Uno scisma non fa paura

 Ritratto di papa Alessandro VI, Cristofano dell'Altissimo (1525-1605),

olio su tela, Galleria degli Uffizi, Firenze

- immagine tratta da commons.wikimedia.org

C’è papa e papa, dal momento che non sembra che Alessandro VI Borgia abbia molto in comune con Francesco Vescovo di Roma, la situazione non è eccellente - e non solo ecclesialmente, anzi, i paradossi politici sbaragliano ogni fronte ideologico e persino chi predica odio è diventato un simpatico semplice “cattivista”, bonaccione e per nulla pericoloso (quasi quasi lo inviteremmo a cena) -, eppure uno scisma non fa paura.

Lo ha affermato il Papa nel viaggio aereo di ritorno dall’Africa: «Uno scisma è sempre una situazione elitaria, un’ideologia staccata dalla dottrina. Per questo io prego che non ci siano gli scismi. Ma non ho paura. Comunque io parlo delle cose sociali. Le cose sociali che io dico sono le stesse che ha detto Giovanni Paolo II, le stesse, io copio lui. “Ma il Papa è troppo comunista”, e così entrano delle ideologie nella dottrina, e quando la dottrina scivola sull’ideologia lì c’è la possibilità di uno scisma. L’ideologia è la primazia di una morale asettica, sulla morale del popolo di Dio. La morale dell’ideologia ti porta alla rigidità, e oggi abbiamo tante scuole di rigidità dentro la Chiesa, che non sono scisma, ma sono vie cristiane pseudo-scismatiche che finiranno male: quando voi vedrete cristiani, vescovi, sacerdoti rigidi, dietro di loro ci sono dei problemi, non c’è la sanità del Vangelo.» (cfr. https://www.lastampa.it/vatican-insider/it/2019/09/10/news/il-papa-non-paura-di-uno-scisma-nella-chiesa-1.37435836).

E poi, appena ieri, nell’udienza alla Polizia Penitenziaria, al Personale dell’Amministrazione Penitenziaria e della Giustizia minorile e di comunità, il Papa venuto dalla fine del mondo è giunto a pronunciare simili parole: «L’ergastolo non è la soluzione dei problemi - lo ripeto: l’ergastolo non è la soluzione dei problemi -, ma un problema da risolvere. Perché se si chiude in cella la speranza, non c’è futuro per la società.» (cfr. https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2019/09/14/0698/01435.html).

L’eventuale scisma, in effetti, non è difficile da configurare: è accarezzato da chi, a differenza del Papa, crede fermamente nell’ergastolo, come rimedio compensativo al male commesso, come espiazione cioè, e come deterrente, non molto dissimile dunque dalla pena di morte benché ammantato di un’apparente umanità che lascia sopravvivere senza lasciar vivere.

Il coro è possente, i coristi milioni, lo spartito sempre il medesimo: “Vadano in galera! I delinquenti vadano in galera!” C’è in giro, diffusissimo, un grande desiderio di carcere come terapia sociale, come antidoto ad ogni disgrazia che attenti alla nostra tranquillità e sia allocabile presso responsabilità altrui.

E chi è il delinquente? Chi trasgredisce la legge. Delinque chi non obbedisce alla legge, chi commette quell’azione che la legge vieta e punisce.

Chi si sottrae all’obbligazione derivante da un contratto propriamente in realtà non delinque, è un debitore inadempiente. Ma l’aura dell’illiceità l’avvolge e, finché non ha adempiuto, lo stigma lo segna senza possibilità di cancellazione.

Il Papa che critica l’ergastolo è un Papa che merita uno scisma, questo il pensiero che affiora da un’opposizione sempre più marcata e virulenta verso Francesco. 

Eppure il Papa non se ne preoccupa: che lo facciano pure, amen.

Il paradigma culturale di Francesco è quello, pubblico, pubblicistico, della teologia della liberazione.

Il paradigma culturale degli scismatici è quello, privato, privatistico, del neoliberismo.

Per gli scismatici, per quanto paradossale, l’etica privata non è così importante – fino ad essere antidivorzisti e fautori della famiglia tradizionale benché con più d’un divorzio alle spalle –, perché di nulla va reso conto a nessuno e l’etica pubblica dovrebbe dunque essere mero riflesso di questa indifferenza etica privata.

La teologia della liberazione ha un impianto concettuale completamente rovesciato – e secondo alcuni molto “cattolico” (in senso deteriore, ma si tratta di vero e proprio travisamento metodologico di approccio, piuttosto grave): io so d’essere un errante, un peccatore, un misero e, siccome ad essere così non sto tanto bene, desidero che anche la miseria, la povertà, l’oppressione degli altri sia alleviata, anzi avverto che solo se gli altri, divenuti protagonisti della scena pubblica, stanno bene, anch’io starò bene e non il contrario. Sarà pure prospettiva molto cattolica, ma il riconoscimento della propria radicale insufficienza era cavallo di battaglia confessionale anche di un certo Martino, di cognome Lutero.

Le separazioni identitarie di appartenenze diverse lasciano il tempo che trovano davanti ai compiti che la teologia della liberazione ritiene qualificanti della fede cristiana e non differibili e non supplementari.

