Legare e sciogliere

Città del Vaticano, Cappella Paolina, confessionale - foto tratta da commons.wikimedia.org

Dopo aver letto gli articoli sul papato, qualcuno mi ha fatto notare che ho sostanzialmente glissato su un fatto basilare: Pietro è l’unico detentore delle “chiavi del Regno” (ma di questo parleremo con più calma la settimana prossima) ed ha pure il potere di legare e sciogliere (Mt 16, 19), che significa potere di perdonare o non perdonare i peccati (Gv 20, 23). Secondo l’insegnamento ufficiale infatti, legare e sciogliere è equivalente a perdonare o rifiutare il perdono di Dio a chi ha commesso ciò che Dio (e poi il suo vicario in terra) proibisce; quindi l’esercizio di questo potere da parte di Pietro e dei suoi successori autorizza ad accogliere o escludere qualsiasi persona dalla comunione con Dio: se il papa dice che uno è escluso, Dio ratifica automaticamente quello che ha deciso il papa. Per fare un esempio concreto, se il papa decide di escludere dalla comunione eucaristica gli omo ed eterosessuali conviventi e non casti che vivono nel peccato senza pentirsi, Dio stesso conferma la decisione del papa. “Non ci si può appellare a Cristo evitando Pietro, perché Gesù lo ha nominato detentore delle chiavi (clavigero – Mt 18, 16) dandogli carta bianca: quello che lui ordinerà porterà fin d’ora la firma del Signore” (Schindler P., Petrus). Dunque, il potere di legare e sciogliere, quando si è nel possesso esclusivo delle chiavi, significa che a Pietro (e poi ai suoi successori) viene riconosciuto direttamente da Gesù il potere di proibire e permettere qualcosa, di escludere o accogliere nella comunità qualcuno. In alcuni testi (ad es. ne Il Nuovo Testamento della Elle Di Ci e Alleanza Biblica Universale del 1976), Mt 16 19 è perfino tradotto così: “Tutto ciò che tu sulla terra dichiarerai proibito, sarà proibito anche in cielo; tutto ciò che tu permetterai sulla terra, sarà permesso anche in cielo”. Più chiaro di così! Siamo davanti a una prova evidente del primato papale. Consequenziale – sempre secondo l’insegnamento ufficiale – è il potere di comandare nella Chiesa e, di riflesso, soprattutto il dovere dei fedeli di obbedire al detentore delle chiavi. Per questo, il n. 553 del Catechismo afferma che il potere delle chiavi designa l’autorità di governare, mentre il potere di legare e sciogliere indica l’autorità di assolvere dai peccati, di pronunciare giudizi in materia di dottrina e prendere decisioni disciplinari nella Chiesa.

Sicuramente questa è ancora oggi l’interpretazione prevalente fra i cattolici, ma non la posso condividere, e spiego subito il perché.

