soggetto unico, anche se al suo interno si trovano più persone. L’associazione si distingue poi dalla società perché, quand’anche entrambe comportino l’unione stabile di più persone, nelle società viene perseguito uno scopo di lucro, mentre nelle associazioni i membri non si prefiggono un proprio vantaggio di natura economico-patrimoniale. Nella fondazione prevale invece l’elemento patrimoniale, in quanto l’ente si costituisce per destinare a uno scopo definito un insieme di beni che sono stati messi a disposizione dell’ente stesso.

[4] Ancorché ai sensi del d.p.r. 361/00 il riconoscimento spetti al prefetto e alle regioni, poiché ai sensi dell’art.9.2. dello stesso d.p.r. nulla è innovato nella disciplina degli enti ecclesiastici, si rinvia all’art.1 della L. 222/85 (il quale riservava al Presidente della Repubblica la competenza ad emettere il decreto di riconoscimento), in seguito sostituito dalla L. 12.1.1991, n.13, che ha trasferito detta competenza al Ministero dell’Interno.

[5] L’art.4 della legge 20.5.1985, n. 222 (G.U. n. 129 Suppl. ord. del 03/06/1985) - Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi recita: gli enti ecclesiastici che hanno la personalità giuridica nell'ordinamento dello Stato assumono la qualifica di enti ecclesiastici civilmente riconosciuti.

[6] L’art.2 della L. n.222/85 precisa che per alcune categorie di soggetti il fine di religione o di culto è presunto per legge: sono considerati aventi fine di religione o di culto gli enti che fanno parte della costituzione gerarchica della Chiesa, per cui il riconoscimento delle diocesi e delle parrocchie avviene con una procedura abbreviata (artt.22-29 L. 222/85).

[7] Dardes G., La Caritas parrocchiale: organismo pastorale della comunità ecclesiale, seminario tenuto in Piacenza, il 24.2.2003, in www.nostrasignoradelcedro.it/Statuti e avvisi/Caritas parrocchiale; Nozza V., Caritas: organismo pastorale: la prevalente funzione pedagogica, seminario Memoria, fedeltà profezia del 20.21.9.2011, in http://www.caritasitaliana.it/materiali.

[8] Animare vuol dire individuare un bisogno nella comunità e vedere poi come affrontare il problema e risolverlo.

[9] A grandi linee, si ha ordinaria amministrazione quando l’atto che si vuol compiere è limitato alla sfera di disponibilità e regolamentazione delle sole rendite; straordinaria amministrazione quando invece intacca anche il patrimonio.