Le donne prete di Gerty MacDowell sono diacone

Trieste, tramonto sul Molo Audace - foto del direttore

Termina proprio questa sera a Trieste l’edizione 2019 del Bloomsday (http://www.museojoycetrieste.it/portfolio/bloomsday-2019/ e si veda anche https://barbaraganz.blog.ilsole24ore.com/2019/06/15/16-giugno-bloomsday-trieste-celebra-james-joyce-anche-calcio/?refresh_ce=1), dedicata al capitolo 13 del capolavoro di James Joyce, l’ “Ulisse”.

Al pomeriggio, nel corso della intensa rappresentazione teatrale svoltasi nell’Auditorium del Museo “Revoltella” sempre di Trieste (grazie a “L’Armonia-Associazione tra le compagnie teatrali triestine” in collaborazione con “Art & Zen” e con il Gruppo teatrale “Amici di San Giovanni”, per la regia di Giuliano Zannier, con Arianna Gregorat, Sara Dolce, scene e costumi di Giuliana Artico, consulenza  musicale di Maurizio Bressan, luci e fonica di Alessandro Aruffo), sono state declamate, da Roberto Eramo, le parole, penetranti ed eleganti, del grande James riferite alle sensazioni della protagonista di quel capitolo, Gerty MacDowell (impersonata da Delia Pellegrino), innamoratasi a prima vista, su una spiaggia verso sera, di Leopold Bloom, così come accadde alla Nausicaa omerica di Ulisse (cfr. https://dugoag.blogspot.com/p/nausicaa.html): «(…) tutta la differenza stava perché lei poteva quasi sentirsi attirare il viso contro il suo e sentire il primo, rapido, caldo tocco delle sue belle labbra. E poi c’era l’assoluzione finché non si faceva quell’altra cosa prima d’esser marito e moglie e ci dovrebbero essere preti donne capaci di capire senza bisogno di dir loro tutto (…).»

Mentre si incrociano sguardi e desideri tra Gerty e Leopold, dalla chiesa vicina (cattolica) proviene il canto gregoriano dell’ufficio vespertino e si diffonde il profumo fragrante d’incenso. Un po’ dopo compaiono i (laicissimi) fuochi d’artificio, quasi a sugellare un compimento d’amore che non avviene ma che il simbolo comunque assicura.

La mia competenza letteraria è nulla e posso solo, dalla lettura di quel passo joyciano, riferire di un’emozione sobbalzante, perché tutto mi sarei atteso in un pomeriggio triestino dal clima equatoriale tranne che, lo dico per davvero, sentir evocare le donne prete al Bloomsday.

Ma spiega con precisione lo straordinario Prof. Renzo Stefano Crivelli (che il nostro giornale ha avuto l’onore di avere come ospite sul numero 550: https://sites.google.com/site/ilgiornaledirodafa500/numero-500---14-aprile-2019/amici-a-trieste-joyce-e-svevo---renzo-stefano-crivelli): in Joyce il profano è sacro e il sacro è profano e non è possibile sciogliere una sorta di endiadi esistenziale, profonda e tuttavia non sprofondante, che riesce ad emergere, ad avvolgere di sapida leggerezza la quotidianità più viva e forse però anche più taciuta.

Il sobbalzo d’emozione mi ha fatto pensare che le donne preti, anzi i preti donne, di Gerty non siano presbitere bensì diacone.

Troppo acerba ed infantile la curiosità del qui scrivente per dire se si possa effettivamente parlare di una vera e propria teologia di Joyce e tuttavia il suo cattolicesimo è costitutivo di tutta la sua identità e produzione letteraria.

Le donne preti, anzi i preti donne, di Gerty MacDowell sono in grado di capire e non condannare eros, sono capaci di assolverlo non perché colpevole ma perché dev’essere reso innocente da una congiura culturale millenaria che l’ha fatto, esso sì, sprofondare nei baratri del senso di colpa e financo della disperazione.