La prima cosa che salta agli occhi è che, con simile interpretazione, il papa non è un uomo come gli altri, perché viene dotato di poteri divini che può discrezionalmente usare senza che Dio abbia nulla da obiettare. Forse non ci si rende conto dell’implicazione di simile convinzione: se al papa spetta il privilegio di amministrare i rituali sacri (come l’eucaristia) che ci comunicano la grazia dei Dio, e pertanto rendono possibile la salvezza eterna, significa che il papa (non Dio che accetta preventivamente il suo operato, e neanche san Pietro che alle porte del paradiso può solo verificare quali decisioni ha preso il papa terreno) può condannare qualcuno direttamente all’inferno scomunicandolo (cioè escludendolo dalla comunione dei fedeli) e/o rifiutandogli i sacramenti e quindi la grazia del Signore (senza grazia non ci si salva: nn. 1987ss. Catechismo). Giuro che non vorrei mai avere in mano un simile tipo di potere divino. Però, voi credete veramente che Dio abbia ratificato automaticamente la scomunica lanciata nel 1227 contro Federico II di Svevia perché continuava a rimandare la crociata che aveva promesso di fare per liberare Gerusalemme [1]? Oppure quelle di papa Alessandro VI contro chi osava insidiare il duopolio di Spagna e Portogallo nei traffici commerciali con le Americhe [2]? Oppure quella contro il giurista Giannone Pietro scomunicato nel 1723 per aver pubblicato l’Istoria civile del Regno di Napoli in cui contrastava la tesi della natura divina del potere temporale dei papi [3]? Oppure quelle contro chi negava che Dio potesse essere conosciuto con certezza col lume della ragione [4]? Oppure la scomunica “maggiore” con cui Pio IX il 26 marzo 1860 metteva fuori della comunione cattolica tutti coloro che in qualsiasi modo avevano contribuito dopo la seconda guerra d'indipendenza all'annessione di Bologna al Regno di Sardegna, e in senso più generale scomunicava l'intero movimento nazionale italiano [5]? Oppure quella contro il giornalista francese Félicité de Lamennais che aveva osato sostenere pubblicamente il diritto alla libertà di coscienza? Oggi, i principi che sosteneva de Lamennais sono talmente scontati e condivisi, almeno nel nostro mondo occidentale, che nessuno – neanche la Chiesa, - li mette più in dubbio: i principi assolutamente non negoziabili dei papi fino al 1800 non esistono più perché sono stati negoziati; oggi i principi non negoziabili sono altri (aborto, eutanasia, ecc.), ma chissà cosa se ne dirà fra altri cento anni.

In ogni caso è pacifico che tradurre Mt 16, 19 usando i verbi “proibire” e “permettere” è già una forzatura, perché l’originale testo greco parla di “legare e sciogliere”. Chiaro che se la gente è convinta che già nel vangelo originale sono stati usati i verbi “proibire e permettere” l’interpretazione del magistero ufficiale “sembra” essere corretta mentre in realtà non lo è, perché utilizzando verbi diversi da quelli usati nel Vangelo ha fatto credere alla gente, che non sa leggere il greco, che l’originale significa proprio quello che ci è stato poi insegnato.

Leggendo allora i vangeli si scopre che non c’è un solo passo in cui Gesù sollecita gli uomini a chiedere perdono a Dio, né direttamente, né indirettamente tramite i presbiteri, per i propri peccati. Perché allora si dice che il papa può perdonare o meno i nostri peccati? Invece, più volte Gesù ha sollecitato gli uomini a concedere il perdono agli altri: «quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno perdonatelo» (Mc 11, 25). E perché si dovrebbe perdonare? «Perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi le vostre colpe». Qui salta subito all’occhio che l’evangelista non usa il termine peccato, anche se in varie traduzioni dei vangeli si trova (erroneamente: ad es. sempre ne Il Nuovo Testamento della Elle Di Ci e Alleanza Biblica Universale del 1976) ancora questo termine: in greco viene usato il termine colpa (παραπτώματα), anche se Marco ben conosce il termine peccati (αμαρτίαi), tant’è vero che lo usa, ad esempio, in Mc 2,5 (nella remissione dei peccati al paralitico calato dal tetto). È che gli evangelisti parlano di peccato soltanto prima dell’incontro con Gesù, intendendolo con ciò una direzione sbagliata di vita. Una volta incontrato Gesù, se lo si segue cambiando orientamento, non esiste più il peccato, ma solo colpe, errori (Maggi A.). Il peccato che tanto ossessiona gli uomini di chiesa, a Gesù interessa pochino.

