Tutto in tutti

Rifugio Coldai, Val di Zoldo - foto tratta da commons.wikimedia.org

L’omelia di Ernesto Balducci per l’odierna 18ma domenica del Tempo Ordinario dell’anno C – secondo la liturgia romana -, contenuta nella raccolta Il mandorlo e il fuoco, edita da Borla nel 1983, ha un titolo che può risultare sconcertante se non francamente inaccettabile: “Il nichilismo della fede”.

Afferma il celebre prete scolopio, dopo una domanda che inquieta: «Qual è l’errore? È la finzione della sicurezza. È fingere che vivere abbia un senso. È partire dogmaticamente da una scommessa sulla vita e sulla storia e sugli ideali della storia. Allora tutto ciò che circoscrive di tenebra, di non senso, di provocazioni nichilistiche l’area del fervore umanistico, viene rimosso, tenuto ai margini. Ma, prima o poi, ciò che è rimosso entra violentemente nella coscienza ed abbiamo la crisi, il delirio della fine. (…) Occorre integrare nella nostra coscienza la parola del nichilismo. (…) Voi capite allora come, a questo livello, noi possiamo dialogare coi non credenti, con i nichilisti, con gli atei, con tutti quelli che hanno ripugnanza di fronte alle alienazioni. (…) non si dà veramente, nella storia, la lotta tra l’ateismo ed i credenti, perché il credente ha dentro di sé il principio di negazione che è quello stesso dell’ateo. Il vero nemico del credente è l’idolatra, non l’ateo. È l’idolatria l’opposto della fede e ci sono atei i quali sono strenui apostoli contro le ideologie. Anche se essi relegano la fede nell’ambito delle illusioni, però la loro negazione degli idoli ci appartiene, fa parte integrante della nostra stessa esperienza di fede, della purificazione della fede che abbiamo ereditato. La quale, perché non riconoscerlo?, troppe volte si è piegata alle idolatrie, le ha consacrate. (…) Per questo oggi, fatti maturi da un’esperienza storica così turbinosa, dobbiamo attraversare la notte del nichilismo. Non fuggirla, attraversarla, per cogliere tutta la verità che contiene in sé. Del resto, vi dicevo, la verità della negazione del tutto è nella Parola di Dio.» (Op. cit., pp. 277-280).

Il grande teologo Karl Barth pare esprimere lo stesso afflato: «Un Dio che si limitasse a dominare l’uomo, restando lontano ed estraneo a lui in una divinità senza umanità, non potrebbe che essere il Dio di un disvangelo, di un No sprezzante, giudicante e mortifero; un Dio che l’uomo dovrebbe temere e dal quale dovrebbe fuggire, se lo potesse; un Dio che egli preferirebbe non conoscere, non potendo soddisfarlo. Sono molte le teologie che sanno trattare solo tali dèi eccelsi, sovrumani e inumani, che, come tali, possono essere soltanto iddii di disevangeli di ogni specie. Proprio il progresso divinizzato – e prima di tutto l’uomo che si ritiene in progresso – mostra di essere un dio come questi. Il Dio che è l’oggetto della teologia evangelica, è eccelso come è umile: eccelso proprio nella sua umiltà. Così il suo inevitabile No è incluso nel suo Sì all’uomo.» (in Introduzione alla teologia evangelica, Bompiani 1968, p. 15).

Eppure lo scandalo resta, permane. Quale scandalo? Quello del male, o meglio: quello del ritenere che vi siano nella nostra esistenza zone buie che solo l’etica può illuminare, solo un giudizio morale può far attraversare. Un po’ il contrario della riflessioni sopra sintetizzate. C’è un Dio garante non della libertà, bensì della norma e non è sempre detto che la norma liberi.

Ciò che resta normato e basta permane, si indurisce, si fa quasi ostile, diventa pietra. La dolomia riluce, la pietra di montagna è viva, ma esiste anche la pietra dei sepolcri che decreta la verità della legge del vivere. Bella norma non c’è che dire.

Si ritiene, prima di tutto, che la morte stia all’opposto della vita - mentre sta all’opposto dell’amore - e poi che la dimensione mortifera della nostre normali esistenze sia appalesata, certificata, dal sopravvento delle cosiddette “perversioni” contro cui, dalle casematte delle nostre morali, non si riescono a puntare ogive sufficientemente efficaci.

Le perversioni hanno nomi diversi, ognuno di noi ne potrebbe appioppare uno a qualcuno.

