Essere, abitare e poetare in Martin Heidegger - Emiliano Bazzanella

Martin Heidegger - foto tratta da commons.wikimedia.org

Essere, abitare e poetare in Martin Heidegger 

di Emiliano Bazzanella

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Nel suo libro forse più noto – Essere e tempo del 1927 – il soggetto della tradizione filosofica viene declinato da Heidegger in una nuova figura - l'esserci (Dasein) - in cui sembrano ridondanti gli elementi “topologici”, cioè gli elementi che riguardano lo spazio. L’io è essenzialmente legato ad un da, un “qui”: la questione del soggetto diviene così quella di che cosa significhi effettivamente il “qui” o come si possa rispondere più ovviamente alla domanda: “dove sono?”

La risposta di Heidegger è così enigmatica: il “qui” rimanda abissalmente ad  un "essere-nel-mondo" (in der Welt sein) la quale non si traduce in nessuna forma di confinamento o chiusura, ma si presenta altresì come apertura o Erschlossenheit. Il Dasein è il proprio Ci, ossia deve progettare il proprio essere-nel-mondo a partire da una condizione però che è paradossalmente finitudine, chiusura. Infatti quella che Heidegger chiama la mondità in cui già-siamo, appare come un sistema della significatività e dell'utilizzabilità, cioè si caratterizza per essere già un sistema alienato e alienante in cui siamo gettati. Noi viviamo in un mondo già simbolizzato ed organizzato dalla tecnica in una fitta rete di rimandi che nel continuo rinvio offrono tuttavia una certa regolarità e sicurezza; non possiamo sopportare di risiedere “in” un luogo senza “dove” e senza una precisa collocazione, cosicché tutti i nostri sforzi sono orientati a “riempire” un vuoto insopportabile, un vacuum la cui vacuità forse deriva da un eccesso di pienezza.

Negli anni successivi alla cosiddetta Kehre (svolta), la prospettiva heideggeriana sembra virare radicalmente, forse proprio perché Essere e tempo si era dimostrato un pensiero fallimentare nel privilegiare arbitrariamente il tempo a discapito dello spazio. Si tratta forse di compiere un’inversione e di esperire un “superamento” della metafisica che abbia al centro un ripensamento dell’in-essere, rinunciando talvolta a una certa (metafisica) sensatezza e abbandonandosi a una più generica impossibilità. Le tracce di questa “metabasi” sono comunque già presenti in Essere e tempo ove la preposizione “in” viene fatta derivare dal verbo tedesco arcaico innan, “abitare”: quando parliamo di “essere” dobbiamo preliminarmente pensare ad un in-essere e ad un abitare nel quale risuonano pure assonanze etiche (habeo, habitare, abitudine, abito, etc.). Essere corrisponde ad abitare, insomma, e l’abitare implica un complesso di relazioni etiche ed esposizioni all’Altro: quando abito casa “mia” posso davvero essere convinto di questa proprietà, oppure io sono ospite a casa mia, ovvero sono già s-possessato da quello che ritenevo il possesso più sicuro e inalienabile. Risuonano in questo caso le riflessioni di Derrida sull’ospitalità e tutto un percorso di pensiero che mette in bilico lo stesso concetto di “proprietà”.

Nella conferenza Costruire, abitare, pensare tenuta da Heidegger a Darmstadt nel 1951 nell'ambito di un colloquio su "Uomo e spazio" assistiamo ad un mutamento che non è solo terminologico, ma soprattutto tematico: il soggetto non si caratterizza più come un trascendimento della propria condizione “gettata” e deietta, come un aver-da-essere il proprio Da, il proprio “qui”, ma sembra assumere un profilo per così dire  più statico e sedentario. Egli essenzialmente  abita e non si pro-getta: o meglio, si pro-getta come aver-da-essere soltanto alla luce del suo abitare originario. E se il pro-getto diviene secondario, anche l'analisi della mondità effettuata in Essere e tempo si svuota, assumendo un ruolo satellitare: cambiano lessico e dimensioni, quindi, mentre viene tematizzato più radicalmente l'in-essere, intensificando proprio il senso del prefisso in. In quest'ottica Heidegger inizia la sua riflessione sul wohnen esaminando l'essenza del costruire (bauen). "Costruire significa originariamente abitare. Là dove la parola abitare parla ancora in modo originario, essa dice anche fin dove arriva l'essenza dell'abitare.

Bauen (costruire), buan, bhu, beo sono infatti la stessa parola che il nostro bin (sono) nelle sue varie forme: ich bin (io sono), du bist (tu sei), la forma imperativa bis, sii" (Heidegger , 1954, p. 97). L'essere dell'esserci come in-essere è dunque primariamente un abitare, attraverso quella particolare mediazione che è la costruzione. "Esser uomo significa: essere sulla terra come mortale; e cioè: abitare" (ibidem), ma bauen significa anche "coltivare" e corrisponde al latino colere, ossia l'abitare in cui l'uomo "è" sulla terra costituisce sia un edificare delle costruzioni, sia un coltivare che implica protezione e custodia (ivi, p. 98).