Allora Pietro, che ha sentito tutto questo discorso senza però riuscire a digerirlo, chiede fino a che limite si può arrivare con il perdono. La legislazione ebraica diceva che il colpevole poteva essere perdonato tre volte; poi basta. In alcuni degli Stati Uniti è stato utilizzato lo stesso metodo: puoi commettere tre reati, poi basta; poi ti prendi l’ergastolo, anche se compi un reato dappoco. Pietro, che si sente grande, largheggia, raddoppiamo pure: sette volte, e non più solo tre. Va bene sette volte? Gesù, gli risponde: non sette volte ma settanta volte sette (Mt 18, 21), il che chiaramente indica non una quantità numerica, ma la qualità di questo perdono (Maggi A.). Siamo esattamente all’opposto del vanto di Lamech (Gn 4, 24) che nella Bibbia dice: “Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Se Caino deve essere vendicato sette volte, Lamech lo sarà settantasette volte”. Il perdono cristiano se vuole assomigliare a quello del Padre, deve essere invece come quello indicato da Gesù, illimitato e gratuito, perché solo così assomiglia al perdono del Padre. Per comprende il richiamo che Gesù fa a 70 volte 7 si deve aver presente questa pagina di Lamech, il quale dice: “se Caino sarà vendicato 7 volte, io sarò vendicato 77 volte”: quindi una vendetta tremenda, assoluta, senza limiti, che anche Hammurabi aveva iniziato a limitare col suo codice; ma a questa vendetta illimitata Gesù contrappone invece un perdono assoluto, senza limiti, e per questo ancora oggi sconcertante. Ma se crediamo che il Vangelo ci dice il vero, che cioè Dio ci concede il perdono assoluto, sempre, senza porre limiti, allora si capisce anche perché Gesù non ha mai detto che si deve chieder perdono a Dio (magari tramite il prete). Non si deve chiedere il perdono a Dio perché Lui ce lo anticipa. Il perdono arriva prima che sia chiesto, per cui il papa non ha nulla da perdonare.

Ma se siamo già perdonati, cosa c’entra il perdonare gli altri? Semplice: il nostro perdono serve perché per noi increduli occorre un segno visibile, come è stato dato col paralitico. La folla ha riconosciuto che i suoi peccati erano stati cancellati solo quando lo ha visto alzarsi, prendersi il lettuccio ed andarsene (Mc 2, 9-11) (cfr. quanto detto nell’articolo Ma come facciamo a sapere di essere perdonati? al n. 468 di questo giornale, https://sites.google.com/site/agostosettembre2018rodafa/numero-468---2-settembre-2018/ma-come-facciamo-a-sapere-di-essere-perdonati). Così anche fra di noi, quando abbiamo veramente perdonato chi ci ha offeso, tutti attorno se ne avvedono, perché è cambiato visibilmente il nostro comportamento.

Quindi, come col lettuccio del paralitico, se Gesù ci dice di perdonare gli altri, è perché così anche il perdono di Dio viene reso manifesto agli altri dal nostro aver perdonato gli altri. Gesù ci tranquillizza sul nostro rapporto con Dio, perché non dobbiamo preoccuparci di questo rapporto: il perdono di Dio ci viene dato in anticipo e gratuitamente, a prescindere da quello che ci dice la religione; quello che conta è, tanto per cambiare, il rapporto orizzontale con gli altri, non quello verticale con Dio. Che uno sia stato perdonato o meno da Dio neanche ce ne accorgiamo; ma che uno sia capace di perdonare gli altri …ci rendiamo conto tutti di come cambia il rapporto con quelle persone proprio nel quotidiano. Dunque il perdono di Dio, già perfetto, diventa manifesto per gli altri, ed efficace nel singolo individuo soltanto quando esso si traduce in altrettanto perdono (Maggi A.). Anche Papa Benedetto XVI, nel suo libro Gesù di Nazaret, ha riconosciuto che il perdono di Dio può diventare efficace solo in colui che, da parte sua, perdona. Dio ti perdona se tu perdoni gli altri. E va sottolineato che, stando ai vangeli, non è richiesto da nessuna parte il proprio previo pentimento per ottenere il perdono da parte di Dio. Strano, vero?