È emblematica la catechesi del Papa sul sesto comandamento, “Non commettere adulterio”: «La fedeltà infatti è un modo di essere, uno stile di vita. Si lavora con lealtà, si parla con sincerità, si resta fedeli alla verità nei propri pensieri, nelle proprie azioni. Una vita intessuta di fedeltà si esprime in tutte le dimensioni e porta ad essere uomini e donne fedeli e affidabili in ogni circostanza.» (cfr. http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2018/documents/papa-francesco_20181024_udienza-generale.html). 

Il concetto di fedeltà, in perfetta coerenza con Amoris Laetitia, e con gran dispetto degli aspiranti scismatici, viene del tutto “desessualizzato” e ricondotto ad una visione complessiva della vita e delle relazioni. Ma si pone così un bel problema anche alla nostra stessa sensibilità che vorrebbe ben separati gli ambiti, con un auspicabile recupero delle nostre individuali ragioni, non così disposte a desesualizzare.

Il pensiero individualista, privatista, privatistico, pretende che chi amo non ami altri o che chi amo non sia amato da altri e non offra il suo amore ad altri. Viene anzi additata, questa tensione al possesso, come legittima aspirazione al coronamento dell’amore, ad ottenere una necessaria garanzia di amore vero, tanto che, nella gigantografia neoliberista pansessuale, ogni coppia di amanti ritiene di non avere nulla a che spartire con i ruoli tradizionali ad essa assegnati. 

Invece vi è una koinè dell’amore, una casa comune, un ecumenismo dell’amore che permette di sminare il campo delle relazioni, degli affetti, da gelosie e nascondimenti perché il nostro amore, mio e tuo, è amore linguaggio di tutti, non di pochi eletti, non di quella élite che, appunto, sceglie l’isolamento dello scisma.

Se si pone attenzione, ragionare di élite piace molto a certa opinione neoliberista, è anzi di gran moda.

Ad un teologo della liberazione importa invece, interessa molto, parlare di popolo, non di élite. È proprio una prospettiva capovolta.

“Io parlo delle cose sociali”, dice il Papa. Ma “parlare delle cose sociali” cozza contro la lode della fuga nel paradiso privato, spesso ritagliato pure nel mentre delle occupazioni quotidiane e tutte diverse, come a porre una resecazione, un taglio, tra la mia vita e un’altra vita, tra ciò che sono pubblicamente, integerrimo, e ciò che sono privatamente, forse non così integerrimo. Che nessuno però lo sappia e che, poi, in particolare, nessuno teorizzi una qualche osmosi tra questi due mondi paralleli. 

Il vitello d’oro, di cui parla la prima lettura odierna nel rito romano – dal capitolo 32 del Libro dell’Esodo -, è l’impazzimento di far diventare pubblica a forza quell’eccitazione orgiastica (od orgasmica) di cui non s’è osato far parola con nessuno perché costretta negli antri oscuri della più pudibonda intimità e soverchiata da insopportabili sensi di colpa. Quando si reprime qualcosa, quel qualcosa esplode, fonde il metallo e ne fa un idolo, un dio privato, ci risiamo, condivisibile cioè solo nella mia cerchia.

Pure il padre della celeberrima parabola del cosiddetto “figliol prodigo” desessualizza ogni colpa dell’amato che ritorna a casa, non gliene importa nulla. Alle “prostitute” fa un cenno sprezzante il fratello maggiore, non il padre e nemmeno il figlio “colpevole”. 

Padre e figlio che ritorna “parlano di cose sociali”, ritessono una relazione per motivi di convenienza – “a casa stavo bene” – o per motivi di corrisposto amore viscerale (non si creda che tra convenienza e amore viscerale esista poi un baratro, perché la prima coglie quanto “convenga” amare ed il secondo comprende quanto l’amore debba essere “conveniente” per non tramutarsi in moralismo), ma lasciano andare ogni analisi privatistica, ogni minuziosa elencazione di privatissimi peccati, di cui si preoccupa piuttosto il figlio elitario, il figlio scismatico.

Viene abbozzato il disegno di un mondo altro, forse onnigamico secondo il lessico rodafiano, che in molti ancora non conosciamo, Rodafà compreso a scanso di malintesi.

Questa settimana inizia a Roma il 24° Congresso Internazionale della Society for the Law of the Eastern Churches (cfr. https://www.slec-web.org/upcoming-congress), il cui programma prevede anche l’incontro con Francesco Papa giovedì 19 settembre.

L’Oriente Cristiano, ma in particolare Cattolico, deve riuscire ad attraversare la complessità culturale interpellata dal Papa attuale senza simpatie scismatiche, senza nostalgie di cristianità perduta che garantiva feudi privati di potere, che fossero in ambito propriamente politico od anche soltanto domestico. Il mondo postmoderno è il mondo da amare con la tenerezza del Vangelo, quella del padre materno, quella di chi “parla delle cose sociali”, perché di quelle non sociali parlerà la coscienza ad ognuno e ognuna di noi.

Se poi lo scisma ci sarà, non sarà di persone felici.

Buona domenica.

 

Stefano Sodaro