Notiamo delle inflessioni obiettivamente fenomenologiche: l’abitare implica un’istanza “etica”, cioè un determinato rapporto con il reale che dimostra dei connotati fallimentari poiché non si abita mai una “supposta” casa “propria”, ma si è “ospiti” della casa di un Altro; secondariamente s’innesta un elemento “violento” se non articolato in modo autentico, cioè il “costruire” come atto polemologico che vuole riempire il vuoto abissale dell’in e rispondere alla domanda impellente riguardo la propria collocazione nel mondo. Tuttavia Heidegger discrimina già due modalità del costruire: all’edificazione imperiale e dissennatamente sistematica, si contrappone un “abitare” che implica un coltivare, ossia un mantenimento custodente. Se l’erezione di una casa può apparire un atto violento, questa circostanza può essere mitigata valutando il modo in cui l’uomo abita la propria dimora, che può essere quello del far sorgere (φύσις) e del “mantenere”. Echeggiano  delle suggestioni rimaste latenti in Essere e tempo: un “lasciar-essere” che si coniuga con una dimensione paradossale del “proprio” (eigen), che non può essere inteso in alcun modo come un possesso, ma che ha a che fare semmai con un movimento di espropriazione e con quello che problematicamente Heidegger chiama “evento” (Ereignis): la proprietà illusoria di un “luogo” si trasforma nel movimento medesimo del peregrinare in uno spazio caratterizzato dallo s-possessamento. Il “dove” io abito non circoscrive alcuna proprietà o “proprio”, ma implica al contrario una perdita, uno spossessamento nello stesso momento in cui mi illudo di essere sicuro e protetto. Inoltre, le nozioni di prossimità e di vicinanza sembrano simultaneamente perdere senso ed intensificarsi nella misura in cui nel da dell’esser-ci sembra aprirsi una sorta di voragine e ciò che appariva famigliare diviene sommamente estraneo.

A questo punto, però, Heidegger introduce delle nuove figure metaforiche che preludono ad un plesso abbastanza enigmatico, cioè quello tra “poetare”, “pensare” e “abitare”: l'esserci diviene un "mortale", cioè un "esser capace della morte in quanto morte" (ivi, p. 99) in-cluso nell'orizzonte di un mondo; e il mondo non è più la struttura dell'utilizzabilità, quanto la contrapposizione tra "Terra" e "Cielo" che rievoca la dinamica dell'apertura, cioè di un dis-chiudimento che articola assieme "apertura" e "chiusura". "La terra è quella che servendo sorregge, che fiorendo dà frutti, che si distende inerte nelle rocce e nelle acque e vive nelle piante e negli animali. (...) Il cielo è il cammino arcuato del sole, il vario apparire della luna nelle sue diverse fasi, il luminoso corso delle stelle, le stagioni dell'anno e il loro volgere, la luce e il declino del giorno, il buio e il chiarore della notte, la clemenza e l'inclemenza del tempo, l'addensarsi delle nuvole e l'azzurra profondità dell'etere" (ibidem). Il soggetto di Essere e tempo era sicuro di sé dal momento che si fondava appunto sulla Cura (Sorge) e poteva articolare il proprio futuro a partire da una gettatezza (Geworfenheit) circoscrivibile e addomesticabile: ora, invece, il tavolo da gioco sembra esser mutato, e l'uomo nel suo essere mortale si ritrova immesso in un mondo dove senso e non-senso si intrecciano e, in particolare, dove il senso si configura come una piccola enclave, uno slargo all'interno dell'insondabile imprevedibilità del non-senso. Mortali, Terra e Cielo, dunque, rimandano a una dimensione del divino che implica soprattutto oscurità e mistero. I Divini si manifestano talora nella loro potenza, talora si nascondono assentandosi: la loro essenza è infatti il celarsi, la λήθη intesa come un ritrarsi raccogliente e un non-potersi dispiegare completamente.