La parabola del debitore disumano (Mt 18, 23ss.) conferma perfettamente quanto appena detto, e smentisce il potere del papa di perdonare o non perdonare (sciogliere o legare): colui che viene perdonato da Dio, il quale sta ovviamente più in alto di lui, ma non è poi capace di perdonare chi sta più in basso di lui, rende inefficace il perdono che ha già ricevuto. Nella parabola si dice che a quel funzionario è stato condonato dal re un debito talmente enorme che mai e poi mai sarebbe riuscito a saldare: gli è stata ridata vita quando ne aveva bisogno, ed ha così evitato di finire schiavo per debiti (all’epoca, chi non saldava il suo debito finiva male). Ma lui non fa altrettanto: invoca la giustizia, la ferrea applicazione della legge, nei confronti di chi aveva un piccolo debito verso di lui, e in tal modo soffoca, toglie vita al suo piccolo debitore. Da notare che il funzionario non pretende nulla di illegale; pretende solo che sia applicata la legge. Però a lui il re ha ridato la vita, gratuitamente, mentre ora lui soffoca la vita dell’altro perché vuole che gli sia subito restituito quello che gli è dovuto per legge. L’altro gli doveva una cifra che avrebbe potuto tranquillamente restituire se solo gli fosse stato dato più tempo. Quindi è l’applicazione rigorosa della legge da parte di questo avido individuo che toglie la vita al suo simile, rovinandolo. Ancora una volta  - come già nell’episodio del samaritano (vedi nel n. 444, l’articolo Molto religiosi, praticamente atei, https://sites.google.com/site/numeriarchiviati2/numeri-dal-26-al-68/1999991---marzo-2018/numero-444---18-marzo-2018/molto-religiosi-praticamente-atei) – applicare la Legge, e non applicare la misericordia, significa togliere vita ad un altro. Il grande debitore, che ora pretende di far applicare la legge, non ha saputo far buon uso del dono gratuito che ha ricevuto. Bastava che continuasse a diffondere a sua volta vita, come l’ha ricevuta in dono lui stesso, condonando un debito molto più modesto, o almeno dando una tregua al suo piccolo debitore. Questa parabola ci racconta un episodio terreno (fra re e funzionario), ma fa capire come lo stesso avviene fra Dio (il re) e l’uomo (il funzionario).

Ecco perché quando uno non è capace di perdonare lega anche l’amore di Dio, e rimane lui stesso escluso da questo perdono, che resta legato in cielo. Non è che il Padre non condoni i debiti del funzionario: si è visto nella parabola che il re aveva già condonato tutto a quel funzionario, ma questo condono, che è concesso in maniera gratuita e anticipata, rimane legato in cielo finché non si prolunga in altrettanto condono in terra. Ecco il significato di “Quello che legherete sulla terra e quello che scioglierete...” Quindi chi non perdona gli altri lega il perdono di Dio per sé stesso e chi perdona scioglie questo condono del Padre (Maggi A.). Ecco perché occorre tradurre in maniera appropriata le parole greche del vangelo (legare e sciogliere), e non si può interpretare il Vangelo in modo da fargli dire quello che non dice (“se tu, papa, proibisci, anche Dio proibisce”), solo per assecondare la dottrina ufficiale. Con questa frase non viene dato, né al papa né al clero, nessun particolare potere divino di permettere e di proibire, perché questa facoltà di legare e sciogliere vale per tutta la comunità di credenti (infatti Gesù sta parlando a tutta la comunità - Mt 18, 17-18 - e non solo a Pietro - Mt 16, 19). E questa conclusione viene ribadita dalla parabola, la quale finisce col funzionario avido che si vede inficiare un perdono già dato, con le chiare parole di Gesù: «Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi se non perdonerete di cuore il vostro fratello» (Mt 18, 35). “Ciascuno di voi,” quindi tutti noi. Quindi non mi sembra proprio che qui siamo davanti a un’evidente prova del primato di Pietro.

Anche la frase «Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato» (Mt 10,40) è stata interpretata dal magistero come Cicero pro domo sua, come un proprio esclusivo potere, nel senso che chi accetta l’insegnamento degli apostoli (cui sono succeduti i vescovi) accetta Gesù e accetta Dio che l’ha mandato. Qui – si dice,- si tratta di istruzioni date proprio agli apostoli (Mt 10, 5), per cui il magistero ha concluso che, attraverso la successione apostolica, questa frase gli dà il privilegio di comandare e farsi obbedire, e chi non obbedisce ai vescovi successori degli apostoli non accetta neanche Dio.

