Giovanna

Discesa al Limbo, Alonzo Cano, 1640 - Los Angeles County Museum of Art 

- immagine tratta da commons.wikimedia.org

«Erano Maria di Màgdala, Giovanna e Maria di Giacomo.»

Così Luca, al versetto 10 del capitolo 24 narrando della visita alla tomba vuota di Gesù di Nazaret, ma molto prima, al versetto 3 del capitolo 8 sempre del Vangelo di Luca, la presenza femminile che si frappone tra le due donne di nome Maria viene descritta come moglie (ghynè, in greco) di tale Cusa, funzionario di Erode, anzi suo procuratore (Ἰωάννα γυνὴ Χουζᾶ ἐπιτρόπου Ἡρῴδου).

C’è una sintesi potente qui di concentrazione di potere politico, maritale, patriarcale e contemporaneamente di intollerabile affermazione di libertà, di autonomia, di propria determinazione personale.

Cusa non era morto, così almeno penso, e non si era separato da Giovanna. Cusa sapeva ma non seguiva il rabbi di Nazaret.

E non lo faceva perché era un potente ed i potenti non corrono dietro ai miserabili, ai rivoluzionari, agli utopisti.

Giovanna inseguiva un sogno, anzi lo attuava, lo realizzava, lo celebrava.

Di loro eventuali figli non viene detto nulla, che Giovanna amasse il marito neppure si precisa e non è realtà scontata come forse immagineremmo noi, il matrimonio non era prima di tutto questione d’amore da sancire, ma di assetti precisi da stabilire nella propria vita onde non rimanere esclusi da ogni consesso sociale e da ogni comprensione anche psichica del proprio sé più profondo.

Giovanna oggi è una donna dello Sri Lanka che pregava ed è stata ammazzata dalle bombe.

C’è un dire mellifluo ed insopportabile della fede cristiana vissuta come esperienza d’amore per il Cristo, senza nessun coinvolgimento destabilizzante ed improprio, anzi quasi come collante di accettabilità e rispettabilità.

Invece quell’essere “con-lui” è una sovversione completa, significa stare con un altro amore, uno diverso, ulteriore, non preventivato, non giustificabile, non addomesticabile, bensì esagerato, eccedente, fuori, quasi alieno eppure mai alienante, anzi capace di ricondurre a libertà.

I “procuratori” cosa possono fare se la moglie va dietro ad un amore simile? Possono ripudiarla, chiedere la separazione, oppure possono lasciare che vada senza fare assolutamente nulla ma dapprima attendendo, forse sperando in un ripensamento, e poi lasciando che i pensieri vengano, tutti, che inquietino, che pongano interrogativi, che sconquassino.

Cusa lo avrà fatto? Non lo sappiamo con certezza, ma sappiamo che viene nominato, che dunque la sua condizione è ben identificabile. Qualcuno avrebbe potuto venire a chiedergli conto della moglie che seguiva un predicatore itinerante. E che avrebbe risposto il marito? Se la risposta fosse stata del tipo “non ne voglio più sapere”, di Cusa non ci sarebbe traccia, il suo nome sarebbe stato doverosamente ignorato, non avrebbe avuto nulla a che spartire con una donna così.

In Luca c’è uno stato profondo narrativo di un movimento femminile gesuanico che poi la logica maschio-centrica ha represso, costretto a forza in maglie ermeneutiche che potessero consolidare le categorie del “lui” divenuto universale, del riferirsi all’Uomo come maschio appunto, neutralizzando le differenze e generalizzando un unico genere.

La resurrezione non avviene in presenza di alcun testimone, ma le donne, non gli uomini maschi, sono coloro che scoprono la tomba vuota, scoprono un’assenza. Sono impaurite, lo annota Luca o chi per lui, forse non senza un certo compiacimento, e devono essere – rieccoci – due uomini in vesti splendenti a rassicurarle, quasi loro, le donne, non ci potessero arrivare da sole. Solo che la valenza simbolica e maieutica del quadro si capovolge ancora, perché la rivelazione della risurrezione è affidata alle donne. Dio – nel simbolo dei due uomini angelici – parla a tre donne, anzi ad un gruppo ancora più numeroso (“le altre che erano con loro”, sempre al versetto 10 del capitolo 24). Una folla di donne e due angeli. Una folla di donne che riceve un mandato, che va a raccontare gli Undici “e a tutti gli altri”.

E c’è Giovanna, moglie di Cusa, che riceve una consegna di fede e racconta. Racconta follie, parole che parvero ad essi come un’allucinazione, non manca di annotare quella mano scrivente di quella narrazione sottostante, profonda, terragna, tellurica. “Non credettero alle donne”. Versetto 11.

A mio sensazione, Cusa invece credette eccome a sua moglie, non la considerò un’esagitata, una fanatica, una allucinata, ma un’innamorata. Innamorata di un altro, senza dubbio. Innamorata, addirittura, di qualcosa più che di qualcuno, di un progetto, di un ideale, di quel “Regno” che era la passione del Maestro ammazzato in croce.

Il Cristo è Gesù di Nazaret, afferma la fede dei cristiani, ma una simile affermazione travalica necessariamente la contingenza storica e si fa – come si dice – “cristologia”, un riconoscimento di “cristicità” che sostanzia persone, popoli, nomi, drammi, storie, volti, che attraversa i tempi, i secoli, i millenni, le ore, che si concretizza in un’agonia in ospedale o in casa abbandonati, in un amplesso amoroso, in un gioco di bambini, in un canto di monastero, in una frenata di bus, in un appunto di lavoro d’ufficio.

Il “cristico” alla Teilhard de Chardin è qualcosa che Giovanna, moglie di Cusa, ha capito, ha avvertito, ha sentito, ha visto realizzato.

La fede è inutile, come l’amore. Anzi non c’è distinzione: chi crede davvero non può fare a meno di amare in ogni modo possibile ed immaginabile, anche molto ma molto peccaminoso; chi ama non può fare a meno di credere in ogni modo possibile, anche molto ma molto insopportabile, come fosse racconto di allucinazioni.

Perché poi resta una domanda: la risurrezione di Yeshua era desiderata dalle donne o no? Se non lo fosse stata, sarebbe stata per davvero una specie di delirio malato, una sorta di violenza psichica imposta da chissà chi e come oppure anche autoimposta. Ma se corrispondeva ai loro desideri, quella fede era semplicemente innamoramento fatto finalmente amore.

Buona Pasqua.

 

Stefano Sodaro