Ora, per Heidegger quando abbiamo a che fare con Terra, Cielo, Mortali e Divini non ci troviamo di fronte ad una struttura quadripartita, ma in essi prevale l'unità della semplicità (Einfalt), la Quadratura o Geviert, cosicché "i mortali sono nella Quadratura in quanto abitano. Ma il tratto fondamentale dell'abitare è l'aver cura. I mortali abitano nel modo dell'aver cura della Quadratura nella sua essenza. (...) Il soggiornare presso le cose non si aggiunge però, come una quinta modalità, ai quattro modi menzionati dell'aver cura; anzi, il soggiornare presso le cose è l'unico modo in cui di volta in volta si compie unitariamente il quadruplice soggiornare nella Quadratura" (ivi, pp. 100-101). La terra è la sicurezza della nostra costituzione "ctonia" e materna, ma parimenti il ritrarsi nella solidità della propria materia; il Cielo è l'orizzonte "verso-cui" la nostra comprensione si spinge, ma esprime anche l'insensatezza dell'infinito cosmico e della ripetizione dei giorni e delle notti; il divino è lo stesso meccanismo strutturale che alterna luce ed ombra (ivi, p. 136), manifestarsi e ritrarsi, ma pure esso si compone in modo isomorfo, articolandosi nel Dio generoso e creatore che si fa "carne", e nel Dio trascendente ed oscuro, che rimane incomprensibile per l'uomo. Ma il soggetto, il mortale anch'esso strutturato come un'isola di senso nel non-senso, come si pone all'interno del Geviert, della Quadratura? Egli è certo un po' "terraneo" o “ctonio” in quanto abita la Terra e vive dei suoi frutti, ma si slancia anche verso il Cielo e tenta continuamente di superarsi verso il trascendente: partecipa, insomma, degli altri Tre, è  inserito in ulteriori dimensioni di senso che a loro volta dimostrano il loro lato in-sensato.  "L'abitare dell'uomo sta in questo misurare-disporre la dimensione guardando verso l'alto (...). Il misurare misura in tutta la sua estensione il 'frammezzo', che porta l'uno verso l'altro il cielo e la terra" (ivi, p. 131). Ecco la conclusione enigmatica di Heidegger:  la non-padroneggiabilità dell’ “in” implica da un lato la necessità comunque di in-essere anche se il “dove” è indeterminato, dall’altro lato si tramuta in un’altra forma relazionale, altrettanto vischiosa, il tra, il frammezzo (zwischen) senza tuttavia che siano definiti e definibili gli essenti che ci si trova a “misurare”.

Ma “il misurare-disporre della dimensione è l’elemento in cui l’abitare umano trova la sua garanzia, in base alla quale dura. Il misurare-disporre è la poeticità dell’abitare. Poetare è un misurare. Ma che significa misurare? (…) Il poetare è probabilmente un mondo eminente del misurare” (ivi, p. 131). Per Heidegger l’essenza dell’uomo è il linguaggio, tanto che si distingue dall’animale poiché quest’ultimo è “povero di mondo” in quanto non è in grado di parlare: ma la poesia fa tutt’uno con l’abitare poiché nella sua essenza essa non coincide con il parlare quotidiano, con la “chiacchiera”. Commentando un verso di Hölderlin “…poeticamente abita l’uomo…” osserva Heidegger: “il poetare edifica l’essenza dell’abitare. Non solo poetare e abitare non si escludono reciprocamente. Essi sono anzi in una connessione inscindibile, si richiedono reciprocamente. ‘Poeticamente abita l’uomo’. Noi abitiamo poeticamente? Probabilmente noi abitiamo in un modo completamente impoetico” - ma - “un abitare può essere poetico solo perché l’abitare, nella sua essenza, è poetico” (ivi, p. 136).

Quando Heidegger introduce le figure della Quadratura – Terra e Cielo, Mortali e Divini – sembra richiamarsi a delle invarianti fenomenologiche, se non proprio antropologiche: l’abitare significa nella sua essenza un prendere le misure di queste invarianti, ma non nel senso della tecnica o di un sapere metafisico che si illude di poterne avere il controllo. L’abitare è poetare poiché implica un “Dire originario” (die Sage) che, per certi aspetti, è più prossimo alla realtà ed è esente da tutta la serie di sedimentazioni cognitive che invece fungono da schermo e da filtro protettivo. “Dire originario significa: additare, far apparire allo sguardo un mondo rischiarando-occultando-liberando. A questo punto compare la prossimità come movimento dell’esser l’una di fronte all’altra delle regioni del mondo. (…) Il linguaggio, in quanto Dire originario del quadrato del mondo, cessa d’essere soltanto qualcosa con cui noi, uomini parlanti, abbiamo un rapporto, nel senso di una relazione, quella che intercorre appunto tra uomo e linguaggio. Il linguaggio, in quanto Dire originario che imprime l’intero rapporto al mondo, è il rapporto di tutti i rapporti. Esso con-tiene, sostiene, porge come in dono e fa ricche le quattro regioni del mondo nel loro essere l’una di fronte all’altra, le regge e le custodisce, mentre esso – il Dire originario – resta in se stesso” (Heidegger, 1959, p. 169). La parola originaria, la parola poetica non è il rimando più o meno metaforico da un significante ad un significato, non è espressione di un contenuto, ma è qualcosa che “libera donando” e “manifesta occultando”: in sintesi, per Heidegger ci troviamo ad un livello di pura relazione, di prossimità che non vuol dire vicinanza metrica o diminuizione della distanza, ma, forse all’opposto, un abitare che, seguendo ancora le suggestioni di Derrida, è un “esser ospiti a casa propria”.

 

BIBLIOGRAFIA

HEIDEGGER, M., Vorträge und Aufsätze, Verlag Günther Neske, Pfullingen 1957b; tr. it. di G. Vattimo, Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976.

- Unterwegs zur Sprache, Verlag Günther Neske, Pfullingen 1959b; tr. it. di A. Caracciolo e M. Perotti, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973.