Obietto: se Mt 10, 5 si riferisce ai soli apostoli, e continua per un po’ con i soli 12 (tant’è che viene usata la seconda persona plurale, perché Gesù parla direttamente a loro), poco dopo il discorso viene ampliato perché si passa alla terza persona plurale (Mt 10, 32: “Tutti quelli…”) e terza persona singolare (Mt 10, 37: “Chi ama…”, sì che Gesù si rivolge a tutti). Poi va fatto notare che la stessa identica idea dell’accoglienza di Matteo si ripete in un contesto assai diverso e con parole differenti. Nel Vangelo di Luca la stessa impostazione non riguarda l’accoglienza, ma l’ascolto: «Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato» (Lc 10,16), e qui l’istruzione riguarda di nuovo tutti i discepoli (cfr. Lc 10, 1) e non solo gli apostoli.

Ma manca ancora la cosa più significativa: in tutti e tre i vangeli sinottici, troviamo «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato» (Mc 9,37; Mt 18,5; Lc 9, 48). Questi testi – anche aggiungendo Gv 13, 20,-  sono in realtà testi paralleli, dove si afferma un’equivalenza (non una differenza) che viene a identificare Gesù con Dio da una parte, e Gesù con gli esseri umani in generale dall’altra. Per cui risulta che la sequenza è questa: Dio = Gesù = essere umano. E l’equivalenza non si stabilisce solo con gli apostoli, non solo con i discepoli, ma perfino con i bambini, che all’epoca contavano “zero” come esseri umani (Castillo J.M.). Se con tali nullità (pur sempre esseri umani) s’identifica Dio, e fino ad essi si abbassa e si umilia Dio, sembra chiaro che non si tratta di un potere dato al singolo apostolo. Non c’è prevalenza dell’apostolo, ma se non si accetta l’equivalenza fra Dio e ogni essere umano, chi non accoglie l’altro essere umano che incontra sulla sua strada non accoglie neanche Dio (cfr. l’articolo Incontro con una schiava del 2000, al n. 500 di questo giornale, https://sites.google.com/site/ilgiornaledirodafa500/numero-500---14-aprile-2019/incontro-con-una-schiava-del-2000---dario-culot). Un po’ diverso dall’insegnamento tradizionale, non vi pare?

A questo punto, il perfetto osservante, sempre convinto che non possono assolutamente ammettersi altre interpretazioni, mi obietterà che nel Vangelo di Giovanni (Gv 20, 23: “a chi rimettete i peccati, sono loro rimessi; a chi li ritenete, sono ritenuti”) Gesù sta parlando ai soli apostoli (così Cenci A.M. nel suo libro La confessione), per cui solo ad essi viene concesso il potere di perdonare oppure di rifiutare il perdono dei peccati. Per cui la Chiesa fa bene a insegnare quello che insegna.

Si può rispondere che si deve analizzare tutto il contesto e non solo il singolo versetto, e confrontando questo passo con Matteo, anche questa frase (Gv 20, 23) è stata interpretata da vari teologi [6] non come un potere dato da Gesù solo a pochi privilegiati (agli apostoli), ma di nuovo come una responsabilità per tutta la comunità dei discepoli. Dopo aver fatto rilevare la stretta analogia con il “legare e sciogliere” dei sinottici, viene infatti messo in evidenza che, anche in Giovanni, sono sempre tutti i discepoli, e non i soli dodici apostoli, i destinatari dell’apparizione nella stanza a porte chiuse (Gv 20, 19-20), sì che la competenza a ‘rimettere i peccati’ viene innanzitutto concessa a tutti i discepoli: il gruppo ridotto dei dodici, nel quarto vangelo, c’è solo alla conclusione del discorso del pane (Gv 6, 67-70). L’intera comunità cristiana deve essere allora talmente traboccante d’amore (Giovanni, al cap.12, 3, usa l’immagine del profumo che inonda tutta la casa nell’unzione di Betania) deve essere talmente piena di luce, che quanti sentono il desiderio di pienezza di vita e se ne sentono attratti, hanno il passato gratuitamente cancellato (con tutti i loro antecedenti peccati) e quindi possono cominciare una vita nuova. In quest’ottica non si tratta perciò di un potere riservato a pochi privilegiati, ma di una responsabilità dell’intera comunità: tutti devono impegnarsi a liberare la gente dal passato peccaminoso diffondendo la parola di Gesù per spingere alla conversione.