La morte resta, dunque, come restano le perversioni, come resta lo scandalo. Ma scandalo è anche ritenere che il male non esista, che il dolore non abbia importanza, che le ferite, una volta rimarginate, non si notino.

Lo scarto invece c’è, lo scostamento è palpabile, talvolta definito come “la differenza”. Che è la finitezza del nostro essere, ma che è anche il ritenere esauribile l’amore, non poliedrico, non prismatico, non polifono, non policromo. Un amore monolitico duro come pietra, per appunto.

Che accade allora alla fine? Va a finire bene o va a finire male?

Paolo, nella Lettera ai Colossesi – al versetto 11 del capitolo 3 – lascia senza fiato: “Qui non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto in tutti.”

Come a dire: non c’è morte, peccato, perversione che tenga. Il loro durare è ancora ostinazione identitaria di una realtà muta, mentre quel “tutto in tutti” indica un’ “onni-esistenza”, una pervasività dell’Essere, che, similmente alle parole di Balduccci (e a quelle di Barth), mette sconcerto ed imbarazzo, approssimandosi quasi ad una specie di panteismo. Cristo tutto in tutti. Un Essere che non è ontologia ma relazione, non profondità ma superfice, non verticalismo ma orizzonte.

L’eventuale accusa, o l’eventuale sospetto, si ritorce contro l’accusatore, o il malfidato. Il panteismo appartiene alle serie di eresie che – di nuovo – solo un apparato moralistico si industria di definire e condannare. A noi che cosa importa? Importa questa divina presenza diffusa ovunque, scostandoci sempre, con grande cura ed attenzione, da ogni incasellamento metafisico.

La montagna è stata spesso additata simbolicamente, ad esempio nei campi estivi giovanili delle parrocchie, come un punto là in alto che permette di elevarsi al di sopra della medietà ordinaria, al di sopra della storia quotidiana, per coltivare ben altri, immensi, pensieri. Lo spirito che abbandona la materia, la vince, la domina. Ancora una separazione, un recinto sacro, una zona da non profanare, una purezza da non contaminare.

Il silenzio delle montagne è invece, al contrario, tutto materia, ripieno di cose, di volti, di sogni, di idee, di parole, di scritture, di significati, di speranze, di delusioni, di frustrazioni, di fallimenti, di nuovi inizi.

Il filo d’erba è il tutto di Cristo così come il desiderio dell’amante. Le perversioni sono i cantucci oscuri dove far morire ogni luce. Il Cristo tutto in tutti è lume – debole – che rischiara senza accecare, senza abbagliare, un conforto dello sguardo, non una sua correzione scintillante.

Nel testo greco del brano del Vangelo di Luca, allorché l’uomo ricco per il raccolto abbondante pensa di poterne finalmente godere, esprime il proprio compiacimento non lodando “il tutto in tutti”, bensì rivolgendosi alla sua propria “psyché”, che il testo liturgico italiano traduce con “anima”. È un compiacimento psichico, molto egoistico, molto individualistico. Quand’anche esistesse, come ci insegnano del resto le scienze, una “comunione psichica”, una standardizzazione cioè di costanti che possono delineare un vero e proprio comportamento psichico, qui l’uomo ricco resta senza nome, così come innominata e morente resta la sua anima, o “psiche”. Una esistenza ricacciata nella gabbia della perversione oscura, una perversione che non s’è rischiarata dallo scoprire entusiasta “tutto in tutti”, e dunque anche la propria conturbante presenza come un dato di esperienza da setacciare e non da sotterrare.

Con un linguaggio forse anche molto lontano dalla nostra attuale sensibilità, Karl Barth, nel sermone tenuto al penitenziario di Basilea il 31 dicembre 1961, esprimeva ben più intensamente del presente mio sbecconcellemento la fiducia nel medesimo “tutto in tutti”: «Ci deve essere strappato il terreno sotto i piedi – ogni giorno e ogni anno e sempre più chiaramente e con maggiore energia, affinché ce ne rediamo conto e impariamo a tenerci saldi sempre meglio, a vivere di ciò che rimane eterno, nella fede, quindi, nella speranza e nella carità che la parola di Dio crea in noi. Deve dunque rimanere ciò che realmente dura: la parola del nostro Dio e la sua opera. Per questo il grande trapasso, per questo il fiume sul quale noi veniamo strappati alla fine. È bene che sia così e non ci poteva accadere nulla di meglio.» (in Invocami! Prediche dal penitenziario di Basilea, Morcelliana 1969, pp. 90-91).

Dietro la montagna ora è comparsa la luna.

Buona domenica,

 

Stefano Sodaro