Del corpo, dello spirito e del suono dello shofar

Shofar-Sabbath-Horn-Yemenite-Jew, 

Library of Congress Prints and Photographs Division Washington, D.C. 20540 USA

- foto tratta da commons.wikimedia.org

Inizia domani il nuovo anno ebraico. Inizia Rosh Hashanà – e prosegue sino a martedì sera -, il Capodanno del Popolo d’Israele.

Domani sarà necessario ascoltare, in tutte le sinagoghe, il suono dello Shofar, del corno d’ariete, che annuncia l’avvenuta riconciliazione degli uomini con Dio e degli uomini tra sé.

È riconciliazione che segue alla confessione del proprio peccato, ma tale confessione non è rivelata, esposta, ad un ministro sacro, è piuttosto un riconoscimento interiore che obbliga ad un certo comportamento.

Nei testi biblici il peccato è questione di fede prima che di etica.

Ad esempio, la dimensione sessuale è totalmente desacralizzata e l’adulterio è solennemente condannato – come in tutte le culture dell’area europeo-mediorientale – perché incrina il riferimento al Dio unico, il monoteismo, introducendo una frattura non più ricomponibile. “Non commettere adulterio” è un obbligo assoluto, privo di giustificazioni, privo di spiegazioni, perché la fede – che va interrogata interiormente – non richiede d’essere spiegata a parole raziocinanti. È un fidarsi assoluto come accadde ad Abramo per il sacrificio del figlio Isacco.

Però l’unirsi nella carne non è unione con Dio: ogni forma di prostituzione sacra viene rigettata nelle Scritture. E tra l’obbligo di riferimento al Solo Uno e la concretezza della vita quotidiana passa la complessità di un attraversamento senza scorciatoie del tempo e della storia, tra contraddizioni d’ogni tipo, sino addirittura a non saper più discernere tra voce di Dio e voce del Male. Una complessità così intricata e quasi impossibile da sciogliere che il Libro del Levitico scende a dettagli minuti nel tentativo di dipanare un amalgama di colori esistenziali talmente intensi da dare il capogiro, la nausea.

Il n. 48 della vigente IV Istruzione della Congregazione per il Culto Divino intitolata “Varietates legitimae”, del 25 gennaio 1994, venticinque anni fa, così dispone: «L’ammissione di riti o gesti tradizionali nei rituali dell’iniziazione cristiana, del matrimonio e dei funerali è una tappa d’inculturazione, già indicata nella costituzione «Sacrosanctum concilium». Ciò potrebbe tuttavia risultare anche un momento in cui la verità del rito cristiano e l’espressione della fede possono essere facilmente sminuite agli occhi dei fedeli. La ripresa degli usi tradizionali deve accompagnarsi a una loro purificazione e, se necessario, a delle rinunce. La stessa cosa vale, ad esempio, per l’eventuale cristianizzazione di feste pagane o di luoghi sacri, per l’attribuzione al sacerdote delle insegne di autorità riservate al capo nella società, per la venerazione degli antenati. S’impone, in ogni caso, di evitare ogni ambiguità. A più forte ragione la liturgia cristiana non può assolutamente accogliere riti di magia, di superstizione, di spiritismo, di vendetta o a connotazione sessuale

I numeri 124 e 125 dell’Instrumentum Laboris del prossimo Sinodo per l’Amazzonia affermano invece così:

«124.      La Sacrosanctum Concilium (cf. 37-40, 65, 77, 81) propone l'inculturazione della liturgia tra i popoli indigeni. Certamente la diversità culturale non minaccia l'unità della Chiesa, ma esprime la sua autentica cattolicità mostrando “la bellezza di questo volto pluriforme” (EG 116). Por questo “bisogna avere il coraggio di trovare i nuovi segni, i nuovi simboli, una nuova carne per la trasmissione della Parola, le diverse forme di bellezza che si manifestano in vari ambiti culturali…” (EG 167). Senza questa inculturazione la liturgia può ridursi in un “pezzo da museo” o in “un possesso di pochi” (EG 95).

125.      La celebrazione della fede deve avvenire con l’inculturazione perché sia espressione della propria esperienza religiosa e del legame di comunione della comunità che celebra. Una liturgia inculturata sarà anche una cassa di risonanza per le lotte e le aspirazioni delle comunità e un impulso trasformatore verso una “terra senza mali”.»

Ed alla lett. a) del n. 126 si legge così:

«126.      Si suggerisce di tenere presente quanto segue:

a)      Si costata la necessità di un processo di discernimento riguardo ai riti, ai simboli e agli stili celebrativi delle culture indigene a contatto con la natura che devono essere assunti nel rituale liturgico e sacramentale.  È necessario stare attenti a raccogliere il vero significato del simbolo che trascende ciò che è puramente estetico e folcloristico, in particolare nell'iniziazione cristiana e nel matrimonio. Si suggerisce che le celebrazioni siano di tipo festivo con la propria musica e la propria danza, nelle lingue e nei vestiti autoctoni, in comunione con la natura e con la comunità. Una liturgia che risponda alla propria cultura perché sia fonte e culmine della loro vita cristiana (cf. SC 10) e legata alle loro lotte, sofferenze e gioie.»

Il sacramento non è dunque (più) qualcosa di separato dalla vita, in un raffronto rigidamente monolitico con il Dio Uno, ma abbraccia l’intero simbolismo di culture anche totalmente distanti dai nostri riferimenti, dalle nostre pratiche, dalle nostre abitudini.

Un indio della foresta amazzonica che ascoltasse il suono dello Shofar che cosa penserebbe dunque? Non sono in grado di rispondere, ma pongo solo la domanda.

Così pure la lettura del Decalogo nel contesto amazzonico, penso, deve farsi carico della medesima necessità di discernimento riconosciuta per la liturgia.

Intanto inizia domani l’anno 5880.

Shanà Tovà.

 

Stefano Sodaro