E non occorre che quelli che si convertono abbiano sentito direttamente Gesù Cristo, perché la sua parola può convertire anche quando viene manifestata da altri. Infatti Gesù ha detto: «Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola» (Gv 17, 20). Dicendo “loro parola”, e non “mia parola,” Gesù conferma che il suo messaggio non è una dottrina immutabile da custodire gelosamente e poi trasmettere inalterata nel tempo e alla quale obbedire ciecamente, ma qualcosa che cresce e si arricchisce incarnandosi nei suoi discepoli. Gesù sta cioè chiarendo che non vuole dei pappagalli ripetitori della sua parola, ma vuole che il suo messaggio cresca e si arricchisca di continuo attraverso l’esperienza degli uomini, per cui, comunicando agli altri la propria esperienza, in ogni uomo che riceve questo messaggio c’è poi la possibilità di far fiorire forme nuove e creative; ecco perché Gesù dice ai suoi seguaci che riusciranno perfino a compiere opere anche più grandi di quelle che ha fatto lui (Gv 14, 12). Cosa che altrimenti non avrebbe senso.

Solo credendo alla parola di Cristo si evita di morire soffocati nel buio dei propri peccati (Gv 8, 24). Quanti non vogliono accogliere e vivere il messaggio innovativo, man mano che la luce si espande, finiscono col ritirarsi sempre più nella cappa delle tenebre, e dove ci sono le tenebre non c’è vita, ma la morte. Non ci si libera, dunque, dal peccato se si resta volontariamente nelle tenebre, o se si torna nel buio rinunciando a realizzare il progetto di Dio, per il quale l’uomo non deve rinunciare a camminare per proprio conto (Gv 5, 9-15) (Mateos J. e Barreto J., Il Vangelo di Giovanni).

Che questa sia l’inquadratura più corretta, e non quella secondo cui il papa (e il clero) ha il potere di perdonare i peccati degli uomini, sembra trovare conferma – come si è detto,-  dall’insieme del vangelo: ad esempio, nel Padre Nostro si dice «rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori»; nella versione di Luca, ancor più chiaramente si dice: «perdona i nostri peccati, come noi li perdoniamo a ogni nostro debitore» (Lc 11, 4); mica si dice “ perdona i nostri peccati dopo che ci siamo pentiti e confessati davanti al papa o un suo delegato, che ha anche il potere di darci l’assoluzione o meno,” come invece sostiene la Chiesa. Anche nel Padre Nostro, dunque, il nostro perdono è considerato come già avvenuto quando si recita la preghiera (Wengst K., Il Vangelo di Giovanni), purché anche noi riconosciamo di aver perdonato gli altri.

Ma fondamentale per inquadrare la frase giovannea nel contesto sopravvisto c’è quest’altro dato basilare: stando a tutti i vangeli, Gesù non ha mai escluso nessuno; cerca di lavare i piedi anche a chi di lì a poco lo tradirà (Gv 13, 1), nell’ultima cena offre il pane perfino a Giuda (Gv 13, 26). Pertanto è antievangelico escludere qualcuno dalla comunità, come pure chiudergli la porta in faccia o fargli trovare la porta chiusa impedendogli di entrare nella comunità. Legare e sciogliere, rimettere o non rimettere, allora, non può mai voler dire scomunicare e lanciare anatemi su altri, sicuri dell’approvazione di Dio; non si può escludere nessuno dalla comunità, perché per Gesù l’amore va dato perfino al nemico (Mt 5, 44) e l’invito è non dire mai: “sei ostinatamente disobbediente e diverso, sei un nemico, vattene!” La Chiesa ci dice che chi abortisce è scomunicato; che i divorziati o i conviventi omosessuali se rifiutano la castità non possono accedere ai sacramenti della penitenza e dell’eucarestia, anche se formalmente non sono esclusi dalla comunità. Ma cosa stanno dicendo? Se il centro della messa è l’eucaristia, come si fa a dire che l’essere impediti di avvicinarsi alla mensa del Signore non deve essere inteso come esclusione? Dire che il divorziato non è escluso dalla messa, impedendogli però di accedere alla comunione, è come invitare a cena una persona e poi tenerla lontana dal tavolo senza mangiare, a guardare gli altri che mangiano. Ma se neanche a Giuda era stato impedito di accedere all’eucaristia, come si fa ad impedirlo a qualcun altro?