E quei preti donne non sono ministre sacre di un culto privato, ma testimoniano una dimensione pubblica del vivere l’affettività più viscerale ed appassionata e dunque fondamentale, imprescindibile, anche quando sia vissuta nella consapevole scelta di un celibato di orientamento monastico.

«Ci dovrebbero essere preti donne capaci di capire senza bisogno di dir loro tutto» è una affermazione teologica di enorme spessore. Questo essere “capaci di capire senza bisogno di sentirsi dire tutto” dice di un’attitudine al silenzio, al gesto, alla comunicazione meta-verbale che la pastorale cattolica ben conosce ma che la dottrina fatica tremendamente ad elaborare con serenità e senso di liberazione evangelica.

Forse il senso del diaconato femminile sta proprio qui e forse è questa la sua difficoltà ad essere accolto a livello istituzionale. Un ministero diverso dove il “tutto” non è quel “tutto” che comunemente s’intende. Alleggerisce invece di appesantire.

Le pratiche della frequentazione su internet hanno ormai spalancato, ad esempio, universi comunicativi rispetto ai quali i normali codici di domanda e risposta, di interlocuzione e conversazione, sono andati in completa crisi. Un “mi piace” sotto il post di facebook dice ciò che altro linguaggio non riesce (più?) a dire. L’ “amicizia” è concetto che vive piani molteplici, con caratteristiche virtuali in rete che non si possono semplicemente liquidare come irreali.

C’è, esiste, è presente, una diversa realtà. Il ministero delle Chiese non sembra esserne all’altezza. Perché tale realtà comunicativa è molto più vicina alla pervasività non verbale di eros che all’eloquio coerentemente formale del raziocinio. Abbiamo bisogno di diacone capaci di capire tutto senza bisogno di dir loro ciò che non riusciamo (più?) a dire.

La figlia di James Joyce, Lucia Joyce, nata a Trieste, è stata una danzatrice di eccelsa bravura che ha terminato i suoi giorni internata in una clinica psichiatrica inglese. La danza è quanto di più estraneo al codice di diritto canonico.

Le Chiese della Comunione Anglicana, molto diversamente dalla Chiesa cattolica, vivono la realtà del ministero femminile – diaconale, presbiterale ed episcopale – da decenni. Si pone un delicato interrogativo ecumenico per la teologia ecumenica cattolica: queste Chiese sbagliano? Sono in errore? Quando il Papa incontra Justin Welby, Arcivescovo di Canterbury, incontra un fedele laico secondo la dottrina cattolica, dal momento che la sua ordinazione è invalida o comunque illecita, oppure incontra un successore degli apostoli? Forse sulla strada di simili interrogazioni i vicoli, pur diversi e ad incroci, portano solo a direzioni sbarrate.

Forse c’è bisogno di tutt’altro.

Di un ministero di donne “capaci di capire senza bisogno di dire tutto”, dove il “dire” non sia solo discorso e scrittura, ma ascolto di dimensioni represse – c’è la storia della persecuzione delle cosiddette streghe ad attestarlo -, di una totalità nostra, sia che siamo donne sia che siamo uomini.

È una storia che ci attraversa e ci contiene e non è semplicemente riducibile ad una completezza definita, bensì diventa capace di far traluce quel “noi ecclesiale” su cui si sofferma Serena Noceti nel suo studio su donne e ministero diaconale, dal titolo Il tempo del noi, che compare alle pp. 305-341 del n. 10 de “Il Regno Attualità” del 15 maggio 2019.

Il “noi ecclesiale”, il sentirsi parte di una comunità fatta da noi, va molto oltre i confini ecclesiastici.

Il tutto onnigamico – su cui spesso si è soffermato il nostro giornale – è un “noi”, un movimento comunitario, che senza il “tu” resta un muto “io” ma che ha spazi di inveramento inediti, impensati, speriamo non impossibili.

Sulla spiaggia restano silenzi che il mare raccoglie e che la notte rilancia.

Sarà ancora mattino.

Buona domenica e buona settimana.

 

Stefano Sodaro