In conclusione, chi non perdona e decide di estromettere l’altro dalla sua vita, sta legando il perdono di Dio non verso l’altro, ma verso sé stesso. Il perdono di Dio diventa operativo ed efficace verso sé stessi solo quando si traduce in perdono verso gli altri. Dai vangeli, invece, non si può trarre il principio, né direttamente, né indirettamente, che Pietro o qualcuno dei suoi successori ha avuto da Gesù carta bianca e che, se scomunica una persona, Dio ratifica questa scomunica. Del resto, si è più volte ormai detto che Pietro si è veramente convertito solo quando ha raggiunto questa conclusione: «Dio mi ha mostrato che non si deve evitare nessun uomo come impuro» (At 10, 28). Dunque se è stato Dio stesso, non una sua conclusione, che gli ha insegnato questa verità, come si può pensare che al contempo Dio gli abbia dato il potere di estromettere qualcuno dalla comunità perché impuro? Questo forse Pietro l’avrebbe pensato e fatto prima della conversione.

Infine, a ulteriore conferma che il legare e sciogliere (o il perdonare i peccati) non centra nulla con l’idea di poter comandare (riservata al clero) e soprattutto con l’obbligo di obbedire (dei fedeli) va ribadito che mai, nei vangeli, Gesù chiede obbedienza a sé. Mai chiede obbedienza a Dio. Mai chiede obbedienza agli uomini. Immaginarsi se, non avendo chiesto di obbedire a nessuno, neanche al Padreterno, Gesù possa aver implicitamente fatto capire che bisognava obbedire a Pietro e ai suoi successori!

 

Dario Culot

     

[1] Sulle ben tre scomuniche subìte dal grande imperatore, e sulle loro ragioni politiche (che probabilmente interessavano assai poco il Padreterno) si può consultare l’enciclopedia Treccani (http://www.treccani.it/) oppure https://cronologia.leonardo.it/storia/biografie/federsve.htm). Da notare poi che Federico II (che, fra l’altro, parlava anche arabo) col dialogo e con accordi politici ottenne senza spargimento di sangue quello che il papa voleva ottenere con una nuova crociata, cioè con la guerra.

[2] Cfr. la Bolla inter Caetera. Testo italiano in https://www.cathopedia.org/.

[3] Fisichella D., Il miracolo del Risorgimento, ed. Carocci, Roma, 2010, 95: lo scrittore, arrestato in Piemonte nel 1736, non fu mai estradato, ma morì in carcere nel 1748.

[4] Cfr. l’articolo Perché Dio non è conoscibile con la ragione al n. 442 di questo giornale (https://sites.google.com/site/numeriprecedenti/numero-442---4-marzo-2018/perche-dio-non-e-conoscibile-con-la-ragione)

[5] Lettere pontificie che pronunziano la scomunica maggiore contro gli usurpatori d’una parte degli Stati della Chiesa, Roma 2 aprile 1860, pp. 3-10, riprodotto in Mack Smith D., Il risorgimento italiano. Storia e testi, ed. Laterza,  Bari, 1968, 551-555.

[6] Cfr. Schnackenburg R., Il Vangelo di Giovanni – Commentario teologico del Nuovo Testamento, ed. Paideia, Brescia, 1981, P.III, 540. Wengst K., Il Vangelo di Giovanni, ed. Queriniana, Brescia, 2005, 744. Santi Grasso, Il Vangelo di Giovanni, ed. Città Nuova, Roma, 2008, 771s. Maggi A., Da siate santi a compassionevoli, relazione tenuta a Rovigo nel 2009, 60 s.